venerdì 19 maggio 2017

Danni del terremoto 2015 alla piazza centrale di Kathmandu

I danni al palazzo reale e le piante dedicate alle vittime
dei crolli, sui gradini dove sorgeva il tempio di Narayan
Qualche giorno fa siamo ritornati a Kathmandu, per la prima volta dopo il terremoto che ha colpito il Nepal nell’Aprile-Maggio 2015.
Purtroppo dobbiamo riportare che i danni al patrimonio artistico della città sono stati notevoli, mentre, per fortuna, ci sono sembrati limitati quelli ad altri edifici pubblici ed abitazioni.
Probabilmente questo è dovuto al fatto che i templi furono costruiti molti secoli fa, con materiali piuttosto fragili, mattoni e legno, mentre gli edifici più moderni, grazie all’uso del cemento armato, anche solo che parziale, hanno opposto alla onde sismiche una maggior resistenza.

Provenendo da Pokhara e passando nel distretto di Gorkha, vicino all’epicentro della prima grande scossa, non abbiamo incontrato la devastazione che ci aspettavamo, trovando ancora in piedi costruzioni decrepite anche prima del sisma.
Addirittura era già in funzione la funivia che porta al famoso tempio di Mahakamana, situato poco lontano da Gorkha: il tempio in sé pare avesse subito alcuni danni ma sostanzialmente era rimasto in piedi, mentre riguardo le sorti del piacevole ed utile servizio offerto dalla funivia avevamo qualche dubbio.

La periferia di Kathmandu non ci è sembrata particolarmente colpita dal terremoto, semplicemente perché da sempre è formata in gran parte da costruzioni precarie, in condizioni più o meno pietose, ma sicuramente non è stato d’aiuto nel cercare di ridurle.
Anche entrando in città abbiamo fatto fatica a distinguere i lavori in corso dovuti al lento ma inesorabile progresso, da quelli di riparazione dei danni del sisma; finché non ci siamo avvicinati a Durbar Square...

Traducibile, letteralmente, come la Piazza del Palazzo Reale, la Durbar Square di Kathmandu è da secoli, forse addirittura un millennio, il centro culturale, politico, religioso, sociale ed artistico della Valle di Kathmandu, e quindi in senso lato del Nepal.
Probabilmente, anche per un valore affettivo, continuerà a mantenere alcuni di questi primati, ma i danni del terremoto l’hanno ridotta, al momento, ad una pallida e desolante copia di quello che era prima, visto che, indicativamente, la distruzione ha interessato circa il 50-60% dei templi.

Qui sorgeva un grande templio a tre tetti dedicato a Shiva, a lungo simbolo di questa parte 
della piazza
Provenendo da nord-est, abbiamo ricevuto una delle poche note positive, constatando che il giganstesco tempio di Taleju, che domina l’area, è ancora in piedi.
In realtà le impalcature di bambù e i danni ai piccoli santuari situati agli angoli sono evidenti, ma la struttura principale, grazie alla robusta “costituzione”, sembra aver assorbito le onde sismiche senza troppi problemi.
Entrando nella parte della Durbar Square sulla quella si trova l’entrata del palazzo reale chiamata Hanuman Dhoka, che dà il nome al complesso, sulla sinistra una lamiera nasconde il crollo di un tempio a pagoda, di cui sono rimasti solo i gradini, mentre gli altri tre di modeste dimensioni, hanno subito danni ma sono in piedi, sorretti da pali di legno.
Sempre su questo lato, non sembra essere stato intaccato il grande bassorilievo colorato di Bhairab, che ha resistito grazie al fatto di essere stato costruito da un unico grande blocco di pietra.
Sul lato opposto della strada che attraversa la piazza, oltre all’entrata della centrale della polizia, dei tre piccoli santuari, solo il terzo, quello che protegge una grande campana, si è salvato, seppur con qualche danno, mentre è crollato completamente il tempietto a pagoda dall’inusuale (e poco stabile) pianta ottagonale e la costruzione che proteggeva due enormi tamburi cerimoniali è stata sostituita in fretta e furia da una struttura simile, ma vuota, vista l’assenza dei tamburi; si può comuque ragionevolmente sperare che siano al momento oggetto di riparazione, senza contare che la costruzione sostitutiva forse non è ancora terminata.

La parte centrale di Durbar Square, sulla quale si trova la facciata principale del Palazzo Reale, ha subito decisamente più danni, con i tre grandi templi a pagoda completamente crollati e dei quali al momento rimangono sono gli alti gradini di mattoni.
Si è salvato, seppur con grandi crepe, il più tozzo tempio di Shiva-Parvati, caratteristico per la presenza di due sculture delle divinità che si affacciano da una finestra centrale.
Anche il palazzo della Kumari Devi (la dea bambina o  dea vivente) si è salvato senza grandi danni, seppur anche questo sia retto da vari pali di sicurezza, mentre la facciata del Palazzo Reale (del quale vedremo più avanti) porta evidenti i segni delle scosse.

Proseguendo verso sud-ovest, nella porzione della piazza chiamata Maru Tole è purtroppo crollato il Kasthamandap, l’antico edificio di legno del XII secolo dal quale prese il nome la città.
Indubbiamente l’area al momento ha un aspetto decisamente meno claustrofobico e trafficato, ma era di gran lunga più affascinante prima, anche se ad ogni passo si rischiava di essere investiti da una moto o di cascare su una pila di verdure vendute per terra su teli di plastica.
Il veneratissimo tempio di Ashok Binayak si è salvato senza danni evidenti, grazie alle dimensioni estremamente ridotte e dall’essere già di per sé costruito “appoggiato” all’edificio retrostante.

Infine, tornando nella zona centrale e girando verso Basantapur Square, si possono purtroppo ammirare a pieno i danni alla lunga parete laterale del Palazzo Reale.
In realtà, questo grande edificio imbiancato in stile occidentale, dotato di un imponente colonnato, ci è sempre sembrato leggermente fuori luogo tra l’architettura locale a base di mattoni e legno, ma l’attuale aspetto sventrato, con la vegetazione che inizia a crescere tra le rovine, è decisamente peggiore.
Purtroppo la parte posteriore antica ha subito ancor più danni con il crollo degli ultimi piani della Basantpur Tower.

Magra consolazione, ora si possono osservare i tetti di due costruzioni che si trovano nel cortile interno del Palazzo Reale: l’elaborata cima di una torre, probabilmente la Torre di Kirtipur, in uno stile simile all’ormai defunta Torre di Basantapur, ed il Panchamukhi Hanuman Temple, caratteristico per possedere ben cinque tetti ed un’inusuale pianta circolare.

mercoledì 17 maggio 2017

La dea vivente Kumari Devi

Le finestre dalle quali si affaccia la Kumari Devi
Una delle figure più caratteristiche della cultura induista nepalese è quella della Kumari Devi, la Dea Vivente.
Letteralmente il nome significa Dea Principessa e viene usato per descrivere una bambina considerata a tutti gli effetti una divinità, fino all’età del primo ciclo mestruale o di una qualunque altra grave perdita di sangue.
In quel momento viene spogliata del suo titolo, e vengono effettuate delle laboriose selezioni per eleggere la nuova bambina sulla quale cadrà il compito di rappresentare la divinità Taleju Bhawani, una forma benevola della dea Durga.
Alloggiata presso il bel Kumari Bahal (Palazzo della Kumari) nella piazza centrale di Kathmandu, la Kumari Devi vive in uno stato di quasi completo isolamento dal mondo esterno, escluse un paio di fugaci apparizioni giornaliere dalle finestre del cortile interno e durante le più importanti feste religiose, quando viene portata in processione sopra un palanchino per le vie della città.

Le origini di questa tradizione sono poco chiare e tra le numerose leggende che la riguardano nessuna sembra avere una netta predominanza sulle altre; il fatto comunque rimane, come il dubbio che si tratti di un’usanza ai limiti del grottesco.
Segregare una bambina all’interno di un palazzo, per quanto ampio e bello, durante gli anni più importanti della sua crescita, venerarla come una Dea e quindi liquidarla con un vitalizio economico e qualche terreno una volta che diventa adulta, non sembra un costume consono ad una società civile del XXI secolo.
Ciò che preoccupa è soprattutto il fato di queste ragazze una volta terminato il loro periodo di dee viventi, visto che in passato, a causa di forti superstizioni, per loro non era facile trovare marito, ed in una società conservatrice come quella nepalese, questo poteva essere effettivamente un grosso problema.
In tempi moderni sembra che siano tutte riuscire a sposarsi, a parte quelle più giovani, e considerati i doni che le vengono offerti finito il loro compito “divino”, in genere non hanno grossi problemi a crearsi una nuova vita.

Particolare di un bassorilievo rappresentante la dea Taleju
Alcuni anni fa, un interessante signore nepalese che lavorava in un negozio di alimentari in Freak Street a Kathmandu, ci raccontò di aver conosciuto una ex-Kumari, che vive ad Harisiddhi, una zona sacra e sud della Valle di Kathmandu, e ci diede alcuni piccoli dettagli.
Per esempio, una felice sorpresa è stato apprendere che viene molto rispettata dalla gente comune per il suo passato, ma non in maniera eccessiva o impegnativa.
Avendo ricevuto un buon terreno, in aggiunta alla pensione, anche se quella ragazza non era ancora sposata, poteva provvedere tranquillamente ai propri bisogni.
E soprattutto pare che, in realtà, il problema del matrimonio non sussista, visto che per coloro i quali non credono alla superstizione, una ex-Kumari al contrario è una moglie ambita.

Come per molte tradizioni tipiche della Valle di Kathmandu, ognuna della tre città storiche, Kathmandu, Patan e Bhaktapur, possiede la propria dea vivente, seppur quella della capitale sia da sempre è la più importante e venerata.
Considerando che il palazzo della Kumari è una della poche costruzioni della Durbar Square (Piazza Reale) sopravvissute al terremoto del 2015, una visita al suo piccolo ma elaborato cortile interno è sicuramente interessante, magari tra le 11 e le 12, o dalle 16 alle 18, quando avvengono le sue fugaci apparizioni, di circa un minuto, dalle finestre del secondo piano.

Solitamente comunque il suo arrivo è anticipato da uno degli anziani guardiani, che avvisa gli astanti di mettere via le macchine fotografiche, in quanto è tassativamente vietato fotografare la dea all’interno del suo palazzo.

lunedì 15 maggio 2017

Rischi e pericoli dei trekking nepalesi

In un precedente post riguardo i trekking in Nepal (http://informazioniindiaenepal.blogspot.it/2016/07/trekking-in-nepal.html), ci siamo dedicati soprattutto agli aspetti più interessanti e piacevoli, tralasciando, colpevolmente, di accennare ai rischi che si possono incontrare.
In realtà, con un minimo di buon senso e qualche informazione geografico-climatica (oggigiorno facilmente ottenibili via internet), non c’è molto da temere, ma spesso ci si dimentica che si tratta di camminare alle falde delle cime più alte del pianeta, dove le condizioni ambientali possono essere alquanto difficili.
Come intuibile, i rischi aumentano salendo di altitudine, in particolare sopra ai 4.000-4.500 metri, quando si supera la linea degli alberi e si entra in territori dove si possono incontrare facilmente neve e ghiacciai perenni.

Al di sotto di queste quote, come ad esempio nel trekking dell’Helambu e del Langtang a nord di Kathmandu o in quelli brevi presso il massiccio dell’Annapurna, i rischi sono minimi e non serve neppure molta organizzazione.
Escludendo ovviamente i freddi mesi invernali da Dicembre a Febbraio, le possibilità di nevicate e temperature al di sotto dello zero sono molto scarse, e possono essere sufficienti una mantella, o qualcosa di simile per la pioggia, ed un indumento caldo per la mattina presto e la sera.
Trovandosi ancora abbastanza vicino a centri abitati, in queste aree sono presenti numerosi paesini muniti di locande dove alloggiare e mangiare, molto semplici ma spesso anche sorprendentemente comode, dove di certo non mancano coperte e piumoni, quindi non si ha neppure bisogno di portarsi un sacco a pelo.

La maggior parte dei percorsi più lunghi, tra cui il trekking al campo base dell’Everest, il periplo dell’Annapurna ed il collegamento nord tra il Langtang e l’Helambu, arrivano fino ad oltre i 5.000 metri, ma anche il trekking al campo base dell’Annapurna e la deviazione che collega il Langtang con l’Helambu attraverso i laghi di Gosainkunda, superano i 4.000.
I problemi più importanti sono legati alla salute ed alla rarefazione dell’aria.
Escludendo gravi casi di mal di montagna acuto, che si verificano solitamente ad altitudini più elevate, piccoli disturbi si iniziano a verificare già sopra i 3.500 metri; oltre al rapido affaticamento, possono sorgere anche lievi emicranie, perdita d’appetito, senso di stordimento, che comunque tendono a scemare dopo pochi giorni di acclimatamento.
Superando i 4.000 metri, per evitare rischi, bisogna seguire il noto adagio che consiglia di pernottare ad altitudini inferiori di quelle raggiunte durante la giornata di cammino, per permettere al fisico di abituarsi gradualmente; altrettanto nota è la semplice soluzione di scendere qualche centinaio di metri ai primi sintomi di una certa gravità.

Salendo d’altitudine le condizioni climatiche possono essere difficili e soprattutto soggette a repentini peggioramenti che possono prendere alla sprovvista.
Sopra i 4.000 metri, i temporali, che a quote inferiori sono semplicemente un fastidio, possono facilmente tramutarsi in tempeste di neve durante tutto l’anno.
La presenza di neve e ghiaccio aumenta notevolmente i pericoli legati ai crepacci, seppur i percorsi più battuti si trovino in aree molto conosciute, dove è facile evitare le zone più rischiose.
Nevai e ghiacciai aumentano anche la possibilità di frane e valanghe, contro le quali, purtroppo, data la loro imprevedibilità, non esistono rimedi di sorta, tranne il tenersi aggiornati con gli abitanti del luogo e gli altri escursionisti che si incontrano sul cammino.

Oltre a queste problematiche climatico-ambientali, più ci si allontana dai centri abitati e minore sarà il confort delle locande dove pernottare.
Nelle zone più remote, coperte e piumoni sono beni di lusso non sempre facilmente reperibili e spesso si dorme in camerata, con i piccoli disagi che questo può comportare rispetto ad una cameretta privata; chiaramente anche la qualità e varietà del cibo ne risentono parecchio.

Per tutti questi motivi, ci sentiamo di consigliare, per i percorsi leggermente più impegnativi, di ingaggiare una guida, che farà salire il budget e potrà sembrare un lusso superfluo, ma si potrebbe rivelare estremamente utile proprio nei casi si presenti qualche pericolo o contrattempo, che come abbiamo visto possono essere dietro l’angolo.
Con questo non vogliamo di certo creare paranoie ed allarmismi, ricordando anche che, probabilmente, è altrettanto pericoloso, e meno piacevole, camminare nelle giungle d’asfalto che sono le città.

domenica 14 maggio 2017

Le strade del Nepal

Un posto di controllo lungo la Mahendra Highway
Uno dei più gravi problemi che affliggono il Nepal è la pessima condizione delle strade.
I motivi sono di varia natura, a cominciare dal territorio molto irregolare, composto prevalentemente da colline e montagne, che rendono i costi di costruzione e manutenzione molto alti, e richiedono notevoli capacità e sforzi ingegneristici.
L’instabilità geologica del paese è un’altra causa, purtroppo irrisolvibile, con numerose aree soggette a frane in grado di cancellare lunghi tratti asfaltati; a questo si aggiungono le periodiche innondazioni delle pianure durante i monsoni ed i non infrequenti terremoti che saltuariamente colpiscono varie zone del Nepal.
Anche le scarse risorse finanziarie del paese sono un chiaro motivo della cattiva condizione delle strade nepalesi, cui bisogna però aggiungere anche poca volontà e lungimiranza politica, considerando che il Nepal praticamente non possiede ferrovie (esclusi trenta chilometri in pianura) e che il settore aviario è ancora pochissimo sviluppato.
Oltretutto, rispecchiando la distribuzione della popolazione, limitata ad aree piuttosto definite, le principali strade nepalesi non sono neppure tantissime.
La più lunga è la Mahendra Highway, che collega il posto di confine occidentale con l’India di Mahendranagar, con quello orientale di Kakarbhitta; la Prithvi Narayan Highway è la strada che unisce Kathmandu con Pokhara ed è la più frequentata dai visitatori stranieri, oltre che da numerosi locali; la Tribhuvan Highway è stata la prima strada a collegare la Valle di Kathmandu con il mondo esterno, nel particolare con il posto di confine indo-nepalese di Birganj; la Siddhartha Highway infine unisce Pokhara con il confine di Sunauli.

La Mahendra Highway è lunga ben 1.027 km, attraversando tutto il Terai, e le sue condizioni possono variare notevolmente, seppur, scorrendo prevalentemente in pianura, sia in generale migliore delle altre strade nepalesi.
I problemi più gravi che si incontrano nel suo lungo percorso sono creati dalle innondazioni causate dalle pioggie monsoniche.
La zone più colpite sono quelle occidentali, per la presenza di numerosi corsi d’acqua, ma, specialmente durante un monsone regolare o particolarmente potente, tutta la Mahendra Highway è a rischio allagamenti.
Nonostante la notevole lunghezza e l’indubbia utilità pratica, questa strada non attraversa nessuna zona di particolare interesse, a parte la tratta più occidentale dove si trovano due importanti aree naturalistiche: la Sukla Phanta Wildlife Reserve ed il Bardia National Park.
Nella zona centrale la Mahendra Highway collega tre città che devono la loro relativa importanza e sviluppo proprio per essere situate all’incrocio con altre strade di cui vedremo di seguito: Butwal, Narayanghat ed Hetauda.
Anche nell’altrimenti anonima tratta orientale la Mahendra Highway attraversa alcune aree forestali dove vivono numerose specie animali; in particolare funge da confine meridionale della Koshi Tappu Wildlife Reserve.

La Prithvi Narayan Highway è lunga 174 km e venne costruita tra il 1967 ed il 1974 per collegare la Valle di Kathmandu con la città di Pokhara.
Attraversando irregolari zone di collina, le condizioni di questa strada non sono ottimali, cui si aggiunge anche un sempre crescente traffico che rende i tempi di percorrenza piuttosto lunghi.
A parte questi problemi, la Prithvi Narayan Highway è una strada piuttosto piacevole, grazie alle bellezze naturalistiche, scorrendo per lunghi tratti tra tipici terrazzamenti e vicino a corsi d’acqua: prima il torrente Mahesh Kola, poi il fiume Trisuli, quindi il Marsyangdi Kola ed il Seti Gandaki.
Nelle giornate limpide, in molti punti si possono anche ammirare le cime innevate dell’Himalaya.
A circa metà strada si incontra la poco attraente città di Mugling, di una minima importanza come centro per i trasporti in quanto da qui parte una deviazione che la collega con Narayanghat, lungo la appena descritta Mahendra Highway.
Sempre in questa zona si trovavano due luoghi di un certo interesse storico, artistico e religioso, la città di Gorkha ed il tempio di Manakamana, ma entrambi hanno subito parecchi danni durante il terremoto del 25 Aprile 2015, che ebbe l’epicentro poco lontano da lì.

Costruita nel 1956 grazie al governo indiano, la Tribhuvan Highway è lunga 158 km e collega la Valle di Kathmandu con il confine di Birganj.
In realtà non parte proprio da Kathmandu ma da Naubise, situata a 29 km, lungo la già citata Prithvi Narayan Highway che collega la capitale con Pokhara.
Nonostante le cattive condizioni dovute all’area collinare che attraversa, la prima tratta fino alla cittadina di Hetauda, poco meno di metà percorso, offre delle meravigliose viste delle cime innevate, oltre a gradevoli paesaggi bucolici.
In particolare dalla cittadina di Daman, situata a circa 2.300 metri di altitudine, si hanno alcune delle viste più ampie della catena himalayana; al contrario, verso sud lo sguardo si perde nella sterminata pianura del Terai.
Hetauda è invece una cittadina molto poco attraente ma piuttosto nota essendo l’incrocio della Tribhuvan Highway con la Mahendra Highway.

La Siddhartha Highway, che collega il confine indiano di Sunauli con la città di Pokhara, è lunga circa 180 km e venne costruita tra il 1964 ed il 1971 con l’aiuto del governo indiano.
A causa della particolare irregolarità del territorio, attraversando soprattutto zone collinari, la Siddhartha Highway è stretta e tortuosa, ed in alcuni punti soggetta a frane.
In particolare la prima tratta dopo la cittadina di Butwal, che si trova all’incrocio con la Mahendra Highway, attraversa una vallata le cui colline situate sopra alla strada tendono a sgretolarsi, in particolare dopo non rare pioggie torrenziali.
La zona, comunque, offre gradevoli paesaggi ed ha una minima importanza archeologia per il ritrovamento di alcuni resti di antichi ominidi.
Stando alle indicazioni dei cartelli presenti lungo la Siddhartha Highway si tratterebbe del rampithecus, che per anni venne considerato come la prima forma di ominide asiatica, ma studi più approfonditi dimostrarono poi essere una sottospecie dello shivapithecus, piuttosto noto e diffuso nel subcontinente indiano.
Salendo gradualmente, la Siddhartha Highway continua ad offrire piacevoli paesaggi bucolici ed a circa due terzi del percorso passa nei pressi dell’interessante cittadina di Palpa, o Tansen, uno dei pochi centri urbani di un certo interesse storico ed artistico al di fuori della Valle di Kathmandu, grazie al fatto di essere stata la capitale di un piccolo ma potente regno (per ulteriori dettagli su Palpa-Tansen rimandiamo ad un post a questa interamente dedicato http://informazioniindiaenepal.blogspot.it/2017/04/la-cittadina-di-palpa-tansen.html).

Dopo Palpa la Siddhartha Highway inizia ad avvicinarsi all’Himalaya, offrendo qualche vista sulle montagne, mentre si può dedurre di essere nei pressi di Pokhara dalla migliore condizione del manto stradale.

sabato 13 maggio 2017

Le conifere del Nepal, III parte

Terminando la nostra panoramica sulle conifere del Nepal, veniamo alle 3 rimanenti famiglie: le cupressaceae, rappresentate da 3 specie, 2 del genere juniperus (ginepro) ed 1 del genere cupressus (cipresso); le taxaceae, presenti con 2 specie del genere taxus (tasso); e le podocarpaceae, con 1 specie del genere podocarpus.

Famiglia Cupressaceae
Cupressus torulosa - Quarryhill Botanical Garden - DSC03450.JPG
Esemplare di cipresso dell'Himalaya
Genere Juniperus
I ginepri sono un gruppo di circa una sessantina di specie di conifere, sia arboree che arbustive, caratteristiche per la produzione di uno strobilo (organo riproduttivo tipico delle conifere), chiamato in questo caso galbulo, noto comunemente con il nome di bacche di ginepro, utilizzate dall’uomo fin dall’antichità in culinaria, sia come spezia che per la produzione di alcolici.
Seppur alcune specie possano raggiungere altezze fino ai 40 metri, si tratta in media di conifere di piccola taglia, spesso in grado di raggiungere elevate altitudini: il ginepro nero (juniperus indica), con portamento arbustivo tra i 50 ed i 200 centimetri, nel sud del Tibet arriva fino ai 5.200 m s.l.m., formando la linea degli alberi più elevata al mondo.
La sua presenza in territorio nepalese è dubbia, mentre è certa quella del ginepro dell’Himalaya (juniperus recurva) e del ginepro russo (juniperus semiglobosa).
Il ginepro dell’Himalaya vive ad altitudini tra i 3.000 ed i 4.000 metri, dove raggiunge un’altezza modesta tra i 6 ed i 20 metri, ma spesso un notevole diametro, che può arrivare ai 2 metri.
Il ginepro russo ha un areale molto più ampio del precedente, essendo distribuito in una grande porzione dell’Asia centrale, come anche il range altimetrico, tra i 1.500 ed i 4.000 metri, ma in Nepal è presente solo sparsamente nella zona occidentale del paese.
Le dimensioni del ginepro russo sono invece minori di quelle del ginepro dell’Himalaya, tra i 5 ed i 15 metri di altezza, con il tronco che in media non raggiunge il metro e mezzo.

Genere Cupressus
Il genere cupressus comprende una ventina di specie di alberi di medio-grandi dimensioni, note per la forma spesso affusolata.
Si distinguono abbastanza facilmente dalle altre conifere per le foglie ridotte a squame, e per i galbuli, rotondi ed anche loro squamosi, e che al contrario di quelli di ginepro non hanno nessuna utilità per l’essere umano.
L’unica specie presente in Nepal è il cipresso dell’Himalaya (cupressus torulosa), un grande albero che può raggiungere i 40-45 metri di altezza, diffuso in terreni calcarei dell’Himalaya occidentale, ad altitudini molto variabili comprese tra i 300 ed i 2.800 metri.

Famiglia Taxaceae
Genere Taxus
Taxus wallichiana - Hillier Gardens - Romsey, Hampshire, England - DSC04405.jpg
Il tasso dell'Himalaya
La famiglia taxaceae, a seguito di studi micromorfologici del 2003, al momento comprende una trentina di specie di conifere, di cui 11 fanno parte del genere taxus, presente in Nepal con due specie.
Rispetto alle altre conifere, i tassi si distinguono per la produzione di un arillo, la parte che ricopre il seme, colorato e carnoso, e che costituisce l’unica parte commestibile di queste piante, altrimenti velenosa per uomo ed animali domestici.
Il tasso dell’Himalaya (taxus wallichiana) è distribuito lungo tutta la catena montuosa fino al sud-est asiatico, con un range altimetrico che va dai 900 ai 3.700 metri ed un’altezza che può raggiungere i 20 metri.
Alcune parti di questa conifera sono utilizzate localmente a fini medicinali, mentre la legna spesso funge da combustibile, motivo per cui ha subito un notevole sfruttamento che in India e Nepal ha ridotto del 90% la sua distribuzione, rendendola una specie considerata in pericolo.
Il tasso di Sumatra (taxus sumatrana) ha anch’esso un areale molto ampio, che va dall’Afghanistan fino a Taiwan e la Cina meridionale, ad altitudini molto variabili, tra i 400 ed i 3.200 metri.
D’aspetto cespuglioso, può comunque raggiungere un’altezza di circa 14-15 metri.

Famiglia Podocarpaceae
Podocarpus neriifolius
Genere Podocarpus
La famiglia podocarpaceae comprende circa 150 specie di conifere, di cui un centinaio fanno parte del genere podocarpus.
Alcune specie hanno portamento arbustivo, altre arboreo, raggiungendo altezze fino ai circa 25 metri, e si distinguono dalle altre conifere per le foglie lanceolate e oblunghe, di dimensioni tra i 0.5 ed i 15 centimetri.

Il podocarpus neriifolius, unico membro delle pocodarpaceae presente in Nepal, ha un ampio areale che va dal subontinente indiano fino alle Filippine, dove vive nelle foreste tropicali ad altitudini tra i 600 ed i 1.600 metri, con un’altezza compresa tra i 10 ed i 15m.

giovedì 11 maggio 2017

Le conifere del Nepal, II parte

Il larice del Sikkim (larix griffithii)
In questa seconda parte dedicata alle conifere del Nepal, descriveremo brevemente le rimanenti specie della famiglia pinaceae: i 2 generi picea (pecci), i 2 larix (larici) e l’1 di cedrus (cedro) e tsuga (tsuga).

Famiglia Pinaceae
Genere Picea
I pecci sono conifere di grandi dimensioni utilizzate dall’uomo fin dall’antichità per numerose caratteristiche: il resistente legno per l’edilizia e la liuteria, la buona cellulosa per la produzione di carta, l’abbondante resina per la produzione di pece (che prende il nome proprio da queste conifere) ed a scopo ornamentale, grazie al portamento simmetrico, che ne fa anche una delle specie più diffuse come albero natalizio.
Riguardo alla somiglianza con altre specie di conifere, i pecci si distinguono facilmente dagli abeti per avere le pigne pendule invece che erette, mentre la differenza con pini, larici e cedri è data dagli aghi che sono attaccati al ramo singolarmente invece che a mazzetti.
Altra caratteristica tipica dei pecci è l’aspetto dei rami una volta che hanno perso gli aghi, sui quali sono presenti i resti del pulvino (l’attaccatura dell’ago al ramo), mentre negli altri genere i rami risultano completamente lisci.
Delle due specie presenti in Nepal, il peccio morinda, o dell’Himalaya Occidentale (picea smithiana) è il più diffuso, reperibile ad altitudini tra i 2.400 ed i 3.600 metri, con dimensioni raggiungono in media i 40-55 metri di altezza.
Come nel caso dell’abete pindrow (http://informazioniindiaenepal.blogspot.it/2017/05/le-conifere-del-nepal-i-parte.html) anche il termine morinda deriva dall’orginale termine nepalese che ne certifica l’abbondanza locale.
Il peccio del Sikkim (picea spinulosa) è estremamente simile al precente per altitudine e dimensioni, e si distingue principalmente per la distribuzione nella parte più orientale dell’Himalaya: Nepal, Sikkim e Bhutan.

Genere Larix
Il genere larix comprende circa 10-15 specie di conifere, le uniche decidue e non sempreverdi, perdendo i loro aghi in autunno ed inverno.
Altra caratteristica degli aghi dei larici è quella di essere relativamente corti, dai 2 ai 4 cm, e raggruppati su brachiblati a gruppi molto numerosi di 20-40 (per fare un confronto, i gruppi di brachiblasti dei pini sono composti da 2, 3 o 5 aghi).
Le specie di larix presenti in Nepal sono due: il larice del Sikkim (larix griffithii) ed il larica del Langtang (larix himalaica).
Reperibile tra i 3.000 ed i 4.000 metri di altitudine, nella regione orientale dell’Himalaya, il larice del Sikkim è un albero di medie dimensioni, con un’altezza intorno ai 20-25 metri, mentre il diametro non supera il metro.
Il larice del Langtang è molto simile al precedente, dal quale si distingue per l’areale leggermente più occidentale, essendo l’area del Langtang situata nella zona centrale del Nepal, e dell’Himalaya, a nord della Valle di Kathmandu.

Genere Cedrus
Il cedro deodara (cedrus deodara)
I cedri sono conifere tipiche dell’area mediterranea, dove ne sono presenti 3 specie, e della zona occidentale dell’Himalaya, che ospita il cedro deodara (cedrus deodara), ad altitudini comprese tra i 1.500 ed i 3.200 metri.
Si tratta di una grande albero che raggiunge in media i 40-50 metri di altezza, con aghi tra i 3 ed i 5 cm, raggruppati su brachiblasti in ciuffetti da 20-30.
Come nel caso dei suoi parenti mediterranei, il cedro dell’Himalaya (altro nome comune del cedro deodara) è ampiamente coltivato per il legno, noto per la sua eccezionale durata, seppur non sia molto resistente e viene usato principalmente per grandi lavori, come nel campo dell’edilizia, piuttosto che per prodotti di piccole dimensioni come tavoli e sedie.
Nel subcontinente indiano il cedro deodara è da secoli utilizzato per l’aroma ed alcune proprietà antimicotiche, sfruttate per tenere al sicuro spezie, granaglie e carne, mentre in occidente è noto soprattutto come pianta ornamentale per parchi a giardini.


Genere Tsuga
Le tsuga sono conifere originarie di Asia e Nord America, che ne ospitano rispettivamente 5 e 4 specie.
Di varie dimensioni, alcune possono raggiungere i 70 metri, le tsughe si distinguono da pini, cedri e larici per avere aghi singoli invece che a mazzetti, dagli abeti per avere le pigne pendule e dai pecci per gli aghi piatti invece che a sezione romboidale.
L’unica specie presente in Nepal è la tsuga dumosa, chiamata in inglese cicuta himalayana, seppur non abbia nessuna relazione con la pianta di cicuta (conium maculatum) ed il nome le è stato dato per l’odore delle foglie che ricorda quello della pianta velenosa.

Rinvenibile anche a basse quote, da circa i 1.500 m s.l.m., la tsuga dumosa raggiunge un’altezza tra i 20 ed i 25 metri, e si distingue dalle altre conifere, per la caratteristica, tipica di quasi tutte le specie tsuga, di avere aghi con due striscie bianche nella parte inferiore.

mercoledì 10 maggio 2017

Le conifere del Nepal, I parte

A description of the genus Pinus (Tab. 2) (7797195426).jpg
Dettagli dell'abete dell'Himalaya Orientale (abies spectabilis)
Le conifere sono piante appartenenti all’ordine pinales, classe pinopsida e divisione pinophyta.
Tra le varie specie di alberi sono tra le più facilmente distinguibili grazie alla presenza di una pigna, di un cono (da cui il nome generico) o di uno strobilo, strutture riproduttive caratteristiche di tutti i membri di questo ordine.
Grazie alla loro vasta diffusione ed a peculiari caratteristiche, molte specie di conifere sono conosciute e sfruttate dall’uomo per vari scopi fin dall’antichità, rendendole particolarmente familiari e conosciute, come ad esempio: abeti, pini, pecci, larici, cedri, ginepri, cipressi e tassi.
Seppur alcune specie riescano a sopportare anche climi piuttosto caldi, la maggior parte delle conifere vivono in aree fredde e sono le specie arboree che raggiungono le maggiori altitudini, con i pini che spesso costituiscono il cosiddetto limite degli alberi.

Il Nepal, essendo composto per ben il 40% da foreste collinari ed il 30% da montagne, ospita un numero piuttosto alto di specie di conifere, ben 17, facenti parte di 4 delle 7 famiglie in cui è diviso l’ordine pinales.
La famiglia delle pinaceae è quella più diffusa, rappresentata da 11 specie: 3 del genere abies (abeti), 2 del genere pinus (pini), 2 del genere picea (pecci), 2 del genere larix (larici) ed 1 ciascuna dei generi cedrus (cedro) e tsuga (tsuga).
La famiglia cupressaceae è rappresentata da 3 specie: 2 del genere juniperus (ginepro) ed 1 del genere cupressus (cipresso); la famiglia taxaceae è presente con 2 specie del genere taxus (tasso); mentre la famiglia podocarpaceae con 1 specie del genere podocarpus.

Famiglia Pinaceae
Genere Abies
Gli abeti in senso stretto, cioè appartenenti al genere abies, si distinguono dalle altre conifere, esclusi i pecci, per avere gli aghi attaccati singolarmente al ramo tramite pulvini, invece che a gruppi sui brachiblasti.
Dai pecci si possono distinguere per avere gli aghi piatti, invece che a sezione rombica, e gli strobili sono eretti invece che penduli.
Le tre specie del genere abies presenti in Nepal sono: l’abete del Bhutan (abies densa), l’abete dell’Himalaya Orientale (abies spectabilis) e l’abete pindrow o dell’Himalaya Occidentale (abies pindrow).
Come intuibile dall’areale descritto nei nomi, queste tre specie sono molto simili tra loro (tanto che l’abete del Bhutan viene talvolta considerato una sottospecie dell’abete dell’Himalaya Orientale), e si distinguono essenzialmente in base alle zone di distribuzione.
In generale, l’altitudine degli abeti nepalesi varia dai circa 2.400 fino ai 4.000 metri, mentre, per quanto riguarda le dimensioni, raggiungono in media i 30-40 metri, ma possono arrivare anche a 50-60.
Il nome pindrow dell’abete dell’Himalaya Occidentale deriva dall’originale termine nepalese utilizzato per questa specie.

Genere Pinus
Bhutan pine tree.JPG
Il pino blu o del Bhutan (pinus wallichiana)
Il genere pinus comprende circa 120 specie di conifere molto resistenti al freddo, distinguibili dai precedenti abeti per avere gli aghi attaccati per mezzo di brachiblasti a gruppi di 2, 3 o 5.
Le due specie di pinus che abitano le foreste nepalesi sono il pino dell’Himalaya (pinus roxburghii) ed il pino blu, o del Bhutan, o di Wallich (pinus wallichiana).
Il pino dell’Himalaya è nativo di questa regione dove si trova ad altitudini comprese tra i 500 ed i 2.000 metri.
Essendo una delle conifere che vive alle quote più basse, il suo uso per il legname è molto diffuso, seppur più dovuto al fatto di essere l’unica conifere disponibile a quelle quote, piuttosto che per avere particolari caratteristiche, producendo al contrario legno piuttosto debole e prono all’usura, almeno paragonandolo a quello di altre conifere.
Grazie alla capacità di resistere a temperature anche relativamente elevate, il pino dell’Himalaya nel subcontinente viene spesso coltivato a scopo decorativo, avendo una gradevole forma simile a quella del pino marittimo (pinus pinaster) con il quale è strettamente imparentato.
Le dimensioni sono notevoli potendo raggiungere altezze tra i 30 ed i 50 metri e i 2 metri di diametro, mentre gli aghi, in gruppi di tre, sono particolarmente lunghi, raggiungendo i 20-30 cm.
Il pino blu ha dimensioni simili al precedente, dal quale si distingue principalmente per l’areale ad altitudini più elevate, da un minimo di circa 1.800 metri fino a sopra i 4.000, raggiungendo in alcuni casi la linea degli alberi, intorno ai 4.200-4.300 m s.l.m..
Anche l’osservazione degli aghi può essere utile per distinguere il pino blu da quello dell’Himalaya, visto che sono riuniti in gruppi di 5, invece di 3, e sono leggermente più corti, dai 12 ai 18 cm.
Il suo legno è piuttosto duro, resistente e resinoso, dal quale si estrae una trementina (solvente naturale) di miglior qualità rispetto al pino dell’Himalaya, seppur il processo sia leggermente più complesso.
Negli ultimi anni il pino blu sta diventando sempre più diffuso come pianta ornamentale per parchi e giardini urbani, grazie alla grande chioma, ai coni decorativi ed alla notevole resistenza all’inquinamento.

martedì 9 maggio 2017

Breve cenno alla storia del Nepal, II parte

Emblem of NepalIn questa seconda parte dedicata alla storia del Nepal, accenneremo all’era della dinastia Rana, al breve ritorno al potere della dinastia Shah ed all’instaurazione della Repubblica.

I Rana governarono sul Nepal per poco più di un secolo, dal 1846 al 1951, probabilmente il periodo più buio della drammatica storia recente del paese.
Innanzitutto Jung Bahadur Rana, fondatore della dinastia, riuscì ad assumere il potere grazie al crudele massacro di Kot, durante il quale fece uccidere una cinquantina di membri della famiglia reale e dell’esercito, instaurando un regime di terrore, che sfocerà in almeno altri tre episodi simili nel 1847, 1882 e 1885.
Ma l’aspetto peggiore del pessimo governo della dinastia Rana fu quello di chiudere completamente le frontiere del paese e continuare le proprie lotte interne per il potere, senza fare il minimo sforzo per migliorare le difficili condizioni di vita delle persone e sviluppare il paese.
In realtà, gli appartenenti alla dinastia Rana erano estimatori delle capacità e del successo raggiunto dalle potenze europee, testimoniato dalle loro buone relazioni con i britannici che governavano la vicina India e dalla costruzione di numerosi grandi palazzi in stile occidentale neoclassico-barocco.
Purtroppo molti sono andati distrutti da terremoti, nel 1934 e 2015, e incendi, o sono caduti in rovina, a causa dello scarso interesse verso il retaggio di una dinastia ben poco amata, mentre altri sono stati rinnovati perdendo alcune delle caratteristiche originali.
Quelli che si sono conservati in buono stato fino ad oggi lo devono al fatto di essere ancora utilizzati per ospitare uffici governativi ed amministrativi, oppure alberghi di lusso, tra questi: Lal Durbar, Lazimpat Durbar, Shree Durbar, Bahadur Bhawan e Sithal Niwas (noto oggigiorno con il nome di Rashtrapati Bhawan, Palazzo del Presidente, in quanto ospita l’attuale presidente del Nepal).
Altri palazzi Rana, come: Lakshmi Niwas, Tangal Durbar, Singha Durbar, Kaiser Mahal, Harihar Bhawan, Babar Mahal e Bagh Durbar sono stati danneggiati dal terremoto del 2015, e pur rimanendo in piedi il loro futuro è incerto.
Tutti questi palazzi sono situati nella città di Kathmandu, dove risiedevano i regnanti Rana, ma si possono osservare due esempi dei loro grandiosi palazzi anche nella cittadina di Palpa, o Tansen, il Tansen Durbar, che ospitava orignariamente il governatore Rana, ed il Ranighat Palace, o Rani Mahal, fatto costruire nella foresta da un aristocratico Rana esiliato dalla capitale (per ulteriori dettagli su Palpa-Tansen http://informazioniindiaenepal.blogspot.it/2017/04/la-cittadina-di-palpa-tansen.html).
Tornando alla storia della dinastia Rana, i primi forti dissidi con la famiglia reale Shah inziarono con lo scoppiò della I Guerra Mondiale, con i Rana che spinsero alla partecipazione con le truppe alleate per inimicarsi i britannici, mentre il re Tribhuvan Shah preferiva rimanere neutrale.
Quindi, le sempre più frequenti proteste popolari iniziate negli anni ’30 e l’appoggio dell’India, spinsero re Tribhuvan a scendere in campo per riprendere l’effettivo potere e scacciare i Rana, scopo che raggiunse nel 1951.

Re Tribhuvan Shah ebbe il merito di concedere un certo potere anche ai partiti politici, soprattutto il dominante Partito del Congresso, ma con la sua prematura morte, nel 1955, il potere passò al figlio Mahendra, il quale dopo poco tempo, nel 1960, scioglierà il parlamento, decretando l’insuccesso del tentativo democratico ed instaurando nuovamente la monarchia assoluta.
Questa mossa in realtà, invece di indebolirlo, rafforzò il movimento pro-democrazia, che con una lunga serie di proteste, nel 1990, sotto il regno di Birendra Shah, riuscirà ad ottenere una nuova costituzione democratica che garantiva una minor interferenza della famiglia reale sulla politica del paese.
Anche questa manovra comunque, fu ritenuta insufficiente dalle frange antimonarchiche più estreme, come quelle comuniste, in particolare i maoisti, che nel 1996 inizieranno una decennale guerra civile che raggiungerà lo scopo di far cadere la monarchia ed instaurare la repubblica.

Come accennato anche in un post dedicato al capo supremo dei maoisti, Pushpa Kamal Dahal “Prachand” (http://informazioniindiaenepal.blogspot.it/2017/04/breve-cenno-al-politico-nepalese-pushpa.html), un grande aiuto nella causa democratica fu il misterioso massacro della famiglia reale e dell’amato re Birendra, nel Giugno 2001, che, di fatto, mise fine alla potente dinastia Shah, visto che l’impopolare nuovo re Gyanendra resisterà al potere solo pochi anni, ufficialmente dal 2001 al 2008 (ma i poteri gli erano già stati tolti nel 2006), prima di essere costretto ad abdicare.

Chiaramente il processo di democratizzazione del paese ha creato numerose controversie, iniziando dalla difficile operazione di integrazione delle truppe maoiste nell’esercito regolare.
Politicamente fu anche molto difficile trovare un accordo tra i partiti di maggioranza, che solo dopo quasi due anni furono in grado di creare un governo abbastanza stabile per redigere la nuova costituzione, il primo e fondamentale passo verso la democratizzazione.
Numerosi grattacapi derivarono dalla nuova divisione amministrativa, basata su principi leggermente più moderni di quella precedente, ma che non fu in grado di soddisfare tutte le etnie e comunità presenti nel paese.
In particolare, i Madhesi, genti d’origine indiana abitanti le pianure centro-meridionali, nel 2015 protestarono a lungo e violentemente l’assenza di un distretto dove fossero la maggioranza, e a causa dei disordini l’India decise di bloccare i rifornimenti di combustibile, portando il Nepal sull’orlo di una grave crisi finanziaria ed umanitaria.
In realtà, più che per problemi di sicurezza dei propri autisti e mezzi, pare che l’India abbia attuato questo blocco in segno di appoggio verso la causa dei Madhesi, segnando un ulteriore passo d’allontanamento tra i due paesi.
Questo infatti spinse il Nepal a cercare nuovi partner per l’approvvigionamento di combustibile e non dovette neppure andare molto lontano, visto che la Cina da anni aspettava proprio un’occasione come questa per aumentare la propria influenza economica sul Nepal.

Il quale, opportunisticamente ma anche molto realisticamente, si sta infatti avvicinando sempre più ai cugini trans-himalayani, nella speranza che possano essere di maggior aiuto di quanto non siano stati fino ad oggi gli indiani.

lunedì 8 maggio 2017

Breve cenno alla storia del Nepal, I parte

Flag of NepalLa storia del Nepal, seppur lunga ed in certi periodi alquanto complessa, può essere facilmente suddivisa in 6 grandi ere, che prendono il nome dalle dinastie che regnarono su vaste regioni del paese, soprattutto la centrale Valle di Kathmandu.
Convenzionalmente questi periodi sono quindi chiamati: era Kirati, Licchavi-Thakuri, Malla, Shah, Rana, un breve ritorno Shah, cui si aggiunge l’attuale era repubblicana.
In questa prima parte accenneremo alle prime quattro.

I kirati sono un gruppo di popolazioni di etnia tibeto-birmana, che migrarono in Nepal da est intorno all’VIII-VII secolo a.C..
Le notizie storiche su di loro sono molto scarse e quelle culturali poco affidabili, essendo menzionati molto genericamente in vari testi religiosi induisti, soprattutto il poema epico Mahabharata, come abitanti delle regioni himalayane.
In particolare il cosiddetto Regno Kirati probabilmente non fu una precisa entità politica, ma indicava geograficamente le aree abitate da queste genti.
Storicamente è comunque certo che furono i primi a regnare sulla Valle di Kathmandu, fino a circa il IV secolo, quando furono soppiantati dalla dinastia Licchavi proveniente da sud.

I Licchavi furono una dinastia originaria del subcontinente indiano (da non confondere con l’omonimo clan che regnò su una piccola porzione dell’India del nord nel IV secolo a.C.), in grado di soppiantare gli ultimi sovrani Kirati ed instaurarsi nella Valle di Kathmandu intorno al IV-V secolo.
L’era Licchavi durò fino al 1200, con la salita al potere della dinastia Malla, seppur, per lunghi periodi, parti del Nepal furono in realtà sotto il dominio dei Thakuri, una nobile casta proveniente dall’India, i cui membri erano spesso imparentati con Licchavi, rendendo spesso la distinzione tra i due gruppi molto incerta.
Di religione induista, i Licchavi-Thakuri furono dei grandi mecenati delle arti, in particolare architettura e scultura, ma purtroppo sono pochi gli esempi sopravvissuti fino ad oggi.
Per quanto riguarda l’architettura, i loro templi, costruiti principalmente in deperibile legno, sono da tempo scomparsi; l’unica eccezione era la Kasthamandap (Il riparo di legno), un edificio a tre piani costruito intorno al X-XII secolo, nella piazza reale di Kathmandu, che da questa costruzione prese il nome, ma che purtroppo venne distrutta dal terremoto dell’Aprile 2015.
Leggermente più fortunate sono state le sculture in pietra degli artisti Licchavi, tra le quali si conservano: le tre dedicate a Vishnu dormiente, su tutte quella meravigliosa di Budhanilkanta (http://informazioniindiaenepal.blogspot.com/2016/03/vishnu-budhanilkantha.html); l’antichissimo bassorilievo di Dum Varahi, risalente al V secolo, che rappresenta Varaha, la terza incarnazione di Vishnu sotto forma di un cinghiale; anche attorno al tempio di Changu Narayan (http://informazioniindiaenepal.blogspot.it/2017/04/i-santuari-di-narayan.html) si possono osservare alcune statue e bassorilievi dell’era Licchavi e seppur l’area sia stata danneggiata dal terremoto, la maggior parte sono sopravvissute.

I Malla regnarono sulla Valle di Kathmandu per circa cinque secoli e mezzo, dal 1200 al 1769.
Facente parte dell’etnia newari, che si formò nella valle attraverso secolari scambi tra le genti tibeto-birmane e buddiste del nord con quelle indoariane induiste del sud, la ricchezza culturale e la passione per le arti della dinastia Malla è l’artefice della maggior parte delle opere artistiche del Nepal.
Fino al 1482 un unico sovrano Malla regnò su tutta la Valle di Kathmandu, ma successivamente i discendenti divisero il regno in tre parti: Kantipur (Kathmandu), Lalitpur (Patan) e Bhaktapur.
Purtroppo questa divisione, seppur favorì lo sviluppo artistico, facendone di tutte e tre le città dei rinomati centri, indebolì finanziariamente e militarmente la dinastia Malla che verrà definitivamente sconfitta dagli Shah, provenienti dalla città di Gorkha, nel 1769.

La dinastia Shah, di etnia khas indoeuropea, tipica delle colline del Nepal centrale, dapprima, nel 1559, costituì un piccolo regno con capitale la città di Gorkha, situata a circa 80 chilometri a ovest di Kathmandu, quindi, come abbiamo appena visto, nel 1769 si impadronì della Valle di Kathmandu ed unì i vari piccoli principati per formare il Regno del Nepal.
L’era Shah fu un periodo molto burrascoso caratterizzato da continue campagne militari espansionistiche, che portarono il Regno del Nepal ad occupare un vasto territorio che andava dal Kashmir a ovest fino al Sikkim ad est, mentre a sud arrivava fin quasi alle sponde del fiume Gange.
Successivamente, alcune sconfitte militari con il Tibet e la Cina, e soprattutto la disastrosa Guerra Anglo-Nepalese del 1814-1816, ridussero le mire espansionistiche della dinastia Shah ed il territorio del paese a quello attuale.

Il declino degli Shah culminò nel 1846, con il primo ministro Jung Bahadur Rana che rese la propria carica ereditaria, facendo della famiglia reale una figura puramente formale, ed instaurando l’era della dinastia Rana.

domenica 7 maggio 2017

Breve cenno all'economia del Nepal

Il Nepal è un paese tanto ricco di bellezze naturali, quanto povero di risorse.
Il sottosuolo non ospita nessun importante giacimento e l’agricoltura, limitata dalla scarsità di aree coltivabili, da decenni non riesce a soddisfare il fabbisogno interno.
L’unica risorsa di una certa importanza è quella idroelettrica, ma a causa delle carenti infrastrutture al momento è ancora solo parzialmente sfruttata.

La scarsità di materie prime è sicuramente uno dei motivi dell’arretratezza economico-industriale del Nepal.
Non possedendo petrolio né gas, il paese è quindi costretto ad importarli, soprattutto dall’India ma recentemente anche dalla Cina, rendendo quindi i costi piuttosto elevati, mentre gli unici piccoli giacimenti offrono: calcare, magnesite, zinco, rame, ferro, mica, piombo e cobalto.
Questo influisce anche sullo scarso sviluppo del settore industriale, che è responsabile per circa il 20% del PIL del paese.
Nonostante queste difficoltà, grazie a produzioni piuttosto mirate, negli ultimi anni il Nepal sta iniziando ad esportare metalli lavorati, grazie a numerose fabbriche presenti soprattutto nelle pianure al confine con l’India, importatrice di questi materiali.
Anche le industrie legate alla lavorazione tessile ed alla produzione di capi d’abbigliamento hanno una discreta importanza, costituendo circa il 5% dell’esportazione, con l’Unione Europea che negli ultimi anni si sta impegnando ad importare un sempre crescente numero di prodotti nepalesi.
Probabilmente l’unica attività che raggiunge un buon successo è quella legata alla produzione di tappeti, che supera l’8% dell’esportazione, grazie all’ottima qualità, prezzi competitivi ed indubbiamente anche ad intelligenti investimenti e volontà politiche.

L’agricoltura impiega circa il 60-70% dei nepalesi e provvede a circa il 30-35% del PIL.
Il problema più grande è la scarsità di terreni coltivabili, che è solo il 20% del territorio del Nepal, mentre il 40% è ricoperto da foreste ed il restante 30% è montagnoso.
Negli ultimi decenni si sta anche assistendo ad una vertiginosa crescita demografica che ha ormai reso i prodotti agricoli nepalesi insufficienti per il bisogno del paese, che è quindi costretto ad importare anche questi beni di prima necessità.
In realtà, i terreni del Nepal sono particolarmente fertili e grazie a differenti condizioni geografico-climatiche la produzione è molto varia, come ad esempio nella Valle di Kathmandu, che però risente oltre che della crescita demografica anche della continua migrazione dalle campagne, ed ormai da decenni la valle non è più autosufficiente.
Questo tra l’altro ha fatto aumentare i prezzi e diminuire la qualità visto che i prodotti di pianura non sono dello stesso livello di quelli delle colline.
Le poche colture che permettono raccolti abbondanti di prodotti che vengono esportati riguardano legumi, té e cardamomo, di cui il Nepal è tra i primi dieci produttori mondiali.

Il 45% del PIL nepalese deriva dal terziario, di cui circa un terzo dal turismo, uno dei pochi settori altamente remunerativi in continua crescita.
L’importanza economica del turismo, tra l’altro, va ben oltre le percentuali ufficiali, grazie a numerose attività commerciali che traggono un vantaggio indiretto dal suo sviluppo.
Purtroppo il terremoto del 2015 ha danneggiato notevolmente il patrimonio artistico della Valle di Kathmandu, principale attrazione del paese dopo l’Himalaya, ma il turismo è di nuovo in crescita grazie alle attività legate all’alpinismo, ai trekking, al parapendio ed altri sport d’avventura quali rafting, torrentismo, bungee jumping e simili.
Il resto del terziario, fonte di reddito per un’elevata percentuale della popolazione, è in continua espansione ma di qualità ancora insufficiente, a causa dell’arretratezza dovuta in gran parte alla chiusura dei confini durante l’era della dinastia Rana tra la metà del XIX e la metà del XX secolo.
Al 1951, destituiti i Rana, il Nepal era pressoché privo di strade, scuole ed ospedali, che quindi sono da allora in continua espansione, ma a causa delle limitate risorse finanziarie, nonostante gli sforzi, raggiungono livelli ancora sotto uno standard accettabile.
Una parte di questo è anche dovuto al fatto che una grande porzione del terziario del Nepal, forse addirittura il 30% del PIL (la terza più alta al mondo), deriva dalle rimesse dei numerosissimi nepalesi che lavorano all’estero, in particolare in India, dove non hanno bisogno di passaporto, ma anche in Malesia, nella penisola arabica ed in minor misura, Stati Uniti, Europa, Cina, Corea e Giappone.
Seppur chiaramente sia un’importante fonte economica, questo tipo di risorse finanziarie non promuove lo sviluppo dei servizi e delle infrastrutture, che solo in rari casi limitati ne traggono un qualche profitto.

La recente stabilità politica, che favorisce un clima adatto agli investimenti, soprattutto stranieri, potrebbe col tempo portare ad alcuni miglioramenti, necessari per lo sviluppo di un paese ancora fortemente arretrato.