martedì 23 febbraio 2016

Il fungo yartsa gunbu (ophiocordyceps sinensis)

Alcuni anni fa, durante una visita in una bella e fornitissima libreria di Kathmandu, ci imbattemmo in un grande volume fotografico sulle remote regioni del Tibet.
Tra i tanti scatti di meravigliosi paesaggi incontaminati e affascinanti momenti di vita d’alta montagna, la nostra attenzione si soffermò sulla fotografia di una mano, rugosa e annerita, sul palmo della quale era posato uno strano oggetto, simile a un sottile peperoncino secco marrone.
Come riportato dall’interessante capitolo seguente, si tratta invece dello yartsa gunbu, o yarchagumba (nome scientifico ophiocordyceps sinensis), un particolarissimo fungo che cresce sopra i 3.500 metri di altitudine, sull’altopiano del Tibet ed i pascoli d’alta quota dell’Himalaya di Nepal ed India.
In realtà, quello strano oggetto non è solo il fungo, bensì il risultato della relazione parassitica tra il fungo e la larva di alcuni lepidotteri.
Queste larve spendono fino a cinque anni sotto terra in attesa di diventare pupe e durante questo periodo rischiano di essere attaccate dal fungo, seppur non sia ancora chiaro come questo avvenga: se tramite l’ingestione di spore del micelio, oppure se esse passino attraverso i pori utilizzati dalle larve per la respirazione.
Una volta all’interno, l’ophiocordyceps germina, uccide l’organismo vivente che lo ospita, lo mummifica, quindi cresce dentro il suo corpo finché non ne esce fuori, in genere dalla testa situata vicino alla superficie, e dalla quale quindi spunta il fungo.
Il nome scientifico cordyceps sinensis – utilizzato fino a pochi anni fa e modificato solo recentemente dopo analisi molecolari che hanno rivelato faccia parte del genere ophiocordyceps – si rifà alla forma che ricorda la testa (ceps, dal latino capus) di una clava (cordi, dal greco kordule), sinensis invece vuol dire cinese, mentre il nome tibetano yartsa gunbu (o yarchagumba) significa erba in estate, verme d’inverno, dal particolare sviluppo che segue il fungo; seppur la sequenza in realtà sia invertita, prima è verme poi erba.
I primi cenni scritti del suo utilizzo in campo medico risalgono a circa il XIV secolo, ma si suppone sia in realtà ben più antico ed oggiogiorno è considerato uno degli ingredienti più richiesti nella medicina tradizionale cinese, al punto da essere uno dei più costosi rimedi naturali.
Secondo i dati forniti dall’articolo inglese di Wikipedia, può arrivare a costare più di mille dollari al chilo, sebbene per la produzione di rimedi a livello domestico ne bastino pochi grammi.
Per la medicina tradizionale cinese sono innumerevoli le malattie che possono essere curate tramite lo yartsa gunbu, ma anche la medicina occidentale si sta interessando alle sue numerose, ma non ancora del tutto esplorate, proprietà terapeutiche.
Un articolo apparso sul The Kathmandu Post alcuni anni fa, intitolato Sharp decline in Yarcha collection, says report (Leggera diminuzione nella collezione di Yarcha, afferma un rapporto), ci informa invece del progressivo declino, non solo nell’area nepalese, ma anche in India, Tibet e Bhutan.
Nel distretto di Dolpo in Nepal, dove la produzione è pari al 50% di quella totale del paese, il raccolto annuo è passato da una media di circa 267 pezzi a persona nel 2006, ai 125 del 2010, mostrando un declino annuale di circa 30 pezzi a persona.
Sebbene le cause di questa riduzione non siano ancora state accertate, le più accreditate sono una maggior richiesta a livello internazionale, nonché un eventualmente ancor più preoccupante declino, dovuto a globali cambiamenti climatici, dei delicati lepidotteri correlati al fungo.
Per fortuna, grazie all’importanza economico-sanitaria, da tempo l’ophiocordyceps sinensis viene prodotto in laboratorio, sia in vitro che “all’asciutto”, e seppur in entrambi i casi ciò avvenga senza il supporto della larva del lepidottero, ciò non ne intacca le proprietà terapeutiche.
Non avendo la possibilità, ed onestamente neppure un particolare interesse, di visitare le remote regioni nepalesi dove avviene la raccolta di questo originalissimo fungo, per altro regolata da rigidissime leggi, ci siamo però prodigati in una piccola, infruttuosa ma interessante ricerca per poter almeno vederne da vicino un esemplare e fotografarlo.
Gli elevatissimi prezzi sono invece un deterrente all’idea di possederne uno, seppur, secondo il libro sul Tibet citato all’inizio, i prezzi astronomici sembrano riservati ad esemplari perfettamente integri, mentre quelli rotti, privi di qualche pezzetto, dovrebbero avere dei prezzi più accessibili, e potrebbero soddisfare comunque ampiamente la nostra curiosità naturalistica.
Nella città di Kathmandu, sulle ampie strade nei pressi del grande e popolare Thundikel Park, vicino ad un grande ospedale pubblico, specialmente durante i giorni di festa è possibile incontrare degli interessanti personaggi, dai tipici caratteri tibetani logorati dalla dura vita di montagna, che vendono stranissimi rimedi naturali.
In genere sono seduti per terra, di fronte al loro “negozio”: un foglio di plastica sopra al quale sono posati numerosi sacchetti, dove vengono conservate radici, erbe, semi, noci, rametti e altri oggetti non ben identificati, provenienti dalle foreste himalayane.
Qualche tempo fa, durante uno dei tanti scioperi generali nella Valle di Kathmandu, incontrammo uno di questi personaggi, circondato da un gruppetto di persone e allegramente indaffarato a preparare dei pacchetti ad una coppia di nepalesi di mezza età.
Purtroppo, a causa delle nostre limitatissime conoscenze della lingua nepalese, ammesso e non concesso che non parlassero qualche dialetto locale, non riuscimmo a capire quasi nulla di quello che veniva detto ma, attraverso l’universale linguaggio dei gesti, ampiamente usato sia dal negoziante che dai clienti, ci sembra di aver intuito che molte di quelle stranezze servono per preparare tisane, presumibilmente contro le costipazioni ed i malanni derivanti dalla stagione fredda.
Da uno dei sacchetti tenuti in disparte, con grande sorpresa della decina di persone presenti, fu estratta addirittura una zampetta di qualche particolare ungulato e, alla provocazione di un paio d’astanti che fosse semplicemente di capra, il solerte ed esperto venditore fece notare la differenza nel numero delle dita, quindi con un coltello ne tagliò una striscia e la mise nei pacchetti che stava preparando ai due signori.
Anche se tutta l’operazione di acquisto e mercanteggio fu alquanto confusa, alla fine ci sembra di aver visto dare al venditore 450 rupie, circa 4 euro, una somma considerevole per gli standard di vita nepalesi.

Purtroppo però, tra i numerosi misteriosi ingredienti, che ebbimo modo di osservare con calma, non ci è sembrato di vedere qualcosa che potesse assomigliare allo yartsa gunbu; riproveremo in futuro, magari migliorando la nostra conoscenza della lingua nepali e chiedendo informazioni ad uno di questi interessanti personaggi.

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