domenica 7 febbraio 2016

Il Santo Kabir

Tra la moltitudine di santi che l’India ha prodotto nell’arco dei secoli, un posto di primo piano spetta sicuramente all’originalissimo Kabir.
Sebbene sia vissuto intorno al non lontano XIV secolo, sono pochissime le notizie certe riguardo la sua vita, a parte il fatto che sia nato e vissuto nella sacra città di Benares.
Perfino la sua nascita è avvolta da un alone di mistero, in quanto pare sia stato partorito da una donna bramina in difficoltà, quindi abbandonato nei pressi di una vasca sacra, e successivamente raccolto da un’umile coppia di tessitori mussulmani senza figli.
Le poche notizie vagamente sicure sulla sua vita si possono ricavare dalle sue numerose poesie, che lo pongono tra i maggiori poeti del suo tempo.
Infatti, seppur la definizione di santo sia di per sé alquanto onorifica ed onnicomprensiva, nel caso di Kabir risulta quasi riduttiva, data la versatilità del personaggio, che non fu solo un importante santo, ma anche filosofo, riformatore sociale, yogi, poeta, musico ed infine tessitore, l’occupazione della sua famiglia.
Il messaggio principale del suo insegnamento, seppur lui stesso non si sia mai ritenuto un maestro, sta nell’infinita umanità e nel suo amore verso le persone disagiate, che ne fanno anche un archetipo dei moderni attivisti per i diritti umani.
Nell’evidenziare la sua importanza storica bisogna ricordare l’intricatissima situazione politica indiana durante quel periodo, specialmente a Benares, caratterizzata dall’affermazione dell’Islam nel subcontinente indiano.
La città di Benares, in quanto roccaforte dell’induismo, fu spesso soggetta a persecuzioni e distruzioni da parte dei regnanti mussulmani, ma allo stesso tempo, data la sua importanza, è sempre stata tenuta d’occhio con un certo riguardo.
Durante il periodo di Kabir, ad esempio, nonostante la città fosse governata da un reggente mussulmano inviato dall’Imperatore di Delhi, il Maharaja era un indù e questo creò ulteriori difficoltà alle persone comuni interessate, più che altro, al quieto vivere.
La pressione e la contorta politica derivanti dall’essere soggetti quindi ad una doppia autorità religiosa, fu anche artefice dell’incremento dell’ipocrisia e della superstizione, due mali contro i quali Kabir dedicò gran parte della sua esistenza e delle sue opere.
Date le sue origini misteriose e la sua avversione verso le religioni organizzate, risulta quindi difficile definire Kabir come un santo indù o mussulmano: secondo la leggenda, quando morì sia gli induisti che i mussulmani reclamarono il suo corpo, i primi per bruciarlo, i secondi per seppellirlo, ma quando si recarono nella stanza dov’era conservato, al posto del cadavere trovarono un mazzo di fiori, che fu, una volta tanto, democraticamente diviso, per permettere a entrambe le comunità di compiere i riti funebri secondo i propri costumi.
Un’ulteriore riprova dell’universalità del suo messaggio è evidente anche dalla folta presenza di sue poesie all’interno del Guru Granth Sahib, la raccolta di testi sacri fondamento della religione Sikh.
Venendo quindi alla figura di Kabir come poeta, la prima caratteristica peculiare da evidenziare è che lui personalmente non scrisse mai nulla, visto che, come affermò in un famoso verso, non sapeva né leggere né scrivere (letteralmente disse “Queste mani non hanno mai toccato penna o carta), ma le sue composizioni, sotto forma di discorsi, canzoni o brevi ritornelli, sono state trascritte dai suoi attivi seguaci.
Durante quel periodo era comune che i poeti, e gli scrittori in genere, accompagnassero le loro composizioni con la musica, e solo i più eccelsi venivano poi ammessi alle corti di regnanti e ricchi personaggi che gli permettevano di vivere esclusivamente di quello e di perfezionarsi.
Data però la sua inveterata avversione proprio verso ricchi e regnanti, contro i quali sono dirette alcune delle sue critiche più pungenti, Kabir si limitava a vagare per le strade della città cantando le sue opere, accompagnandosi col classico e umile strumento chiamato ektara, un essenziale “violino” munito di una sola corda, da cui il nome (ek, uno, e tara, corda).
La sua forma di poesia più utilizzata è sicuramente la doha, una peculiare metrica indiana che prevede l’utilizzo di due soli versi e richiede quindi una notevole maestria nel poter veicolare messaggi complessi.
Come esempio riportiamo una famosa doha che, nonostante i limiti di traduzione, mostra lo stile e la capacità compositiva di Kabir, nonché la sua profonda conoscenza del rapporto uomo-Dio; riportiamo anche la traslazione, nella speranza che rimanga il caratteristico ritmo, scandito dalle virgole.
Dukh me smaran sabh kare, sukh me na koi,
jo sukh me smaran kare, dukh me na hoi.
Nelle sofferenze tutti Lo ricordano, nella felicità nessuno,
ma per coloro che Lo ricordano nella felicità, non ci saranno più sofferenze.

Alcune delle sue opere, specialmente quelle più lunghe con tema complicati concetti yoga (che oltretutto non si capisce assolutamente dove li abbia appresi), sono così enigmatiche e prone a molteplici interpretazioni, che ancora oggi gli studiosi non riescono a capire con esattezza cosa Kabir volesse realmente dire.
Va anche segnalata una spiacevolissima opera di interpolazione delle sue opere, che sono state divulgate spesso con intenti “politici” e quindi prevedibilmente corrotte: alla sua morte i suoi discepoli si divisero infatti in due sette, che a lungo rivaleggiarono per vantare una specie di autorità sull’argomento Kabir.
La fonte più precisa ed imparziale risulta essere quindi quella proveniente dai testi presenti nella letteratura sacra Sikh, seppur in questo caso ci sia il problema che le poesie, seppur in buona fede, sono state trascritte o tradotte in un’altra lingua, il punjabi, per cui qualcosa di sicuro si è perso o è stato mutato.
Nonostante questo, è possibile comunque avere un’idea precisa del suo messaggio umanistico, che continua ad avere validità ancora oggi, e come tale viene, per fortuna, apprezzato pubblicamente, soprattutto attraverso il teatro e la musica, dove le sue opere sono una continua fonte ispirazione.

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