lunedì 29 febbraio 2016

Storia del poeta Valmiki

Rishi Valmiki è un rinomato rishi (saggio) indiano, noto come il “Primo Poeta” e precursore della poesia sanscrita per aver scritto la prima versione del poema epico Ramayana.
Secondo la leggenda egli però non era nato tale, anzi era un famoso bandito, la cui specialità era assaltare le persone e derubarle.
Qualche volta le sequestrava in cambio di denaro, altre volte le uccideva e solo raramente le lasciava andare illese.
Un giorno Valmiki riuscì a catturare Narada, “il piantagrane divino” (noto per la sua astuzia), e siccome questi non aveva nulla di valore, Valmiki per punizione decise di ucciderlo.
Narada gli disse “Va bene, sono pronto a morire, ma prima dimmi perché derubi le persone?”.
Valmiki rispose “Perché devo nutirire la mia famiglia!”.
Allora Narada gli chiese “Ma tu pensi che loro siano disposti a condividere con te il karma delle tue cattive azioni, come lo sono nel condividere i tuoi bottini?”.
“Certo che lo sono!”, rispose Valmiki, ma un piccolo dubbio iniziò a farsi spazio nella sua mente.
Quindi Narada continuò “Prima di uccidermi e aggiungere altro karma negativo al tuo fardello, perché non ti assicuri che la tua famiglia sia disposta a condividere con te questa azione?”.
Valmiki lasciò Narada legato ad un albero ed andò a casa, dove ricevette una brutta sorpresa...
Alla sua domanda, infatti, i genitori gli dissero “Noi ti abbiamo cresciuto e mantenuto per molti anni, ora è il tuo turno di ripagarci. Non ci interessa da dove provengono i soldi, quello è un problema tuo”.
Sua moglie invece gli disse “Io ti sto crescendo i figli e mi occupo della casa. Tu mi devi mantenere e non sono interessata a come tu provveda a questo. Il tuo karma è una tua responsabilità”.
I figli infine risposero “Non ti abbiamo mai chiesto di nascere qui. Tu ci hai fatti ed ora devi badare a noi a tue spese. Sei tu che devi preoccuparti dei tuoi karma”.
Uno scosso Valmiki tornò quindi da Narada, il quale chiaramente aveva previsto tutto e suggerì a Valmiki che se voleva fare qualcosa per cancellare il suo karma negativo doveva diventare devoto del dio Vishnu.

Valmiki si sedette ed iniziò a meditare sul nome di Rama (incarnazione di Vishnu), pare addirittura per ben sessantamila anni, tanto che su di lui si formarono dei termitai, da cui prese il nome; valmika infatti in sanscrito vuol dire termitaio.

domenica 28 febbraio 2016

Cibo nepalese: dal-bhat, chowmein e momo

Nonostante il Nepal sia un paese di dimensioni ridotte (con una superficie circa la metà dell’Italia) e privo di sbocchi sul mare, la cultura nepalese risulta essere piuttosto varia, grazie principalmente a due fattori.
Il primo sono le numerose etnie che compongono la popolazione (di nuovo circa la metà dell’Italia), che nell’arco dei secoli si sono insediate nei territori che oggi formano il Nepal.
Il secondo fattore che favorisce la ricchezza culturale nepalese è la vicinanaza con altre due culture anch’esse molto antiche e complesse come quella cinese ed indiana.
Queste influenze sono evidenti in molti aspetti della vita nepalese, tra i quali chiaramente anche la cucina.
In realtà parlare di ricercatezze culinarie in Nepal può sembrare ironico, se non proprio sarcastico, viste le ancora numerose aree del paese flagellate da una malnutrizione cronica.
Coloro i quali vivono in zone più favorevoli hanno comunque i loro problemi e si possono ritenere fortunati se riescono a consumare almeno due pasti al giorno.

Pasti che chiaramente non hanno nulla a che vedere con gli elaborati menù dei ristoranti turistici, bensì consistono nel cosiddetto piatto nazionale nepalese, dal-bhat-tarkari (abbreviato in dal-bhat), brodo di lenticchie, riso e verdure, che in realtà è il cibo di cui si nutrono quasi tutti gli abitanti dell’intero subcontinente indiano.
Le numerose varianti regionali e locali non sono di certo dovute a particolari ricercatezze o raffinatezze culinarie, ma dipendono dalla disponibilità degli ingredienti, in base a posizione geografica e stagione.
Bisogna notare però che il brodo di lenticchie nepalese è più ricco e gustoso di quello tipico indiano e le verdure, potendo contare anche su prodotti collinari, leggermente più varie e saporite.
L’utilizzo del riso, invece che del pane come nel vicino nord dell’India, deriva dalla scarsità di aree coltivabili a farinacei, dovuta al territorio in gran parte collinare, e ad una minor influenza culturale mussulmana.
I tipici terrazzamenti himalayani vengono dedicati principalmente al riso, seppur in realtà la produzione nazionale non raggiunga la richiesta ed il Nepal è costretto ad importare anche il riso, soprattutto dall’India.

Una diffusa alternativa all’altrimenti monotono dal-bhat sono i noodles istantanei con i quali preparare veloci zuppe o i chowmein, cioè spaghetti di riso saltati in padella con verdure e/o carne ed olio di soia.
I chowmein in particolare sono molto apprezzati grazie ad alcune semplici caratteristiche: i prezzi modici, per la presenza sul mercato di numerose marche che producono pacchettini disponibili per poche rupie; la facile reperibilità degli ingredienti, oltre agli spaghetti di riso, bastano qualche pezzetto di carota, verza, cipolla o peperone, e una spruzzzata di olio di soia; la semplice e veloce preparazione, che rispetto a lenticchie, riso e verdure, ha quindi anche il grande vantaggio di richiedere un minor utilizzo di prezioso combustibile.
Per rendere il piatto un tantino più sostanzioso ed appetitoso è diffuso l’utilizzo di uova, sotto forma di striscie di omelette, o qualche pezzetto di carne, in particolare pollo, seppur nessuna tipologia di carne si sposi particolarmente bene con gli spaghetti di riso nepalesi.

Per finire il trittico delle pietanze più diffuse in Nepal, veniamo ai momo, la gustosa versione nepalese dei ravioli tibetani.
Rispetto a dal-bhat e noodles, che sono diffusissimi sia tra le mura domestiche che in ogni tipo di ristorante, i momo difficilmente vengono cucinati in casa, a causa della non proprio praticissima preparazione, ma vengono serviti da onnipresenti bancarelle, da numerosi piccoli locali specializzati, nonché proposti in quasi tutti i ristoranti più costosi; questo garantisce che un piattino di momo caldi se lo possano permettere quasi tutti, a prescindere dalla condizione economica.
La cottura prevede l’utilizzo della mucktoo, la pentola per i momo, composta da un’ampia base dove viene messa a bollire l’acqua e sopra alla quale vengono disposti uno sopra l’altro 2-3 vassoi bucherellati, dentro ai quali sono posizionati i ravioli, che si cuociono quindi grazie al vapore acqueo.
Normalmente vengono serviti semplicemente insieme ad una salsina piccante, di solito a base di pomodoro, ma è anche piuttosto diffusa ed appetitosa la versione fritti, che prevede, dopo la cottura al vapore, l’immersione in abbondante olio bollente fino a fargli raggiungere una croccante doratura.
In una versione leggermente più ricercata, i momo vengono chiamati kothey ed hanno la particolarità che una volta estratti dalla mucktoo, vengono fatti scottare in una padella per donare ad un lato del raviolo una sottile e fragrante crosticina.
Venendo agli ingredienti, nonostante se ne possano creare varie tipologie, i momo più diffusi sono essenzialmente due: di bufalo e di verdure.
La carne di bufalo tritata, insieme ad un po’ di cipolla e spezie, si sposa perfettamente come ripieno dei momo, grazie al fatto che durante la cottura la carne rilascia una parte di liquido-grasso che favorisce l’amalgamento dei sapori all’interno del raviolo.
Questa appropriata combinazione rende i buff-momo talmente gustosi che la versione fritta, invece di esaltarne ulteriormente i sapori, li rende semplicemente più pesanti, oltre che chiaramente anche meno salutari.
Seppur non sembrino esistere regole molto rigide in proposito, i buff-momo di solito sono tondeggianti e mangiabili in un paio morsi.
La versione vegetariana prevede un ripieno di verdure (carote, verza, rapa e peperone le più diffuse) speziate e tagliate alla julienne, e solitamente sono confezionati a forma di mezzaluna.
Data la semplicità degli ingredienti, nei veg-momo acquisisce una maggior importanza la salsina di accompagnamento, ma per variare o renderli più saporiti è valida l’alternativa fritti, con la frittura che dona alle verdure un minimo di carattere e consistenza.
Per quanto riguarda altre versioni: oltre a quella di bufalo, è possibile utilizzare la carne tritata di altri animali, ma nessuna si sposa bene come quella di bufalo, che in Nepal è anche di gran lunga la più diffusa ed economica.
In alcune zone di montagna ed in qualche ristorante turistico compaiono spesso dei cheese-momo, la cui idea non sarebbe male, ma il cui risultato è invece piuttosto insipido a causa della scarsa qualità del formaggio utilizzato.
Ripieni di patate e/o paneer (ricotta), potrebbero essere una valida alternativa, ma richiedono un minimo di maestria da parte del cuoco per evitare di produrre dei bocconcini soffocanti.

sabato 27 febbraio 2016

Storia dell'asceta e il buon pastore

Un giorno un asceta itinerante, durante il suo pellegrinare, incontrò un giovane pastore che stava facendo pascolare i suoi bufali.
L’asceta era affamato, così chiese gentilmente al ragazzo se poteva dargli un po’ di latte ed il ragazzo glielo diede immediatamente.
Finito di bere l’asceta si sentì generoso e chiese al giovane pastore “Ora mi sento così bene, c’è qualcosa che desideri? Te la darò!”.
Il ragazzo sogghignò “Non ho proprio bisogno di niente. Non faccio altro che pascolare i miei bufali e questo mi basta. Oltretutto, Maharaj, tu sei venuto da me come un mendicante e io ti ho soddisfatto. Come posso aspettarmi qualcosa da te in cambio? Sono io il generoso, non tu”.
L’asceta fu molto sorpreso dall’arguta risposta del ragazzo e capì che egli non era un comune pastore. Pensò quindi un modo per aiutarlo davvero e gli chiese “Qual è la cosa che ami di più al mondo?”.
“Certamente questa bufala. – rispose innocente il ragazzo – Colei che ha prodotto il latte che hai appena bevuto. È la più grande di tutte e mi dà più di venti litri di latte al giorno, ed è così grande e potente ma anche amorevole e gentile, per questo la amo più di qualunque altra cosa”.
“Va bene, – disse l’asceta – per favore, fai una cosa. Vai a sederti in quella caverna laggiù e immagnia di essere questa bufala. Pensa a lei, tieni fissa la sua immagine nella tua mente. Identificati completamente con lei, diventa lei.
Mentre siedi, ripeti “bhaisoham, bhaisoham...” (sono un bufalo, sono un bufalo). Non ti preoccupare di nient’altro, ci penso io a prendere cura dei tuoi bufali”.
Il ragazzo seguì le istruzioni dell’asceta e quando questi, dopo tre giorni, andò nella caverna, trovò il giovane pastore seduto immobile con gli occhi chiusi che ripeteva “Bhaisoham, bhaisoham...”.
L’asceta gli disse “Allora, giovane pastore, come stai progredendo? Vieni fuori ora!”.
Ma il ragazzo rispose “Non chiamarmi pastore! Sono un bufalo adesso, non vedi? Guarda le mie possenti spalle, come faccio ora ad uscire da questa grotta? Anche le mie corna sono troppo grandi e non passerebbero dall’entrata. Ora non essere stupido, vattene e lasciami in pace, prima che ti trafigga con queste mie splendide corna!”.
Ma l’asceta insistette “Cerca di ricordare ragazzo, sono stato io a dirti di sedere qui e fare questo. Ora, invece di ripetere “sono un bufalo, sono un bufalo”, cerca di identificarti con Shiva e ripeti “Shivoham, Shivoham...” (sono Shiva, sono Shiva)”.
Il pastore obbedì e in meno di quindici minuti entrò in una profonda trance e realizzò l’Anima Universale sotto forma di Shiva.
L’asceta fu esterrefatto, iniziò a piangere e si disse “Questo ragazzo è stato seduto per soli tre giorni e mezzo ed ha realizzato, mentre io sto praticando senza successo da decine di anni!”.
Non gli rimase altro da fare che prendere il pastore come proprio maestro e alla fine anche lui realizzò.

venerdì 26 febbraio 2016

Introduzione generale cricket

Il cricket, come molti sport di squadra, fu inventato dagli inglesi e deve la sua sparsa ma omogenea distribuzione internazionale, al fatto che fosse lo sport più praticato durante i lunghi anni della diffusa colonizzazione britannica.
I dieci paesi che fanno parte dell’elite internazionale, dove il cricket è sport professionistico, rappresentano infatti tutti e cinque i continenti, con India, Pakistan, Bangladesh e Sri Lanka a rappresentare l’Asia, l’Australia e la Nuova Zelanda l’Oceania, il Sud Africa e lo Zimbabwe l’Africa, l’Inghilterra l’Europa, e infine le West Indies il continente americano.
La squadra delle West Indies è una caratteristica esclusiva del cricket, in quanto non rappresenta un’unica nazione, bensì una federazione di stati caraibici di lingua inglese, ma non solo.
Creata verso la fine del 1800, la Nazionale di Cricket delle Indie Occidentali Britanniche, è anche un ottimo esempio di come lo sport sia molto spesso un veicolo di comunione tra le genti, più di quanto non sia la politica, visto che, al contrario della squadra di cricket che vanta ormai una storia secolare, la Federazione delle Indie Occidentali politicamente fu creata nel 1958, su ispirazione delle federazioni degli stati canadesi e australiani, ma fallì miseramente appena 4 anni dopo a causa di inconciliabili dissidi politici al suo interno.
Venendo all’impatto sociale del cricket in India, bisogna notare come, a causa della cronica povertà, la diffusione dello sport in genere è riservata a un numero molto limitato di praticanti, appassionati ed esperti.
Essendo però una delle poche valvole di sfogo concesse alla gente comune, i successi e gli insuccessi delle varie nazionali vengono seguiti con un notevole interesse.
Addirittura, alcuni anni fa venne stabilito da una ricerca economica che la borsa indiana reagiva in maniera netta alle prestazioni del grande battitore Sachin Tendulkar, dato che, dopo le sue non rare epiche prestazioni, le borse subivano un notevole rialzo nel volume degli affari, dovuto alla ventata di ottimismo, o viceversa, nel caso di altrettanto non rare debacle del Maestro, e quindi della squadra, il seguente pessimismo e malumore diminuivano le attività finanziarie.
Entrando leggermente nel dettaglio tecnico, solo per chiarire a grandi linee in cosa consista il gioco del cricket, e senza neppure avvicinarsi al complicatissimo regolamento, si può definire come uno sport di squadra, di mazza e palla, vagamente simile, per i caratteri generali, all’altrettanto complicato ma leggermente più conosciuto baseball.
Una delle tante caratteristiche che distingue però il cricket da qualunque altro sport di squadra è il fatto di essere diviso in più formati, per l’esattezza tre, in base alla durata delle partite e sono chiamati: Test Match, One Day International e T-20 (o T-Twenty).
Seppur le regole essenziali del gioco subiscano solo leggere modifiche, le differenze tecnico-tattiche sono numerose, come d’altronde succederebbe se il calcio, ad esempio, fosse giocato anche in partite da mezz’ora per tempo, o magari solo 15-20 minuti.
I Test Match rappresentano il cricket originale, come giocato fin dai primi del 1800, con partite sulla distanza dei cinque giorni.
Date le difficoltà organizzative, non ultima la non facile reperibilità di atleti preparati a trascorrere ore sotto al sole a fissare attentamente una pallina pericolosamente dura, che viaggia in media a velocità ben superiori i 100 km/h, questa forma è oggi praticata solo dai dieci paesi che abbiamo detto fanno parte dell’elite mondiale.
Per ovviare quindi a questi problemi organizzativi e favorire una maggior diffusione, anche grazie al progessivo affermarsi in campo sportivo delle televisioni, verso la fine degli anni ‘60 iniziò a diffondersi un formato più breve, che limitando il numero di lanci disponibili per ogni squadra per eliminare i battitori avversari a 300, piuttosto che all’infinito come nei Test Match, ha ridotto la durata delle partite a circa 8 ore, ed è stato quindi giustamente chiamato One Day International.
La prima partita ufficiale internazionale in questo nuovo formato è stata giocata nel 1971 tra Inghilterra e Australia, ma è diventato presto popolarissimo anche perché, finalmente, si sono potuti organizzare dei campionati mondiali che rappresentano la massima espressione di ogni sport.
In quest’era moderna, dove tutto viene velocizzato, anche le partite di un giorno richiedono comunque un grande dispendio di tempo e risorse, così, all’inizio del XXI secolo, si è diffuso un formato di cricket ancora più rapido, in cui i lanci sono limitati a 120 per squadra e le partite durano circa 3-4 ore.
Nel cricket i lanci sono divisi in gruppi di 6, detti over, e volendocene 20 per raggiungere il numero di 120, questo formato viene chiamato T-20.
Secondo i puristi, gli intenditori e i più accaniti appassionati, il vero cricket è quello tradizionale dei lunghi Test Match, i quali, pur correndo il rischio di partite, o lunghe fasi, piuttosto noiose, offrono la possibilità di apprezzare tutte le numerose caratteristiche che rendono questo sport unico, non ultime le fasi di riposo che comprendono: una pausa per il pranzo, un paio per il thé, altre varie per i drinks, più alcune chiaramente di ordine tecnico-sportive.
Il formato da un giorno era stato accettato a malincuore, quasi come un tollerabile compromesso, che però ha fatto felici milioni di persone comuni che finalmente si sono potute avvicinare un po’ di più alla disciplina: poter dedicare un giorno ogni tanto al cricket è infatti ben più facile che dedicargliene cinque di fila.
La versione iperveloce invece, per ovvie ragioni, ha attecchito soprattutto sui giovani, ma a livello tecnico viene considerata, anche dagli stessi addetti ai lavori, poco più che un remuneratissimo allenamento.
Questo formato infatti ha favorito la diffusione e lo sviluppo del cricket, a tal punto da diventare una specie di gallina dalle uova d’oro: con la possibilità concreta di giocare più partite in un arco di tempo minore, sono chiaramente nati i mondiali di T-20, nonché vari e lucrosissimi campionati nazionali, sia in India che altrove, e addirittura una cosiddetta Champions League.
Questo atteggiamento di favorire più il business dello sport, purtroppo sta già iniziando a “strangolare la gallina”, in quanto un calendario internazionale troppo intenso sta scontentando i giocatori, creando molte partite insignificanti e allontanando i tifosi dagli stadi (curioso notare come tutti questi aspetti avvicinino incredibilmente il cricket al calcio).
Nonostante questo, per il momento il cricket sta vivendo un periodo aureo, grazie anche ai successi dell’India, dove è lo sport più popolare per più di un miliardo di persone.

giovedì 25 febbraio 2016

Storia su Eknath e la devozione al proprio guru

Eknath fu un grande santo del Maharashtra.
Il nome del suo guru era Janardan Swami, il quale oggi viene ricordato, principalmente, proprio per essere stato il maestro di Eknath.
Eknath significa letteralmente “un (ek) maestro (nath)” e questo s’adattava perfettamente ad Eknath, totalmente devoto a Janardan Swami.
Quando era ragazzo Eknath aveva udito una voce dal cielo che gli diceva di andare da Janardan Swami, così percorse a piedi le duecento miglia che separavano la sua città da Deogarh, dove Janardan Swami era il signore del forte.
Per alcuni anni Eknath servì Janardan Swami fedelmente, senza che gli fosse insegnato assolutamente nulla di spiritualià, ma non obiettò mai.
Una volta guadagnata la fiducia di Janardan Swami, questi diede ad Eknath l’incarico del tesoro.
Una sera Eknath ebbe dei problemi nel far quadrare i libri contabili poiché i suoi conti non tornavano per un solo pie (una frazione di un centesimo).
Rimase quindi impegnato fino a notte fonda facendo del suo meglio per trovare quel piccolo errore e quando trovò il pie mancante, la sua gioia fu così grande che lanciò un grido.
Questo svegliò Janardan Swami che entrò nella stanza e chiese preoccupato ad Eknath cosa stesse succedendo.
Udita la storia, Janardan Swami disse “Figlio mio, se la scoperta di un solo pie perso può procurarti questa grande gioia, puoi immaginare quale sarebbe stata la tua gioia se avessi scoperto Dio?”.
Eknath rispose umilmente “Maharaja, non so come andare a cercare Dio, me lo insegneresti?”.
Janardan Swami non disse nulla, ma alcuni giorni dopo chiese ad Eknath di accompagnarlo in un viaggio fuori Deogarh.
Lo Swami guidava un cavallo, mentre Eknath dovette seguirlo a piedi per circa 50 miglia e per stare al passo del cavallo non potè neppure fermarsi per bere.
A notte inoltrata, poco dopo essersi fermati a riposare in un posto solitario, si presentò loro un uomo scarmigliato, seguito ad una certa distanza da una cagna.
Porgendo una ciotola ad Eknath, questi gli ordinò di mungere la cagna e portargli il latte da bere.
Dopo aver bevuto l’uomo chiese di nuovo ad Eknath di mungere la cagna e dare il latte a Janardan Swami.
Quando la ciotola fu svuotata disse ad Eknath di andare a lavarla nel vicino ruscello.
Seppur nessuno gli avesse detto nulla, Eknath era convinto che l’uomo scarmigliato non fosse altri che Dattatreya (una potente divinità considerata il guru di Shiva e quindi di tutti gli asceti), perché Dattatreya ha sempre un aspetto selvaggio ed un cane che lo accompagna, per allontanare e spaventare i comuni mortali.
Così Eknath mise un po’ d’acqua nella ciotola per lavare le gocce di latte che erano rimaste sul fondo e bevve quella mistura.
Immediatamente potè vedere l’uomo nella sua vera forma e sì, era proprio Dattatreya.
Questi fu molto compiaciuto dell’intelligenza di Eknath e lo benedì, e da allora è riconosciuto come uno dei più grandi santi che l’India abbia prodotto.
Tutto solo grazie alla ferma devozione per il proprio guru.

mercoledì 24 febbraio 2016

La città di Gaya

Gaya è una città indiana di quasi 900.000 abitanti (al censimento del 2011), situata nello stato del Bihar, a circa 250 km da Varanasi e 500 km da Calcutta.
Nei circuiti turistici internazionali è vagamente nota per la presenza della stazione ferroviaria (e recentemente anche di un piccolo aereoporto internazionale) più vicina a Bodhgaya, un frequentato luogo di culto buddista.
Per i devoti indù, soprattutto delle aree limitrofe, Gaya è invece un’importante città sacra, grazie al Vishnupad Mandir, un grande tempio dedicato a dio Vishnu, ed all’essere un luogo particolarmente propizio per i riti funebri ed i rituali dedicati agli antenati.
Purtroppo il Bihar è uno stato piuttosto povero ed arretrato, caratteristiche che si rispecchiano ampiamente anche nella città di Gaya.
Il Vishnupad Mandir è situato nei pressi del sacro fiume Falgu e letteralmente significa L’impronta di Vishnu, in quanto il dio lasciò qui un’impronta, conservata su una lastra di pietra, intorno alla quale è stato costruito il tempio.
Grazie a lunghi anni di dure pratiche ascetiche, il demone Gayasurya ricevette il dono che chiunque avesse posato gli occhi su di lui, avrebbe ottenuto la moksha, la liberazione dal ciclo delle rinascite.
Vishnu però si accorse che in questo modo si sarebbero liberate anche persone non meritorie, così chiese al demone di sparire sotto terra e per aiutarlo pose un piede sulla sua testa.
Nonostante l’antichissima sacralità del luogo, l’attuale edificio, costruito in stile nagara, è piuttosto recente, fine XVIII secolo, a causa di ripetute distruzioni da parte degli invasori mussulmani, ma rappresenta comunque un ottimo esempio di architettura sacra del nord dell’India di quel periodo.
Nel complesso del tempio è presente anche l’akshayavat, un albero di bo o pipal (ficus religiosa), considerato immortale ed un luogo particolarmente propizio per eseguire il rituale del pindadan, offerta di cibo (pinda) agli antenati.
L’ingresso è vietato ai non-indù, quindi bisogna accontentarsi di osservarlo dall’ingresso principale e da una piccola costruzione nel piazzale antistante; con un po’ di intraprendenza, e una piccola mancia, si può chiedere ai gestori dei negozi situati di fianco all’entrata di accedere al retro dei loro esercizi, dai quali è possibile osservare qualche dettaglio del cortile interno.
Percorrendo per qualche centinaio di metri il largo sentiero lastricato che diparte in discesa alla sinistra dell’entrata del tempio, si giunge in un grande campo crematorio situato sulla riva del fiume.
L’area principale, dove possono essere eseguite 7-8 cremazioni, è protetta da una grande tettoia ed ospita un paio di piccoli e interessanti santuari, ma molte cremazioni avvengono più informalmente nell’ampio letto del fiume che, essendo stagionale, per la maggior parte dell’anno è asciutto.
In particolare i pellegrini poveri dei villaggi vicini trovano molto più conveniente portarsi da casa il necessario per i rituali, cioè sacerdote, legna e offerte, piuttosto che utilizzare i costosi servizi prestati in loco.
Sull’altra sponda del fiume, ai piedi di una verdeggiante collina, si può notare un piccolo complesso di templi ed ostelli per asceti, che non sembra godere di una particolare importanza religiosa, ma offre un’atmosfera tranquilla, dei piacevoli scorci ed un ampio panorama sulla città.
Per raggiungerlo, durante i periodi di secca, si può attraversare il grande e sabbioso letto del fiume e guadare le poche zone dove scorre l’acqua, oppure ci si può servire del lungo ponte che si nota nei pressi.
Tornando nella zona del campo crematorio e risalendo per qualche centinaio di metri una strada sterrata che procede verso l’interno, si giunge al Mangla Gauri Temple, un importante tempio della tradizione shakta, essendo uno dei 51 shakti peeth, i luoghi dove caddero i pezzi del corpo di Sati, la prima moglie di Shiva (per i dettagli rimandiamo ad un post dedicato all’argomento http://informazioniindiaenepal.blogspot.com/2016/02/sati.html).
In realtà questo tempio non compare nella più accettata lista di questi luoghi sacri, ma viene citato in una lista minore di 18, secondo la quale qui caddero i seni della dea.
A parte i pur frequenti periodi di festa, questo tempio è relativamente tranquillo ed essendo la costruzione attuale piuttosto moderna e anonima non offre nessun particolare spunto architettonico, ma è un ottimo esempio della tipica atmosfera dei templi dedicati alle divinità femminili, dalla tipologia delle offerte, al colore rosso predominante in quanto favorito della dea.
Oltre a questa importante ed attiva area religiosa nei pressi del Vishnupad Temple, attorno alla città sorgono tre colline, anch’esse ritenute sacre a vario titolo e luoghi propizi dove eseguire i rituali per gli antenati.
La più interessante di queste colline è probabilmente la Brahmayoni Hill, che riveste una notevole importanza sia per gli indù che per i buddisti, ed è la più facile da raggiungere visto che si trova non molto lontano dal Vishnupad Temple.
Per gli indù la sacralità deriva dall’essere citata come luogo auspicioso già nell’antico poema epico Mahabharata come residenza, o una delle residenze, del dio Brahma, mentre per i buddisti questa ripida collina è sacra poichè qui il Buddha promulgò il noto Adittapariyaya Sutta, o più semplicemente Il sermone del fuoco, il terzo discorso dopo aver ricevuto l’illuminazione nella vicina Bodhgaya.
Poco prima della cima si trovano un paio di grotte, poco più di due spaccature nella roccia, passando attraverso le quali pare si esperienzi la rinascita: il nome stesso Brahmayoni, dato anche ad una di queste grotte-tempio, significa letteralmente La vagina di Brahma e rappresenta l’energia femminile del dio.
Nello spiazzo sulla cima si trovano alcuni templi dedicati a divinità femminili ed al rituale del pindadan.
La vista offerta è molto panoramica, seppur in realtà il soggetto, cioè la città sottostante e la campagna attorno, non sia poi così interessante.
Le altre due colline sacre sono la Pretshila Hill e la Ramshila Hill, legate entrambe al dio Rama, il quale le visitò per offrire il pinda ai propri antenati.
Alla base della Pretshila, situata in un contesto molto bucolico in aperta campagna, si trova una grande vasca di mattoni dove pare Rama abbia compiuto le abluzioni prima di salire sulla cima per compiere i rituali.

martedì 23 febbraio 2016

Il fungo yartsa gunbu (ophiocordyceps sinensis)

Alcuni anni fa, durante una visita in una bella e fornitissima libreria di Kathmandu, ci imbattemmo in un grande volume fotografico sulle remote regioni del Tibet.
Tra i tanti scatti di meravigliosi paesaggi incontaminati e affascinanti momenti di vita d’alta montagna, la nostra attenzione si soffermò sulla fotografia di una mano, rugosa e annerita, sul palmo della quale era posato uno strano oggetto, simile a un sottile peperoncino secco marrone.
Come riportato dall’interessante capitolo seguente, si tratta invece dello yartsa gunbu, o yarchagumba (nome scientifico ophiocordyceps sinensis), un particolarissimo fungo che cresce sopra i 3.500 metri di altitudine, sull’altopiano del Tibet ed i pascoli d’alta quota dell’Himalaya di Nepal ed India.
In realtà, quello strano oggetto non è solo il fungo, bensì il risultato della relazione parassitica tra il fungo e la larva di alcuni lepidotteri.
Queste larve spendono fino a cinque anni sotto terra in attesa di diventare pupe e durante questo periodo rischiano di essere attaccate dal fungo, seppur non sia ancora chiaro come questo avvenga: se tramite l’ingestione di spore del micelio, oppure se esse passino attraverso i pori utilizzati dalle larve per la respirazione.
Una volta all’interno, l’ophiocordyceps germina, uccide l’organismo vivente che lo ospita, lo mummifica, quindi cresce dentro il suo corpo finché non ne esce fuori, in genere dalla testa situata vicino alla superficie, e dalla quale quindi spunta il fungo.
Il nome scientifico cordyceps sinensis – utilizzato fino a pochi anni fa e modificato solo recentemente dopo analisi molecolari che hanno rivelato faccia parte del genere ophiocordyceps – si rifà alla forma che ricorda la testa (ceps, dal latino capus) di una clava (cordi, dal greco kordule), sinensis invece vuol dire cinese, mentre il nome tibetano yartsa gunbu (o yarchagumba) significa erba in estate, verme d’inverno, dal particolare sviluppo che segue il fungo; seppur la sequenza in realtà sia invertita, prima è verme poi erba.
I primi cenni scritti del suo utilizzo in campo medico risalgono a circa il XIV secolo, ma si suppone sia in realtà ben più antico ed oggiogiorno è considerato uno degli ingredienti più richiesti nella medicina tradizionale cinese, al punto da essere uno dei più costosi rimedi naturali.
Secondo i dati forniti dall’articolo inglese di Wikipedia, può arrivare a costare più di mille dollari al chilo, sebbene per la produzione di rimedi a livello domestico ne bastino pochi grammi.
Per la medicina tradizionale cinese sono innumerevoli le malattie che possono essere curate tramite lo yartsa gunbu, ma anche la medicina occidentale si sta interessando alle sue numerose, ma non ancora del tutto esplorate, proprietà terapeutiche.
Un articolo apparso sul The Kathmandu Post alcuni anni fa, intitolato Sharp decline in Yarcha collection, says report (Leggera diminuzione nella collezione di Yarcha, afferma un rapporto), ci informa invece del progressivo declino, non solo nell’area nepalese, ma anche in India, Tibet e Bhutan.
Nel distretto di Dolpo in Nepal, dove la produzione è pari al 50% di quella totale del paese, il raccolto annuo è passato da una media di circa 267 pezzi a persona nel 2006, ai 125 del 2010, mostrando un declino annuale di circa 30 pezzi a persona.
Sebbene le cause di questa riduzione non siano ancora state accertate, le più accreditate sono una maggior richiesta a livello internazionale, nonché un eventualmente ancor più preoccupante declino, dovuto a globali cambiamenti climatici, dei delicati lepidotteri correlati al fungo.
Per fortuna, grazie all’importanza economico-sanitaria, da tempo l’ophiocordyceps sinensis viene prodotto in laboratorio, sia in vitro che “all’asciutto”, e seppur in entrambi i casi ciò avvenga senza il supporto della larva del lepidottero, ciò non ne intacca le proprietà terapeutiche.
Non avendo la possibilità, ed onestamente neppure un particolare interesse, di visitare le remote regioni nepalesi dove avviene la raccolta di questo originalissimo fungo, per altro regolata da rigidissime leggi, ci siamo però prodigati in una piccola, infruttuosa ma interessante ricerca per poter almeno vederne da vicino un esemplare e fotografarlo.
Gli elevatissimi prezzi sono invece un deterrente all’idea di possederne uno, seppur, secondo il libro sul Tibet citato all’inizio, i prezzi astronomici sembrano riservati ad esemplari perfettamente integri, mentre quelli rotti, privi di qualche pezzetto, dovrebbero avere dei prezzi più accessibili, e potrebbero soddisfare comunque ampiamente la nostra curiosità naturalistica.
Nella città di Kathmandu, sulle ampie strade nei pressi del grande e popolare Thundikel Park, vicino ad un grande ospedale pubblico, specialmente durante i giorni di festa è possibile incontrare degli interessanti personaggi, dai tipici caratteri tibetani logorati dalla dura vita di montagna, che vendono stranissimi rimedi naturali.
In genere sono seduti per terra, di fronte al loro “negozio”: un foglio di plastica sopra al quale sono posati numerosi sacchetti, dove vengono conservate radici, erbe, semi, noci, rametti e altri oggetti non ben identificati, provenienti dalle foreste himalayane.
Qualche tempo fa, durante uno dei tanti scioperi generali nella Valle di Kathmandu, incontrammo uno di questi personaggi, circondato da un gruppetto di persone e allegramente indaffarato a preparare dei pacchetti ad una coppia di nepalesi di mezza età.
Purtroppo, a causa delle nostre limitatissime conoscenze della lingua nepalese, ammesso e non concesso che non parlassero qualche dialetto locale, non riuscimmo a capire quasi nulla di quello che veniva detto ma, attraverso l’universale linguaggio dei gesti, ampiamente usato sia dal negoziante che dai clienti, ci sembra di aver intuito che molte di quelle stranezze servono per preparare tisane, presumibilmente contro le costipazioni ed i malanni derivanti dalla stagione fredda.
Da uno dei sacchetti tenuti in disparte, con grande sorpresa della decina di persone presenti, fu estratta addirittura una zampetta di qualche particolare ungulato e, alla provocazione di un paio d’astanti che fosse semplicemente di capra, il solerte ed esperto venditore fece notare la differenza nel numero delle dita, quindi con un coltello ne tagliò una striscia e la mise nei pacchetti che stava preparando ai due signori.
Anche se tutta l’operazione di acquisto e mercanteggio fu alquanto confusa, alla fine ci sembra di aver visto dare al venditore 450 rupie, circa 4 euro, una somma considerevole per gli standard di vita nepalesi.

Purtroppo però, tra i numerosi misteriosi ingredienti, che ebbimo modo di osservare con calma, non ci è sembrato di vedere qualcosa che potesse assomigliare allo yartsa gunbu; riproveremo in futuro, magari migliorando la nostra conoscenza della lingua nepali e chiedendo informazioni ad uno di questi interessanti personaggi.

Akbar, Birbal, sua figlia e le passioni

Un giorno l’Imperatore Akbar chiese al suo cortigiano favorito Birbal “Qual è la madre di tutte le passioni? Se entro tre mesi non scoprirai questo per me, ti farò tagliare la testa”.
Gli imperatori, si sa, sono un po’ imprevedibili e Birbal non potè far altro che accettare questo ordine del suo padrone.
Nonostante la sua proverbiale sagacia però, passati due mesi e mezzo, non era ancora riuscito a trovare una risposta soddisfacente ed  iniziava ad essere molto preoccupato.
Sua figlia notò il suo scoraggiamento e gli chiese qual era la causa.
Birbal quindi le raccontò della domanda di Akbar, lei sorrise e gli disse “Invita a cena l’imperatore per stare solo con me”.
Il giorno stabilito, la figlia di Birbal cercò una serva che le somigliasse e la tenne nascosta in camera, mentre lei intratteneva amabilmente l’Imperatore.
Akbar fu molto soddisfatto della piacevole serata passata con la figlia del suo cortigiano e tra il buon cibo, l’abbondante bevuta e l’atmosfera romantica, disse alla ragazza che sarebbe stato felice di avere la sua compagnia a letto.
La figlia di Birbal, che l’aveva previsto, chiese alcuni minuti per andare a prepararsi e quando invitò l’imperatore nella stanza, in realtà nel letto vi era la serva-sosia.
Il giorno dopo Akbar, tornato a palazzo, fu preso dal rimorso di aver deflorato la figlia del suo miglior amico e mandò qualcuno a chiamarla.
Lei arrivò gaia e sorridente, mentre Akbar si aspettava che anche lei si sentisse in colpa e avesse vergogna, invece gli disse “Mio Imperatore, non ero io la ragazza che avete deflorato, era una mia sosia”, e come prova fece entrare la serva che l’aveva accompagnata al palazzo.
Sorridendo continuò “Volevo solo dimostrarvi che la solitudine è la madre di tutte le passioni, così che non avreste tagliato la testa a mio padre”.

Akbar fu molto soddisfatto, si congratulò pubblicamente con Birbal per avere una figlia di tale bellezza e intelligenza e donò un grande pezzo di terreno alla ragazza che aveva deflorato, e che in realtà era già più che lusingata e soddisfatta di aver fatto l’amore con l’imperatore.

lunedì 22 febbraio 2016

L'halva

L’halva, scritto e pronunciato in vari modi, alva, halwa, helwa, è un dolce tipico della cultura araba, ebraica e mussulmana, diffuso in numerose varianti dal nord Africa fino al subcontinente indiano, passando anche attraverso alcuni stati dell’est europeo.
A questo va aggiunta la diffusione nelle americhe, del nord grazie alla folta presenza di indiani ed ebrei, del sud, in particolar modo Argentina e Brasile, per la storica ed abbondante comunità di immigrati siro-libanesi.
Oltre a quello culturale, un altro importante motivo del globale successo dell’halva è la semplicità degli ingredienti e delle preparazioni, tra le quali due sono quelle più facilmente distinguibili: una a base di farina, in genere semola, ed una a base di burro di noci, come ad esempio il comune burro di arachidi.
In India è tipica la specialità a base di semola, alla quale si fa riferimento in questo articolo.
La preparazione più semplice, e quindi più popolare, prevede l’utilizzo di pochi comunissimi ingredienti: semola, ghee (burro chiarificato), zucchero, acqua, scaglie di mandorle e uvetta.
Fatto sciogliere lo zucchero nell’acqua, si frigge-abbrustolisce la semola nel ghee per una decina di minuti, finché assume una decisa colorazione marroncina, si aggiunge a poco a poco l’acqua zuccherata, facendo sbollicchiare per un’altra decina di minuti ed una volta raffreddato leggermente, l’halva è pronto per essere guarnito con mandorle ed uvetta, e servito.
La consistenza può variare ma di solito ricorda quella della polenta, chiaramente più leggera.
Il sapore, nella sua semplicità, è piuttosto gradevole, grazie al piacevole aroma del semolino abbrustolito ed addolcito dall’abbondante presenza di zucchero e uvetta.
In alcune ricette viene anche aggiunto un poco di sale, che, contrastando lo zucchero, tende ad aumentare la sensazione di dolcezza (permettendo quindi di usare meno zucchero).
Questa semplice preparazione rende il suji ka halva, l’halva di semola, un dolce molto pratico da preparare sia a livello domestico, ad esempio per offrire qualcosa di veloce e gradito ad un ospite inatteso, ma anche per cerimonie religiose, grazie alla purezza degli ingredienti apprezzati da tutte le divinità, e viene spesso offerto nei templi come prasad, appunto offerta, che viene presentata alla divinità, da Essa santificata e quindi consumata dai fedeli.
Tra le numerose varianti, molto diffusa è l’halva a base di differenti farine, già ampiamente utilizzate in tutta la cucina del subcontinente, quali ad esempio farina di ceci e di lenticchie.
Queste tipologie hanno gusti e consistenza decisamente diverse dall’halva di semola, e tendono ad assomigliare ad altri dolci tipici, a causa della presenza di khoa (di cui vedremo poco più avanti), infatti vengono confezionate in molti negozi con forme classiche da “pasticcino” indiano, rotonde, quadrate, a rombo, etc.
Un’altra variante estremamente comune ed interessante è il gajar ka halva, a base di carote (gajar), che vengono tagliate finemente per farne una sorta di pasta.
In questo caso, come il suji ka halva, la consistenza più friabile e leggera di quello a base di farina di ceci o di lentcchie, non permette di confezionarne pasticcini, ma viene consumato in ciotole con il cucchiaio o con le mani, strappandone dei piccoli bocconi.
Nelle preparazioni a base di altre farine e di carote (ma esistono anche varianti con zucche e tuberi), per addolcire maggiormente questi ingredienti di per sé poco dolci, viene utilizzata la khoa, un prodotto tipico della cucina indo-pakistana, che consiste in una pasta giallina friabile preparata facendo seccare il latte in grandi karahi, le tipiche pentole indiane simili alle più note wok.
Per i palati poco avvezzi a questa concentrata preparazione latticina, la khoa risulta essere piuttosto pesante e, se di non ottima qualità, tende a produrre un aroma ed un gusto simili al formaggio, decisamente poco adatto da abbinare ai dolci.
Certo con un uso appropriato di buona khoa in una ricetta casalinga, il gajar ki halva è sicuramente molto gustoso, ma l’abbondante utilizzo di khoa di scarsa qualità nelle poco accurate ricette dei negozi di dolci, lo rendono poco appetibile e molto indigesto.

Dando un’occhiata alle ricette proposte su internet, ma soprattutto dopo aver raccolto le semplici istruzioni dalla nostra professoressa privata di hindi, fonte inesauribile di notizie d’ogni sorta sull’India, abbiamo avuto modo di fare alcuni esperimenti che ben presto, già al terzo tentativo, ci hanno permesso di produrre qualcosa di non proprio delizioso ma ampiamente commestibile.
Di solito le ricette indiane hanno il problema della non facile reperibilità degli ingredienti al di fuori dell’India, seppur per l’halva questo riguarda un’unico ingrediente, cioè il ghee, burro chiarificato, in India indispensabile per numerose ricette e quindi presente in ogni cucina un minimo organizzata, mentre in Italia è poco comune e piuttosto costoso.
La sostituzione del burro chiarificato con burro normale potrebbe comunque produrre un risultato molto simile.
Gli ingredienti con le proporzioni classiche sono: 1 parte di burro chiarificato, 2 parti di semolino, 2 parti di zucchero, 4 parti di acqua, mandorle ed uvetta a piacimento.
In realtà queste proporzioni sono regolate secondo i gusti indiani, in particolare l’abbondante utilizzo di ghee e zucchero che potrebbe essere decisamente inferiore.
Fuorviante è anche la quantità d’acqua che deve essere maggiore, altrimenti l’halva risulta troppo asciutto ed il risultato, piuttosto che la polenta, ricorda una torta sbriciolata un po’ grumosa.
Le dosi della nostra piccola porzione personale, a seguito di ripetuti esperimenti, sono di: 1 cucchiaio e mezzo di ghee, 5 cucchiai di semola, 1 cucchiaio e mezzo di zucchero, un bicchiere d’acqua, 7-8 chicchi d’uvetta, 3-4 mandorle; per due-tre persone basta raddoppiare le dosi.
La semplice preparazione prevede, come prima cosa, di sciogliere lo zucchero nell’acqua facendola bollire per un paio di minuti, quindi mettere da parte.
Sciogliere il burro chiarificato in una padella antiaderente non molto grande e con i bordi alti (assumendo che si sia sprovvisti di una karahi o di una wok), aggiungere la semola ed abbrustolire a fuoco medio finché la semola raggiunge un deciso colore marroncino, in circa una decina di minuti, in base al rapporto ghee-semola ed alla potenza del fuoco.
A quel punto si abbassa leggermente la fiamma e si inizia a versare poco per volta l’acqua zuccherata, rimescolando per amalgamare bene ed evitare si rapprenda; nel qual caso basta aggiungere altra acqua.
Dopo circa 5 minuti di “sbollichiamento”, durante i quali si può aggiungere l’uvetta per ammorbidirla e farle sprigionare un minimo di aroma, l’halva raggiunge una consistenza simile al semolino, si spegne, si aggiungono le scaglie di mandorle dando un’ulteriore rimescolata e si lascia raffreddare per almeno cinque minuti, anche per farlo asciugare ulteriormente (la semola anche a fuoco spento tende a continuare la sua funzione assorbente).
Leggermente calda l’halva è particolarmente saporita ma si può consumare anche fredda, fino a circa una dozzina d’ore dopo la preparazione.

L'orgoglio di Benares: Tailanga Swami

Tailanga Swami fu uno dei più grandi e originali santi prodotti dalla città sacra di Varanasi, tanto che viene ancora oggi chiamato “L’orgoglio di Benares”.
La sua straordinaria vita pare sia durata circa 300 anni (tra il XVI e il XVIII secolo), di cui circa 100 trascorsi all’interno del fuoco della pira di sua madre, 100 immerso nelle profondità del sacro Gange e gli ultimi 100 seduto sui ghat di Benares in un più o meno assoluto mutismo.
Quando morì venne posto dentro ad una bara per essere abbandonato alla sacra confluenza dei fiumi Gange e Yamuna, che si incontrano nella città di Allahabad, ma dopo che la bara fu affondata, qualcuno notò Tailanga Swami che camminava sull’altra riva; e da quel giorno nessuno lo ha mai più visto.
La sua fama è data da numerose storie sui suoi straordinari poteri, di cui diamo di seguito alcuni esempi.

Una delle sue “specialità” era quella di offrire, al tempio di Shiva più importante della città, le sue stesse urine e feci, in quanto egli non discriminava falsamente e vedeva Dio in tutto.
Un giorno, un sacerdote contrario a questa pratica schiaffeggiò pubblicamente Tailanga Swami, il quale non disse nulla e se ne andò.
La notte stessa il Maharajà di Benares ebbe un sogno in cui Shiva gli disse “Come si permette qualcuno di schiaffeggiare Tailanga Swami, la mia stessa essenza!”.
Turbato da questo monito il mattino successivo il Maharajà mandò qualcuno a chiamare il sacerdote per punirlo ma gli venne comunicato che era morto nella notte...

Un’altra nota storia vide protagonista il Maharajà stesso, che invitò Tailanga Swami sulla sua barca per un rilassante giro sul Gange.
Durante il viaggio il Maharajà fu preso da un attacco di narcisismo ed iniziò ad enumerare le sue imprese, i suoi possedimenti e via dicendo.
Tailanga Swami, contrariato, all’improvviso prese la spada del Maharajà e la lanciò nel Gange.
Il Maharajà fu molto sorpreso e ancora di più irritato, visto che la spada era il simbolo del suo potere, oltre che un antico cimelio di famiglia, e iniziò ad insultare Tailanga Swami.
Quando il Maharajà finì la sua sfuriata, Tailanga Swami mise un braccio dentro l’acqua e ne estrasse due spade perfettamente identiche.
Quindi chiese al Maharajà di prendere la sua ma lui non fu in grado di distinguerla e lo ammonì di non essere troppo attaccato a quello che possedeva visto che è tutto un’illusione.
Ne buttò una nel Gange e restituì l’altra al redento Maharajà.
(Questa storia è probabilmente apocrifa, dato che ne esistono altre estremamente simili. Una, ad esempio, riguarda il santo Gorakhnath che fece un miracolo del genere per un re addolorato per la morte della moglie: ne fece apparire due copie identiche e chiese al re di scegliere la sua. Impossibilitato, il re capì l’illusorietà della vita e Gorakhnath gli permise di tenere una delle due copie.)

Due altre brevi storie riguardano invece il rapporto che Tailanga Swami ebbe, suo malgrado, con le autorità dell’Impero Britannico.
Siccome egli era solito girare completamente nudo mostrando oltretutto un ventre molto prominente, un giorno alcuni soldati inglesi decisero di arrestarlo e chiuderlo in cella per oltraggio al pubblico pudore.
Pochi minuti dopo averlo rinchiuso però, furono sbalorditi nel notare che egli stava passegiando tranquillamente sul tetto del carcere.
Fu quindi rinchiuso un’altra volta ma dopo un po’ fu visto di nuovo passeggiare sul tetto.
Questo si ripeté parecchie volte finché i soldati si arresero e lasciarono andare Tailanga Swami.

Sempre a causa del suo aspetto fisico, un giorno Tailanga Swami fu arrestato da un alto ufficiale dell’Impero e portato nel suo ufficio, dove egli pensava di prendersi gioco di quello strano personaggio grasso e nudo.
In tono di scherno gli chiese “Sei in grado di mangiare quello che mangio io?”.
Tailanga Swami non rispose, ma fece cenno di sì con la testa.
L’ufficiale fece quindi portare un piatto con del vitello, considerato sacrissimo e tabù nell’induismo, pensando di offendere gravemente Tailanga Swami; lui però non disse nulla e mangiò.
Quando ebbe finito chiese a sua volta “E siete voi in grado di mangiare quello che mangio io?”.
Così dicendo prese il piatto che aveva contenuto il vitello, vi defecò e vi mise il coperchio.
L’ufficiale si sentì oltraggiato e disse “Vuoi vedere chi sono io? Guardie, arrestate quest’uomo e mettetelo in cella!”.
Tailanga Swami sorridendo gli chiese “Perché, cosa ho fatto? Guardate meglio!”.
L’ufficiale aprì il coperchio e dentro vi era un bel pollo arrosto fumante pronto per essere mangiato.
Questi rimase talmente sbalordito che lasciò tutto per seguire Tailanga Swami di cui divenne uno dei più fedeli devoti.

domenica 21 febbraio 2016

La castagna d'acqua

Castagna d’acqua è il nome dato alle piante ed al frutto del genere trapa, del quale fanno parte tre specie, la trapa natans, la trapa bicornis e la trapa rossica.
Il nome deriva da calcitrapa, o piede di corvo, un’arma da guerra nota già ai romani, costituita da una specie di chiodo metallico a quattro punte, che vengono lanciati sul terreno per fermare le avanzate nemiche.
Il frutto castagna d’acqua infatti si presenta con una spessa buccia impermeabile, munita di 2 o 4 spine, che ricordano il piede di corvo, dentro al quale si trova un seme bianco a forma di cuore.
Originario di climi temperati di Africa ed Eurasia, il genera trapa è conosciuto dall’uomo fin dall’antichità, tanto che in India e Cina pare essere coltivato da più di tremila anni.
La diffusione globale è favorita dal fatto che essendo una pianta galleggiante annuale non ha bisogno di particolari requisiti climatico-ambientali, se non temperature miti ed acque lente con una profondità massima di 5 metri.
Ancorata al fondo da sottili radici, in superficie produce delle foglie gallegianti dai bordi seghettati a forma ovoidale o triangolare e dei fiori bianchi formati da quattro petali, mentre i semi-frutti nascono attaccatti a stemmi indipendenti.
Nelle Americhe ed in Oceania è considerata una pianta altamente infestante mentre in Europa l’ampia diffusione raggiunta nel medioevo è scemata fino ad essere considerata, al giorno d’oggi, piuttosto rara.
In Italia sono due le aree dove è presente la castagna d’acqua, del genere trapa natans: nella parte nordoccidentale del Lago Maggiore, in provincia di Verbania, si trova la sottospecie endemica trapa natans verbanesis, dalle caratteristiche 2 spine invece di 4; nei laghi del mantovano viene invece coltivata la specie più comune.
In Europa viene storicamente consumata arrostita, come le normali castagne, oppure fresca, mentre in India è consumata fresca, cucinata in speziati curry o appena saltata nell’olio, e sotto forma di farina.
Grazie al fatto di essere una pianta, per di più acquatica, nella gerarchica psicologia induista essa occupa un alto gradino nella scala degli alimenti più puri ed il suo consumo è consentito anche durante i giorni di digiuno, che nelle feste di Navratri, ad esempio, possono essere anche una decina.
In questi periodi in particolare viene usata la farina di singhara (nome hindi della trapa) per produrre del semplice pane.
In genere nei mercati indiani la specie più comune è di colore viola o verde scuro-nero di medio-grandi dimensioni, oppure completamente nere, di dimensioni minori.
Le seconde risultano essere meno saporite e meno dolci, quindi spesso vengono consumate accompagnate da sale e kala namak (il sale nero-viola-rosa di sapore sulfureo tipico indiano).
Grazie alle dimensioni ridotte sono anche preferibili per essere soffritte in padella.
In generale, il gusto leggermente dolce e floreale è piuttosto piacevole, seppur spesso se ne trovino di praticamente insapore e con la consistenza eccessivamente stopposa.
Purtroppo, a causa della spessa buccia che le rende tutte molto simili, non c’è modo di distinguere quelle più saporite dalle altre ed anche le dimensioni possono essere fuorvianti poiché quelle più piccole, che sarebbe logico desumere essere ancora giovani quindi più dolci, spesso non sanno di nulla o sono acidognole, come accade altrettanto sovente che quelle più grandi, che ci si aspetterebbe essere più farinose, siano molto gustose.
Per finire una breve parentesi sulle spine.
La specie indiana dovrebbe essere quella che ne possiede 4, ma della sottospecie che ne possiede 2, e comunque, ad un’attenta osservazione, esse sono effettivamente 3...
Soprattutto quelle più grandi, presentano una piccola spina, leggermente nascosta, al centro della punta piatta, alla quale comunque bisogna stare ben attenti quando si cerca di aprire avidamente la spessa buccia.
Inutile dire che un sacchetto di singara, come i mediterranei carciofi, può essere utilizzato con ottimi risultati come minaccia per farsi largo tra la folla dei mercati.