lunedì 27 febbraio 2017

Il racconto I libri contabili di Ayodhya

Nel racconto “I libri contabili di Ayodhya”, Harishankar Parsai ironizza simpaticamente su alcune tradizioni indiane e vari aspetti della corruzione.
In particolare si fa riferimento alla festa di Diwali che viene considerata l’inizio dell’anno fiscale ed occasione d’oro per falsificare i libri contabili.
Il contesto è la città di Ayodhya ed il ritorno del dio Rama, dopo 14 anni di esilio, che viene oggi celebrato con Diwali.
Stranamente il ritratto del dio Hanuman non è molto lusinghiero ma rappresenta l’aspetto credulone delle religioni.

Nei libri sacri è scritto che quando Rama, dopo aver sconfitto Ravana, tornò ad Ayodhya, in tutta la città vennero accesi dei lumini e questa tradizione rimarrà per sempre ricordata nella festa di Diwali. Oltre a questo, durante questa festività i libri contabili vengono cambiati e fasciati dentro ad un tessuto rosso.
La domanda è “Che relazione c’è tra il ritorno di Rama ad Ayodhya e cambiare i libri contabili? E perché vengono fasciati in un tessuto rosso?”.

Il fatto è che quando sopraggiunse la notizia del ritorno di Rama, nella casta dei mercanti ci fu un gran trambusto. Continuavano a ripetersi “Ora siamo in un brutto guaio. Durante il regno di Bharat (che regnò durante i 14 anni di esilio di suo fratello Rama) ci furono molti scandali. Ma Rama è il migliore tra gli uomini e non tollererà alcun tipo di evasione fiscale. Controllerà i nostri libri contabili e ci punirà sicuramente”.
Un altro mercante aggiunse “Fratelli, anche tutti i nostri soldi in nero verranno scoperti e presi!”.

Tutti gli abitanti di Ayodhya erano pronti per dare il benvenuto a Rama, ma la casta dei mercanti era in apprensione. Già prima di arrivare ad Ayodhya, Rama sapeva che c’erano stati alcuni scandali ed aveva chiamato Hanuman per dirgli “Ascolta, Figlio del Vento, a Lanka noi abbiamo vinto la guerra, ma ad Ayodhya avremmo di fronte a noi un nemico ancora più forte di Ravana, la corruzione della casta dei mercanti. Anche grandi eroi sono stati sconfitti dai mercanti, ma tu hai un’incomparabile intelligenza, quindi ti dichiaro direttore dell’esecutivo. Appena arriviamo ad Ayodhya vai dai mercanti ad ispezionare i loro libri contabili e scopri tutti i conti falsificati. E punisci i responsabili con durezza”.

Intanto i mercanti erano sempre più in fermento. Si dicevano tra loro “Fratelli, ormai siamo morti. Hanuman è stato dichiarato direttore dell’esecutivo. È davvero un osso duro: non è sposato e non ha figli, sarà difficile riuscire a corromperlo”.
Un consulente legale dei mercanti, presente al loro meeting, iniziò a pensare e decise che l’unica cosa da fare era cambiare i libri contabili In tutto il regno venne mandato l’ordine, dalla Camera di Commercio, che esattamente il giorno di Diwali i libri contabili vanno cambiati.

Nonostante questo, i mercanti erano preoccupati. Riuscire a raggirare Hanuman non sarebbe stata una cosa semplice, aveva un’intelligenza soprannaturale. Come si può cercare di ingraziarlo? Ed iniziò una discussione.
“Sicuramente non potremmo corromperlo con i soldi”.
“Non accetterà neppure una paisa”. (un centesimo di rupia)
“Lui non l’accetterà, ma sua moglie?”.
“Non ce l’ha, non è sposato. Ha passato la gioventù a combattere”.
“Beve liquori o qualcosa del genere?”.
“È un asceta fin da bambino, non riceverà una prostituta e non si intossicherà, è un uomo integerrimo”.
“Allora, cosa dovremmo fare?”.

Un anziano e scaltro avvocato prese la parola “Vedete, alle grandi persone piace essere adulate. Hanuman non accetta l’illusione di Maya. Si copre il corpo con la pasta di sindur e veste un drappo rosso intorno ai fianchi. È un proletario, il ministro dei proletari. Renderlo felice sarà semplicissimo: rivestite i libri contabili con un drappo rosso”.
Durante la notte i libri contabili vennero quindi fasciati in un tessuto rosso.

Ayodhya era in festa. Rama, Sita e Lakshman venivano adorati ed anche la casta dei mercanti diede apertamente il suo benvenuto e tutti circondarono Hanuman inneggiando.
Il giorno dopo, Hanuman, insieme ad alcuni impiegati, si diresse verso il mercato. Come prima cosa andò da un mercante e gli disse di tirare fuori i libri contabili che ci sarebbe stata un’ispezione.
Questi tirò fuori un grosso pacco rivestito di tessuto rosso e glielo mise davanti. Hanuman vedendolo pensò subito che il tessuto era lo stesso che indossava lui sui fianchi e ne fu felice.
Disse “Fasciate i libri contabili nello stesso tessuto che uso io?”.
Il mercante rispose “Certamente, o possessore di saggezza, noi siamo suoi devoti. La preghiamo ed adoriamo, qualunque cosa diciate per noi è un ordine”.
Hanuman fu molto soddisfatto.
Il mercante disse “Apra pure il fascicolo, ispezioni i conti”.
Ma Hanuman disse “Lascia stare, i miei devoti non possono essere disonesti”.
Ovunque Hanuman andò quella mattina, gli vennero mostrati libri contabli avvolti in tessuto rosso, lui fu molto contento e non controllò i conti di nessuno.
Quindi fece rapporto a Rama dicendogli che ad Ayodhya i mercanti erano davvero onesti e i loro conti assolutamente in ordine.

Hanuman fu il primo comunista dell’universo, il ministro del proletariato. Per questo ancora oggi i comunisti usano il colore rosso.

Ma bisogna stare attenti al ministro del proletariato, che i borghesi non rivestano i loro libri contabili con il suo tessuto.

domenica 26 febbraio 2017

Il racconto "L'editore"

Il racconto di Tagore “L’editore” descrive le vicende di un uomo vedovo alle prese con la propria figlia.
Libera traduzione.

Finché mia moglie era in vita, non mi preoccupavo molto di Prabha. Ero più impegnato con sua madre che con lei. Ero felice di vederla giocare e ridere, di ascoltare la sua parlata ancora mezza formata e rispondere al suo affetto; quando ero dell’umore giusto giocavo anche con lei, ma appena iniziava a piangere la riportavo tra le braccia di sua madre e scappavo. Non consideravo quanta cura e sforzo ci vogliono per far crescere un bambino.
Con l’improvvisa morte di mia moglie, il compito di far crescere Prabha passò a me e l’abbracciai caldamente. Francamente non so chi fosse più preoccupato: io per dover crescere una figlia senza madre con il doppio dell’affetto, o lei a prendersi cura del suo vedovo padre. Ma da quando compì 6 anni iniziò ad occuparsi della casa ed era abbastanza chiaro che questa ragazzina stava cercando di diventare l’unico protettore di suo padre.
Mi divertiva lasciarmi andare interamente alle sue cure e notai presto che più io sembravo inutile ed incapace, più lei era contenta. Se prendevo il cappello o l’ombrello da solo, reagiva come se avessi usurpato un suo diritto. Non aveva mai avuto una bambola così grande come suo padre: gioiva tutto il giorno nel nutrirlo, vestirlo e prepararlo per andare a dormire. Solo quando prendevo in mano il libro di aritmetica o quello di poesie, il mio istinto paterno si svegliava leggermente.
Ogni tanto mi ricordavo che poterla sposare con un uomo rispettabile, mi sarebbe costato un sacco di soldi, ma dove li avrei presi? La stavo educando meglio che potevo, sarebbe stato un peccato se avesse sposato un sempliciotto.
Così iniziai a pensare a come guadagnare soldi, ma ero troppo vecchio per trovare un lavoro d’ufficio statale e non avevo molte speranze di entrare in qualunque altro ufficio, così dopo un lungo pensare decisi di scrivere un libro.
Se si fanno dei buchi ad una canna di bambù, non diventa un contenitore, non ci si possono tenere acqua o olio e non può essere usata per niente di pratico. Ma se ci si soffia dentro, diventa un eccellente e gratuito flauto. Ero dell’idea che chiunque fosse così sfortunato da essere inutile in ogni lavoro pratico, sicuramente avrebbe scritto dei buoni libri. Confidando in questo, scrissi una commedia ironica, qualcuno disse che era ben scritta e venne presentata sulla scena.
Il pericoloso risultato del mio improvviso assaggio di fama fu che non potei più smettere di scrivere commedie farsesche e con espressione accigliata passavo tutto il giorno a scrivere.
Se Prabha veniva a chiedermi, con un amorevole sorriso, “Padre, non fate il bagno?”, io la liquidavo dicendole di lasciarmi in pace e non disturbarmi.
Probabilmente il viso della ragazza si rabbuiava come una lampada che si spegne all’improvviso, ma io non notavo neppure il suo silenzioso uscire dalla stanza.
Mi arrabbiavo con la donna di servizio e schiaffegiai il domestico; se sulla porta compariva un mendicante, lo mandavo via con il bastone, se un innocente passante si fermava alla mia finestra per chiedermi indicazioni (la mia stanza dava sulla strada), gli dicevo di andarsene al diavolo. Perché la gente non riusciva a capire che in quel momento stavo scrivendo una commedia da ridere?
I soldi che guadagnavo non erano proporzionati né all’ilarità delle mie farse né della mia fama ma i soldi in quel periodo non erano tra i miei primi pensieri. Nel frattempo stavano crescendo gli sposi accettabili per Prabha, che avrebbero liberato un padre da questa preoccupazione, ma io non notai neppure quelli. Probabilmente solo la fame avrebbe potuto farmi riprendere i sensi, ma si presentò una nuova opportunità.
Il capo del villaggio di Jahir mi invitò a diventare editore salariato di una giornale che stava fondando. Accettai e dopo pochi giorni stavo scrivendo con un tale fervore che la gente iniziava a riconoscermi ed indicarmi per la strada e secondo il mio personale parere ero accecantemente brillante come il sole del pomeriggio.
Vicino a Jahir vi era Ahir ed i due capovillaggio erano acerrimi nemici. Precedentemente le loro dispute finivano con risse e violenza, ma ora il magistrato li aveva obbligati a mantenere la calma ed il capo di Jahir utilizzava me invece dei suoi scagnozzi.
Tutti dicevano che compivo il mio dovere con onore e gli abitanti di Ahir erano intimiditi dalla mia penna, che inceneriva la loro storia ed il loro passato.
Quello fu sicuramente un buon periodo per me, divenni grasso ed avevo un perenne sorriso stampato sul viso. Facevo delle devastanti sortite verbali contro gli abitanti di Ahir ed i loro antenati, e tutti a Jahir si sbellicavano per il mio umorismo; ero beatamente felice.
Alla fine, anche il villaggio di Ahir fondò un giornale. Aveva un linguaggio aggressivo e lanciavano insulti con tale zelo ed in modo così crudo e volgare che sembrava che le stesse lettere stampate sulle pagine strillassero. Gli abitanti di entrambi i villaggi sapevano cosa si intendeva, ma io, secondo il mio stile, attaccavo i miei nemici con umorismo, sottigliezze ed ironia, tanto che né i miei amici né i miei oppositori capivano quello che volevo dire. Il risultato era che sebbene io vincessi le discussioni, tutti pensavano che avessi perso.
Quindi sentii il dovere di scrivere un saggio sul buon gusto, ma scoprii che anche questo sarebbe stato un errore, poiché, se è facile ridicolizzare qualcosa di buono, è invece difficile ridicolizzare qualcosa che è già ridicola.
I miei datori di lavoro diventarono freddi nei miei confronti e non ero più il benvenuto a cerimonie pubbliche. Quando uscivo nessuno mi riconosceva o parlava con me, anzi qualcuno iniziava a ridere vedendomi. Mi sentivo come un fiammifero, che aveva fatto luce per un minuto dopodiché si era spento. Ero così amareggiato che per quanto mi forzassi a pensare, non riuscivo più a scrivere nemmeno una riga. Stavo iniziando a pensare che non avevo più un motivo per vivere.

Prabha ora aveva paura di me. Non aveva il coraggio di avvicinarsi se non era stata invitata e probabilmente finì per pensare che una bambola di terracotta sarebbe stata un compagno migliore di un padre che scriveva satira.
Un giorno divenne evidente che il giornale di Ahir stava iniziando a concentrarsi su di me invece che sul capo villaggio ed iniziarono a scrivere cose spregevoli. I miei amici mi portarono le copie del giornale e me le lessero molto divertiti. Alcuni dicevano che, a parte il contenuto, il linguaggio era superbo, intendendo che le calunnie contenute erano facili da capire, e dovetti sentire questa stessa opinione per tutto il giorno.
C’era un piccolo giardino di fronte a casa mia. Una sera era seduto lì da solo, stufo di questa situazione e notai gli uccelli che tornavano ai loro nidi e semttevano di cantare, lasciandosi andare liberamente alla pace della sera. Pensai che non ci sono combriccole di autori satirici tra gli uccelli, né discussioni sul buon gusto, ma continuai ad essere preoccupato su come avrei risposto ai miei calunniatori.
Uno dei problemi con la raffinatezza è che non tutte le persone la capiscono. La scrittura rozza è relativamente comune, così decisi di rispondere usando uno stile rozzo, non mi sarei dato per vinto! In quel momento sentii una piccola e familiare voce nel buio della sera, quindi una tenera e calda mano che toccava la mia. Ero così preoccupato e distratto che nonostante riconoscessi la voce ed il tocco, quasi non me ne accorsi. Ma un momento dopo la voce stava gentilmente avvicinandosi alle mie orecchie ed il delicato tocco si stava intensificando. C’era un ragazza di fianco a me e stava chiamando dolcemente “Padre”. Quando non ricevette nessuna risposta, prese la mia mano destra e l’avvicinò per un attimo alle sue guance, quindi tornò lentamente dentro casa.
Prabha non mi aveva chiamato così da molto tempo e non mi aveva più mostrato quel genere di affetto, così il tenero tocco di quella sera andò diretto al mio cuore.
Dopo un po’ anch’io rientrai in casa e vidi Prabha che giaceva su una sedia; sembrava distrutta ed i suoi occhi erano socchiusi, come un fiore, appassito a fine giornata. Misi una mano sulla sua fronte ed era molto calda, come il suo respiro, e le vene sulle tempie stavano pulsando. Solo allora realizzai che la ragazza, agitata dal principio della malattia, era andata da suo padre sperando in cuor suo di ricevere attenzioni ed affetto, mentre suo padre in quel momento era impegnato a pensare ad una infuocata risposta per il giornale di Jahir.
Mi sedetti di fianco a lei. Senza dire nulla, tirò la mia mano tra le sue, vi avvicinò le guance e rimase sdraiata.
Io feci un falò con tutti i giornali di Jahir ed Ahir e non scrissi mai la mia risposta, e la cosa mi diede la più grande felicità che avessi mai provato.

Quando era morta sua madre, avevo tenuto Prabha nel mio grembo, ora, dopo aver cremato la sua madre adottiva – il mio scrivere – l’avevo presa tra le mie braccia e portata a letto.

venerdì 24 febbraio 2017

Il racconto "La divisione"

Il racconto di Tagore “La divisione” riguarda una sfortunata amicizia tra due vicini di casa, Banamali ed Himangshu.
Segue libera traduzione.

Una ricerca genetica avrebbe rivelato che Banamali ed Himangshumali erano in realtà remoti cugini: la relazione era lontana ma rintracciabile. Le loro famiglie erano vicine di casa da molto tempo, quindi per quanto remota fosse la relazione di sangue, si conoscevano comunque molto bene.
Banamali era più grande di Himangshu e prima che a questi spuntassero i denti e potesse parlare, Banamali lo portava in giro in giardino a godersi l’aria fresca del mattino e della sera. Giocava con lui, gli asciugava le lacrime e lo cullava per farlo addormentare. In effetti faceva tutto quello che un adulto dovrebbe fare per intrattenere un bambino, compreso assecondarlo ed esprimendo entusiasmo per ogni suo gioco. Non era molto istruito, gli piaceva il giardinaggio e stare con il suo cuginetto. Lo accudiva come se fosse una rara e preziosa pianta rampicante, che annaffiava con il suo amore. E mentre la pianta cresceva e riempiva la sua vita dentro e fuori, Banamali si considerava davvero benedetto.
Non ce ne sono molte, ma alcune persone si sacrificano completamente per un bambino o un amico; il loro amore può sembrare nulla in confronto alla vastità del mondo, ma per loro è un affare nel quale immergono completamente tutto ciò che per loro è vitale. Si accontentano di vivere con poco, oppure vendono le loro proprietà ed iniziano a mendicare per strada.

Crescendo, Himangshu divenne un grande amico di Banamali, nonostante la differenza d’età e la lontana relazione familiare. L’età non sembrava avesse alcun significato, ma c’era un motivo per questo. Himangshu aveva imparato a leggere e scrivere, ed aveva per natura una grande sete di conoscienza. Si sedeva e leggeva qualunque libro gli capitasse; sicuramente lesse molte cose inutili, ma la sua mente crebbe in ogni direzione grazie a tutte quelle letture. Banamali lo ascoltava con grande ammirazione, seguiva i suoi consigli, discuteva con lui ogni problema, piccolo o grande, senza ignorarlo su alcun argomento solo perché era un ragazzo. Niente è più piacevole a questo mondo di vedere una persona che uno ha fatto crescere con il migliore amore, la cui conoscenza, intelligenza e bontà ispirano rispetto.
Anche ad Himangshu piaceva il giardinaggio, ma in questo c’era una grande differenza tra i due amici: Banamali lo amava con il suo cuore, Himangshu con la sua intelligenza. Per Banamali far crescere le piante era un’occupazione istintiva, per lui erano come bambini, ancora più teneri ed indifesi, tanto che non chiedevano neppure di essere accuditi ma crescevano naturalmente come figli ai quali viene data un’amorevole attenzione (il termine banamali stesso in bengalese significa “giardiniere dei boschi” o “colui che indossa una ghirlanda di fiori selvatici”, ed è un epiteto del dio Krishna). Per Himangshu le piante erano oggetto di curiosità. Piantare i semi, lo spuntare dei germogli, i boccioli, tutto attirava la sua attenzione. Aveva anche un sacco di idee e consigli su come seminare, trapiantare, concimare ed innaffiare, e Banamali li seguiva con piacere. Qualunque cosa la natura o la coltivazione potessero fare con le piante, venne realizzato da questi due amici nel loro modesto orticello.
C’era un piccolo patio appena oltre l’entrata del giardino, alle quattro del pomeriggio Banamali arrivava vestito leggero, si sedeva ed iniziava a fumare la sua hookah. Non aveva giornali o libri da leggere, ma stava lì seduto a fumare, con una distratta aria meditativa, si guardava in giro con gli occhi socchiusi, lasciando che il tempo galleggiasse come le spire del fumo della pipa che vagano, si rompono e spariscono, senza lasciare nessuna traccia.
Alla fine Himangshu tornava da scuola e dopo aver mangiato qualcosa ed essersi lavato, andava in giardino. Banamali quando lo vedeva lasciava subito la pipa e si alzava, mostrando chiaramente che cosa stesse aspettando tutto quel tempo. Quindi i due inziavano a girare per il giardino chiacchierando e quando veniva buio si sedevano su una panchina, mentre la brezza da sud smuoveva le foglie sugli alberi. Quando non c’era vento, invece, le foglie rimanevano ferme come fotografie ed il cielo era pieno di scintillanti stelle.
Himangshu parlava e Banamali lo ascoltava attentamente. Si divertiva anche quando non capiva; cose che dette da chiunque altro lo avrebbero irritato, dette da Himangshu sembravano divertenti. La capacità espressiva, di ricordare ed immaginare di Himangshu guadagnò enormemente dall’avere un ascoltatore adulto così interessato. Qualche volta parlava di cose che aveva letto, talvolta di cose che aveva pensato ed altre volte di qualunque cosa gli venisse in mente, supplendo con l’immaginazione a ciò che non sapeva. Molto di quello che diceva era giusto e molto non lo era, ma Banamali ascoltava tutto solennemente. Raramente infilava qualche parola di suo, ma accettava ogni obiezione che Himangshu gli facesse; e il giorno dopo, sedendo di nuovo all’ombra a fumare, si sarebbe interrogato su ciò che aveva sentito e se ne meravigliava.

Nel frattempo scoppiò una disputa. Tra il giardino di Banamali e la casa di Himangshu c’era un canale di scolo, lungo il quale era cresciuto un albero di lime. Quando crebbero i frutti i domestici della famiglia di Banamali cercarono di raccoglierli ma i domestici della famiglia di Himangshu li bloccarono ed iniziarono a litigare così aspramente che se gli insulti che si lanciavano fossero stati fatti di un materiale concreto, avrebbero intasato il canale. Da questo nacque una discussione anche tra il padre di Banamali, Harachandra, e quello di Himangshu, Gokulchandra, ed andarono in tribunale per stabilire chi fosse il proprietario del canale e quindi dell’albero. Una lunga battaglia di parole venne combattuta da ottimi avvocati ed i soldi che furono spesi da entrambe le parti superarono perfino gli allagamenti del canale durante la stagione delle piogge.
Alla fine vinse Harachandra, il padre di Banamali; venne provato che il canale era suo e nessun altro poteva reclamare i frutti dell’albero che vi era cresciuto. Ci fu anche un ricorso, ma il canale e l’abero di lime rimasero ad Harachandra.
Mentre il procedimento giudiziario era in corso, l’amicizia tra Banamali ed Himangshu non fu affetta minimamente. Invero, Banamali era così preoccupato che questa vicenda potesse turbare il loro rapporto, da cercare di far avvicinare ancora di più Himangshu, che non mostrava di aver perso per nulla affetto verso di lui.

Il giorno che Harachandra vinse la causa, in casa sua erano tutti felici, soprattutto le donne, ma Banamali rimase sveglio tutta la notte. Il pomeriggio successivo, quando prese posto nel patio del giardino, la sua espressione era triste ed ansiosa, come se lui solo avesse subito una cocente sconfitta che non significava nulla per gli altri.
L’ora in cui Himangshu solitamente arrivava era passata ed alle sei di lui non c’era ancora traccia. Banamali sospirò pesantemente e volse lo sguardo verso la casa di Himangshu. Attraverso una finestra aperta poteva vedere i vestiti da scuola del suo amico stesi a prendere aria e c’erano altri segni che Himangshu fosse in effetti in casa. Banamali posò la sua pipa ed iniziò ad aspettare scrutando verso le finestre, ma Himangshu non lo raggiunse in giardino.
Quando attorno si iniziarono ad accendere le luci, Banamali lentamente si diresse verso la casa di Himangshu. Suo padre, Gokulchandra, si stava godendo un po’ d’aria attraverso la porta aperta e sentendo dei passi avvicinarsi chiese ‘Chi c’è?”.
Banamali si bloccò, gli sembrò di essere un ladro che era stato scoperto “Sono io, zio”, disse nervosamente.
“Cosa vuoi? Non c’è nessuno in casa”, gli disse Gokulchandra.
Banamali tornò in giardino e si sedette ammutolito. Quando venne buio osservò le persiane della casa di Himangshu chiudersi ad una ad una; tra gli infissi filtrava qualche raggio di luce proveniente dalla casa, finché anche quelli non si spensero. Nel buio della notte Banamali sentì che le porte della casa del suo amico erano completamente chiuse per lui e tutto quello che poteva fare era starsene da solo lì fuori, al buio.
Il giorno dopo andò di nuovo a sedersi in giardino, sperando che Himangshu sarebbe arrivato; il suo amico era venuto tutti i giorni per così tanto tempo che non aveva mai immaginato che un giorno non sarebbe più venuto. Non aveva mai pensato che il loro legame si sarebbe potuto spezzare. L’aveva dato per scontato e non si era accorto quanto ormai fosse parte della sua vita. Ora aveva capito che il legame si era spezzato, ma era difficile sopportare un disastro così improvviso.
Per tutta la settimana andò a sedersi in giardino alla solita ora, nel caso Himangshu fosse arrivato, ma, ahimé, gli appuntamenti che prima capitavano di comune accordo ora non ricapitarono più per caso. Alla domenica Banamali si chiese se Himangshu sarebbe andato a trovarlo di mattina per pranzare con lui, come aveva fatto fino ad allora. In realtà non ci credeva veramente, ma non poteva fare a meno di sperarci. Mezzogiorno arrrivò, ma non Himangshu. “Verrà dopo pranzo”, si disse Banamali, ma non si presentò neppur dopo pranzo. Così pensò, “Magari sta facendo una siesta, verrà quando si sveglierà”. Ma a qualunque ora si sia svegliato, Himangshu non venne.
Si fece sera, quindi notte, le porte e le finestre di casa di Himangshu si chiusero e le luci si spensero una ad una.

Quando il fato aveva portato via da Banamali tutti i giorni dal lunedì alla domenica, senza lasciarne uno sul quale sperare, volse i suoi occhi in lacrime verso le imposte chiuse della casa di Himangshu, e raccogliendo tutto il suo doloro urlò “Buon Dio!”, raccogliendo in quelle parole tutto il suo dolore.

giovedì 23 febbraio 2017

Breve cenno critico a Mohandas Gandhi

The face of Gandhi in old age—smiling, wearing glasses, and with a white sash over his right shoulderMohandas Gandhi (1869-1948), noto anche con il soprannome onorifico Mahatma, grande anima, è stato un attivista e politico indiano, considerato all’unanimità il Padre dell’India.
Indubbiamente fu una figura molto originale e carismatica, ma dopo la tragica morte, si è assistito ad un fenomeno di mitizzazione, che raramente offre una visione obiettiva dell’operato politico di Gandhi.
In particolare sono due i punti sui quali si potrebbe criticare e sminuire l’effettiva influenza di Gandhi, primo  il credito che gli viene attribuito come principale artefice dell’indipendenza indiana, che non rispecchia storicamente il quadro completo della questione, secondo l’insuccesso totale, purtroppo, della sua lunga battaglia per evitare che il subcontinente indiano venisse diviso su base religiosa.

Per quanto riguarda l’importanza di Gandhi nella lotta per l’indipendenza dai britannici, è doveroso sottolineare come la causa maggiore in realtà fu lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale che indebolì le superpotenze europee decretando di fatto la fine del colonialismo, non solo in India ma in tutto il pianeta.
Negli stessi anni in cui l’India ottenne la propria indipendenza molti altri paesi l’ottennero, senza produrre personaggi altisonanti come Gandhi, ma semplicemente sfruttando, a ragione a onor del vero, il nuovo quadro geopolitico mondiale.
Anche politicamente è certo che all’inizio della guerra, il Partito del Congresso di cui Gandhi fu leader dal 1921 ma non fu l’unico ad avere voce in capitolo, aveva già ottenuto dagli inglesi la promessa che avrebbero lasciato il paese in cambio dell’appoggio agli Alleati.
In India infatti vi erano 3 opinioni diffuse a riguardo: appoggiare i britannici e quindi gli Alleati, appoggiare le potenze dell’Asse in quanto nemiche degli inglesi ed ottenere l’indipendenza, e la neutralità, favorita da Gandhi, ma vanificata per gli estesi interessi britannici e l’effettivo ma sventato attacco giapponese nell’Aprile del 1944 al confine nord-orientale dell’India.
Il Movimento Quit India, inaugurato da Gandhi con un famoso discorso l’8 Agosto del 1942, e che viene considerato il caposaldo dell’indipendenza indiana e della politica gandhiana, ebbe quindi un effetto più simbolico che reale, senza contare che un’eventuale vittoria dell’Asse nella guerra avrebbe di nuovo decretato un periodo di occupazione straniera, probabilmente giapponese, rendendo inutili le battaglie politiche contro gli inglesi.
L’aver utilizzato la disobbedienza civile piuttosto che la violenza fu sicuramente una caratteristica positiva, seppur l’esteso utilizzo dello sciopero della fame, non può essere classificato come non-violento; anche se contro se stessi si tratta comunque di un atto di violenza.

L’insuccesso nel riuscire a mantenere unito il subcontinente indiano non si può certo attribuire ad errori o mancanze di Gandhi stesso, che si impegnò strenuamente verso questa che sarebbe stata probabilmente la soluzione migliore, come la storia seguente ha potuto dimostrare.
Intanto si sarebbero evitati gli spargimenti di sangue tra indù, mussulmani e sikh che caratterizzarono la divisione, nonché si sarebbero potuti risparmiare, ed investire in maniera più proficua, i capitali che India e Pakistan fin da allora sprecano per esercito ed armamenti.
Bisogna anche dire che il compito dell’avversario politico di Gandhi, Ali Jinnah, era decisamente più facile, considerando che per difetti intrinsechi nella natura umana è più semplice dividere che unire, ma bisogna considerare la questione come una cocente sconfitta della politica gandhiana.

Oltre a queste comunque leggere critiche, non tanto alle opere di Gandhi quanto alla loro interpretazione storica, alcuni dei pochi detrattori gli imputano un’ambigua posizione riguardo alle divisione castale e l’intoccabilità, da lui avversate, ma in qualche modo anche giustificate in ambito religioso.
Per questo motivo Gandhi stesso si scontrò politicamente più volte con Dr. Ambedkar, la cui posizione nella questione era di gran lunga più decisa (per ulteriori dettagli su questo importante personaggio http://informazioniindiaenepal.blogspot.in/2017/02/breve-cenno-al-dr-ambedkar.html).

Detto questo, non si può però parlare di un personaggio come Gandhi senza ricordare almeno alcune delle sue influenze positive che hanno aiutato effettivamente un paese che senza di lui avrebbe seriamente rischiato di cadere nell’anarchia e nel caos più totale.
Innanzitutto, l’apporto più importante della figura di Gandhi fu quello di creare una forte identità nazionale indiana, nonostante le infinite divisioni congenite all’interno della società.
Con un gran numero di etnie, lingue, religioni, caste, è davvero difficile immaginare come si sia riuscita a formare quest’identità che rende orgogliose di essere indiani persone tanto diverse.
Indubbiamente un altro grande merito di Gandhi fu anche quello di utilizzare e promulgare la non-violenza, principio che ha radici antichissime in India e che grazie a Gandhi ha assunto anche un reale valore politico.

Seppur, come già accennato, si possa criticare l’uso dello sciopero della fame, bisogna anche notare che sia sicuramente un mezzo più accettabile di quanto non siano attentati ed altri atti criminali.

martedì 21 febbraio 2017

Breve cenno al sistema castale

Il sistema castale indiano trae le sue origini nell’antichità, ma prese campo in particolar modo dal medioevo, durante la dinastia Moghul ed il periodo di colonizzazione britannico.
Il sistema si basa su due concetti, varna e jati, con il primo che significa letteralmente classe e si riferisce alle quattro classi sociali esistenti nell’antica società vedica: bramini (sacerdoti), kshatriya (guerrieri), vaishya (mercanti, artigiani, contadini) e sudra (servi), a cui si aggiunge il grande gruppo dei dalit (fuoricasta).
Il termine jati invece significa casta e si riferisce alle occupazioni, considerate ereditarie ed endogame, quindi si può dire che all’interno dei quattro varna esistono migliaia di jati.

Il collasso dell’impero Moghul portò l’aumento di uomini potenti che si associavano a re, sacerdoti ed asceti e che iniziarono a dividere la società in caste sempre più numerose.
I britannici implementarono ulteriormente questo sistema, basando l’amministrazione del paese su una rigida organizzazione castale.
Fino al 1920 i britannici segregarono gli indiani secondo classi e caste, garantendo lavori amministrativi ed importanti cariche solo agli appartenenti alle caste più alte, ma i disordini sociali scoppiati in quegli anni portarono al cambiamento di questa politica iniziando la cosiddetta “positiva discriminazione”, garantendo quote riservate nei lavori statali proprio alle caste inferiori.

Nella storia dell’India sono stati numerosi i riformatori sociali che si sono dedicati all’eradicazione della divisione castale e dell’intoccabilità, tra cui spiccano, ad esempio, Jyotirao Phule, Swami Vivekananda, Gandhi e Dr. Ambedkar.
Jyotirao Phule (1827-1890) fu un noto attivista, in particolare accanito sostenitore dell’istruzione femminile ed oppositore della divisione in caste, rinnegando i Veda e confutando strenuamente la falsa idea che il lavoro che gli uomini svolgono determini che alcuni siano superiori ed altri inferiori.
Jyotirao Phule viene anche accreditato per aver coniato il termine dalit per i fuoricasta, che letteralmente significa rotto, schiacciato, per descrivere le condizioni di quanti si trovano al di fuori del sistema dei quattro varna.

Molto apprezzata ed appoggiata fu la critica al sistema castale da parte di Swami Vivekananda (1863-1902) poiché avvenuta dall’interno dell’induismo, essendo lui stesso un monaco.
In particolare la critica di Vivekananda si basava sul rigetto della divisione castale in quanto barriera contro il libero pensare ed agire dell’individuo, che lui considerava condizioni necessarie per la crescita ed il benessere dell’uomo.

Il giovane Gandhi, strenuo difensore dell’induismo, non fu inzialmente contrario alle caste, anzi appoggiava il sistema dei varna ed era critico solo del concetto di jati e dell’ereditarietà.
Successivamente, vedendo i danni alla società che questo sistema portava, si schierò in maniera sempre più contraria arrivando ad affermare chiaramente che “Sostenere la superiorità di un uomo su un altro è un peccato contro Dio e contro l’umanità. Quindi le caste, che sono basate su questo principio, sono un male”.

Dr. Ambedkar (1891-1956), avvocato, giurista e politico, nacque lui stesso in una famiglia dalit ed ebbe modo di soffrire in prima persona delle discriminazioni castali che diventeranno, durante la sua carriera, l’oggetto delle sue più feroci critiche e battaglie.
Il fatto che sia stato affidato a lui il difficile compito di scrivere la costituzione indiana dopo l’indipendenza, dimostra come già dal principio il governo indiano si sia schierato, almeno formalmente, contro la divisione castale.

Al giorno d’oggi ogni discriminazione basata sulle caste è considerata illegale ed anche la stigma sociale verso le classi più basse e i dalit sta scomparendo, quindi il discorso si sta spostando dalla società alla sfera politica, rendendolo un argomento molto caldo durante le elezioni, sia nazionali che locali.
Chiaramente le varie fazioni politiche fanno a gara per mostrare il proprio interesse a migliorare le condizioni delle caste svantaggiate, ma i risultati pratici non sono poi così eclatanti.
Bisogna anche notare che l’argomento è davvero complicato, perfino contraddittorio, se si pensa che anche un genuino interesse verso le classi povere rappresenta comunque una forma di discriminazione.

Per ulteriori dettagli rimandiamo ad un post sull’argomento con alcuni dati tratti dal quotidiano The Times of India (http://informazioniindiaenepal.blogspot.in/2016/04/le-quote-riservate-alle-classi.html).

lunedì 20 febbraio 2017

Breve cenno al Dr. Ambedkar

Ambedkar as a young manSeppur poco noto al di fuori dei confini nazionali dell’India, Bhimrao Ramji Ambedkar (1891-1956) è stato un giurista e politico indiano, la cui figura ha influito in maniera decisiva, e positiva, nella formazione dell’India moderna.
In particolare viene ricordato per essere stato a capo del comitato che compilò la costituzione indiana e per le battaglie politiche e sociali contro l’intoccabilità e la divisione castale.

Dr. Ambedkar stesso nacque in una famiglia dalit (cosiddetti intoccabili o fuori casta) ed ebbe modo di provare in prima persona i vari livelli di discriminazione presenti all’interno della società indiana.
Nonostante questo, grazie al lavoro del padre che, come da tradizione familiare, apparteneva all’esercito, il giovane Ambedkar ebbe modo di studiare, dimostrando una spiccata intelligenza che lo porterà a diventare il primo studente universitario indiano fuoricasta.
Nel 1912 ottenne la laurea in economia e scienze politiche presso l’Università di Bombay, ricevendo anche una borsa di studio promossa dal maharajà di Baroda, grazie alla quale ebbe modo di andare a studiare per tre anni alla Columbia University di New-York, quindi a Londra presso la London School of Economics and Political Science.
Dal 1922 al 1947, Dr. Ambedkar, tornato in India, svolse il lavoro di avvocato, dedicandosi il particolar modo a processi contro la discriminazione castale portata avanti dai bramini.

Con l’indipendenza dell’India, il Governo Indiano offrì a Dr. Ambedkar la carica di Ministro di Giustizia, con l’implicito incarico di redigere la nuova costituzione del paese.
Compito che Dr. Ambedkar, grazie alla vasta cultura socio-economica, svolse con particolare cura ed ingegno, garantendo grandi libertà civili ed individuali, ed avversando ogni tipo di discriminazione, concetti che ancora oggi, nonostante complicate dinamiche locali, costituiscono la base dello sviluppo della società indiana.

Un altro ruolo molto importante svolto da questa eminente figura, fu quello di esponente del Movimento Buddista Dalit, che promuoveva la conversione dei fuoricasta al buddismo, per sfuggire alle imposizioni castali.
Dr. Ambedkar stesso, già attento studioso del buddismo fin dalla gioventù, si convertì pochi mesi prima di morire, redigendo un documento dove prescriveva ai convertiti 22 voti, di cui molti consistono in un netto rifiuto dell’induismo, come il duro voto 19 “Rinuncio all’induismo che sfavorisce ed impedisce l’avanzamento e lo sviluppo dell’umanità perché basato sull’ineguaglianza, e adotto il buddismo come mia religione”.
In realtà queste conversioni di massa, avvenute anche in anni recenti, hanno più che altro valore politico e simbolico, e non offrono una completa protezione contro le discriminazioni, ma servono a mostrare e dare voce al livello di malcontento tra le classi più basse della società indiana.


Al giorno d’oggi Dr. Ambedkar è stimato e rispettato da tutti gli strati sociali, le sue statue sono presenti nelle piazze di città, villaggi e paesi, spesso nelle zone a maggioranza dalit, ed a lui sono dedicati strade, istituti, associazioni ed una delle poche festività nazionali indiane laiche, il 14 Aprile, giorno della sua nascita.

domenica 19 febbraio 2017

Il racconto "Il ritorno del piccolo padrone", II parte

Raicharan tornò al suo villaggio. Sua moglie non gli aveva ancora dato un figlio e lui ormai aveva smesso di sperarci, ma prima che l’anno finisse, la sua non più giovane moglie partorì un bambino e poco dopo morì.
All’inizio Raicharan non nutriva altro che odio verso il nuovo nato, che secondo lui in qualche modo, con l’inganno, aveva preso il posto del suo piccolo padrone. Gli sembrava un peccato mortale rallegrarsi per suo figlio dopo che aveva lasciato che il bambino del suo padrone annegasse. Se non ci fosse stata con lui la sua sorella vedova, il bambino non avrebbe respirato l’aria della Terra a lungo.
Dopo pochi mesi, sorprendentemente, il bambino iniziò a gattonare sopra la cornice della porta ed a mostrare un’allegra abilità ad evadere da ogni tipo di restrizione. Ridacchiava e vagiva esattamente come aveva fatto il piccolo padrone. Qualche volta, quando lo sentiva piangere, Raicharan aveva un tuffo al cuore; gli sembrava che il piccolo padrone piangesse da qualche parte e chiamasse Raicharan. Phelna, così lo chiamava la zia, iniziò a chiamare lei “Pishi” e quando Raicharan sentì quel nome familiare pensò “Il piccolo padrone non può fare a meno del mio amore: è rinato nella mia casa”.

C’erano molto prove che lo convincevano di questa cosa. Pima di tutto, era passato pochissimo tempo tra la morte del piccolo padrone e la nascita di suo figlio. Secondo, sua moglie, a quella tarda età, non avrebbe potuto partorire solo grazie alla sua fecondità. Terzo, il bambino gattonava, trotterellava e chiamava la zia “Pishi”, esattamente come aveva fatto il piccolo padrone. C’era abbastanza per indicare che anche lui da grande sarebbe diventato un magistrato. Raicharan quindi si ricordò dei sospetti della padrona della casa e realizzò, con sorpresa, che il suo materno istinto le aveva detto con ragione che qualcuno le aveva rubato il figlio. Ora Raicharan provava vergogna per aver trascurato il suo bambino e gli tornò la sua antica devozione. Da quel momento in poi lo fece crescere come il figlio di un uomo ricco. Gli comprò camicie di raso ed un cappello con ricami dorati, e fece fondere i gioielli della sua defunta moglie per farne dei bracciali per lui. Gli proibì di giocare con gli altri bambini e per tutto il giorno faceva lui da suo compagno di gioco. Quando gli capitava l’occasione, i bambini del vicinato prendevano in giro Phelna per essere un principino ed anche gli adulti erano stupiti dello strano comportamento di Raicharan.
Quando Phelna fu abbastanza grande da andare a scuola, Raicharan vendette i suoi terreni, si trasferì col figlio a Calcutta, trovò un lavoro e mandò Phelna in una scuola di prima scelta. Risparmiava in tutti i modi per poter dare a suo figlio buon cibo, bei vestiti ed una decente educazione, dicendosi tra sé “Se è stato l’amore per me che ti ha portato in questa casa, caro bambino, non puoi aver altro che il meglio”.

Dodici anni passarono in questo modo. Il ragazzo procedeva bene con gli studi ed era piacevole a guardarsi: ben piantato, con una brillante carnagione scura, stava attento ai suoi capelli ed aveva gusti raffinati. Non poteva pensare a suo padre, come fosse suo padre, perché lui non lo trattava con affetto paterno, ma con la devozione di un domestico. A suo discredito, Phelna non disse mai a nessuno che quello era suo padre. Gli studenti dell’ostello dove Phelna viveva scherzavano sempre sul rustico Raicharan e non si può negare che quando suo padre non era presente, anche Phelna si univa alle prese in giro. Ma erano tutti affezionati al gentile ed affettuoso Raicharan ed anche Phelna gli voleva bene, ma, a costo di ripeterlo, non come a un padre; l’affetto era sempre mischiato con una certa sufficienza ed un’aria di superiorità.
Raicharan divenne vecchio ed i suoi datori di lavoro continuavano a trovargli dei difetti; la sua salute si stava deteriorando, aveva problemi a concentrarsi quando lavorava ed iniziava a dimenticarsi le cose. Ma nessun datore di lavoro che paga l’intero stipendio accetta la vecchiaia come una scusa. In più i soldi che aveva raccolto vendendo i suoi possedimenti stavano finendo e Phelna ora si lamentava che non aveva bei vestiti e i soliti lussi.

Un giorno, all’improvviso, Raicharan si licenziò, diede dei soldi a Phelna e gli disse “È successo qualcosa e devo tornare al villaggio per qualche giorno”, quindi si recò a Barasat, dove viveva il vecchio padrone Anukul, diventato ora magistrato.
Anukul non aveva avuto altri figli e sua moglie era ancora in lutto per il loro bambino scomparso.
Una sera Anukul si stava riposando, dopo essere tornato dal tribunale, mentre sua moglie era in casa dopo essere riuscita, con notevole spesa, a comprare da un asceta una radice sacra ed una benedizione che gli avrebbero portato un figlio, e si sentì una voce nel giardino “Saluti”.
“Chi è?”, chiese Anukul.
E comparve il vecchio domestico “Sono Raicharan”, disse, inginocchiandosi rispettosamente davanti al suo passato padrone.
Il cuore di Anukul si sciolse alla vista di Raicharan, gli chiese delle sua condizione attuale e lo invitò a tornare a lavorare per lui.
Raicharan sorrise umilmente “Fatemi porgere i miei rispetti alla padrona”.

Il signor Anukul lo fece entrare in casa, ma la moglie non sembrava molto felice di rivedere Raicharan. Lui non se ne curò, giunse le mani al petto e disse “Padrone, padrona, sono stato io a rubare vostro figlio, non il fiume Padma o chi altro. Io, ingrato mascalzone che non sono altro”.
“Cosa stai dicendo?”, chiese Anukul, “Dov’è adesso?”.
“Vive con me”, rispose Raicharan, “ve lo porterò dopodomani”.
Quel giorno era domenica ed essendo il tribunale chiuso, marito e moglie iniziarono a scrutare la strada fin dalle prime luci dell’alba. Alle dieci arrivò Raicharan con Phelna.
La moglie di Anukul, senza neppure pensarci o porsi qualche domanda, se lo avvicinò al petto, iniziò a toccarlo, ad annusarlo ed a ridere e piangere nervosamente. Indubbiamente il ragazzo era piacevole a vedersi, niente sembrava suggerire che fosse cresciuto in condizioni povere o disagiate. Aveva un’espressione amorevole, modesta ed imbarazzata, ed anche il cuore di Anukul, a vederlo, si riempì di gioia. Ma mantenendo un certo contegno chiese a Raicharan “Che prove hai?”.
“Come potrei provare una cosa del genere?”, rispose lui, “Solo Dio sa che io ho rubato vostro figlio, nessun altro lo sa”.
Anukul ponderò a lungo la situazione e decise che, visto che sua moglie aveva abbracciato il ragazzo con tale fervore, sarebbe stato inappropriato adesso cercare delle prove; qualunque sia stata la verità, ora era meglio semplicemente fidarsi. In ogni caso: come avrebbe potuto Raicharan procurarsi un ragazzo del genere? E perché ora il vecchio domestico dovrebbe cercare di ingannarli?

Interrogando il ragazzo, scoprì che aveva sempre vissuto con Raicharan, che lo chiamava “Papà”, ma che Raicharan si era sempre comportato più come un domestico che come un padre. Cercando di dissipare ogni dubbio dalla propria mente, Anukul disse a Raicharan “Ma tu ora non dovresti oscurare di nuovo la nostra casa”.
Giungendo le mani al petto e con voce tremolante, Raicharan replicò “Sono vecchio ormai, padrone, dove potrei andare?”.
“Fallo rimanere”, disse la padrona, “L’ho perdonato, lasciamo che nostro figlio sia benedetto”.
“Ma non può essere perdonato per quello che ha fatto”, disse giustamente Anukul.
“Non sono stato io”, disse Raicharan piangendo e buttandosi ai piedi del suo padrone, “è stato il volere di Dio”.
Ancora più irritato che ora Raicharan incolpasse Dio per i suoi misfatti, Anukul disse “Uno non dovrebbe fidarsi di chi lo ha già tradito una volta”.
Alzandosi dai piedi di Anukul, Raicharan disse “Non sono stato io, padrone!”.
“E chi è stato allora?”.
“È stato il mio fato”. Nessun uomo istruito avrebbe accettato una simile spiegazione, così Raicharan aggiunse “Non ho nessun altro al mondo!”.
Phelna era seccato che Raicharan avesse rubato lui, il figlio di un magistrato, e lo avesse reclamato come suo, ma disse, generosamente, ad Anukul “Padre, per favore, perdonatelo. Se non volete che rimanga in casa nostra, almeno concedetegli una piccola rendita mensile”.

Raicharan, senza dire nulla, guardò suo figlio, fece un inchino, quindi uscì dalla porta e sparì tra la moltitudine del mondo. A fine mese, quando Anukul mandò una piccola somma di denaro a Raicharan all’indirizzo del suo villaggio, i soldi tornarono indietro. In quel villaggio non c’era nessuno con quel nome.

sabato 18 febbraio 2017

Il racconto "Il ritorno del piccolo padrone", I parte

“Il ritorno del piccolo padrone” è un racconto di Rabindranath Tagore dove vengono narrate le vicende del povero domestico Raicharan.
Libera traduzione divisa in due parti.

Raicharan aveva dodici anni quando andò a lavorare per la prima volta in quella casa. Proveniva dal distretto di Jessore: capelli lunghi, grandi occhi, un ragazzetto magro con una brillante carnagione scura.
I suoi datori di lavoro erano anche loro di casta kaistha ed il suo compito principale era badare al loro figlioletto di un anno, il quale, col passare del tempo, passò dalle braccia di Raicharan alla scuola, dalla scuola all’università e dall’università a magistrato della corte dstrettuale. Raicharan era rimasto il suo servo, ma ora nella famiglia c’era anche una padrona oltre al padrone e la maggior parte dei diritti che Raicharan aveva avuto finora nei confronti del signor Anukul, passarono a lei.
Sebbene le vecchie responsabilità di Raicharan fossero diminuite per la sua presenza, lei in gran parte le sostituiva con delle nuove. E quando nacque un bambino, venne completamente conquistato dalla semplice forza della devozione di Raicharan. Lo cullava con tanto entusiasmo, lo lanciava in aria con tale destrezza e gli parlottava con tanta pazienza, che il solo vedere Raicharan mandava il piccolo padrone in estasi.

Quando il bambino imparò a gattonare furtivamente sopra alla cornice della porta, ridacchiando allegramente se qualcuno cercava di fermarlo, si nascondeva in fretta da qualche parte e Raicharan era estasiato da tale non comune capacità e velocità di decidere. Andava dalla madre del bambino e le diceva “Madre, vostro figlio diventerà di sicuro un grande magistrato quando crescerà, guadagnerà una fortuna”.
Il fatto che ci fossero altri bambini al mondo che a quell’età sapessero sgattaiolare sulla porta era impensabile per Raicharan; solo un futuro magistrato poteva compiere una simile impresa. Anche i suoi primi passi furono sorprendenti e quando iniziò a chiamare “Ma” sua madre, “Pishi” la zia Pishima e “Channa” Raicharan, lui raccontava queste straordinarie conquiste a tutti quelli che incontrava. Era stupefacente che non solo chiamasse la madre “Ma” e la zia “Pishi”, ma anche Raicharan “Channa”! Davvero, era difficile capire da dove provenisse tanta intelligenza.

Ben presto Raicharan dovette iniziare a mettersi una corda al collo e fingere di essere un cavallo; o di essere un lottatore e combattere con il bambino, e se non si lasciava sconfiggere e buttare a terra, doveva pagarne le conseguenze.
A quel tempo Anukul si era trasferito in un distretto vicino al fiume Padma ed aveva portato un passeggino da Calcutta per suo figlio. Raicharan lo vestiva con camice di raso, un cappello con ricami dorati, bracciali d’oro, due cavigliere e portava il giovane principe fuori a prendere un po’ d’aria sul suo passeggino due volte al giorno.
Quando venne la stagione delle piogge, il fiume Padma iniziò ad ingoiare giardini, villaggi e campi con grandi ed assetati sorsi. I boschetti ed i cespugli sparirono dalle rive del fiume, con il gorgoglio dell’acqua tutt’attorno ed il rumore degli argini che si sgretolavano e finivano in acqua, con la schiuma che scorreva veloce e mostrava quanto fosse diventata potente la corrente.

Un pomeriggio era nuvoloso, ma non sembrava che sarebbe piovuto, ed il piccolo padrone di Raicharan si rifiutava di stare in casa, così salì sul suo passeggino e Raicharan lo spinse con attenzione sulla riva del fiume al di là dei campi. Non c’erano barche in giro e nessuno stava lavorando nei campi; attraverso gli spazi tra le nuvole si poteva osservare il sole che si preparava, con silenziosa fierezza, alla cerimonia di assestamento dietro al deserto letto di sabbia dall’altra parte del fiume.
All’improvviso il silenzio venne interrotto dalle grida del bambino che urlò “Fioli, Channa, fioli!”.
Poco lontano c’era un gigantesco albero di kadamba, su una fangosa lingua di terra, con dei fiori sui rami più alti; erano questi che avevano colto l’attenzione del bambino. Alcuni giorni prima, Raicharan aveva attaccato alcuni fiori di kadamba a dei rami, creando così un carretto di kadamba, ed il bambino si era divertito così tanto a spingerlo con una corda, che quel giorno Raicharan non aveva dovuto indossare le redini, con un’istantanea promozione da cavallo a stalliere.

Raicharan non aveva molta voglia di sguazzare nel fango per andare a prendere i fiori, così indicò verso un’altra direzione e disse “Guarda, guarda quell’uccello che vola. Oh, se ne è andato. Vieni uccello, vieni!”. Spinse il passeggino avanti velocemente farfugliando in questo modo, ma era inutile cercare di distarre così puerilmente un bambino che un giorno sarebbe diventato un magistrato, specialmente non essendoci niente in particolare che potesse spostare la sua attenzione da un’altra parte e gli uccelli immaginari non avrebbero funzionato a lungo.
“Va bene”, disse Raicharan, “tu stai qui seduto e ti vado a prendere i fiori, Stai bravo ora e non andare vicino all’acqua”, e alzandosi il dhoti (telo che funge da pantaloni) fin sopra alle ginocchia, si diresse verso l’abero di kadamba.
Ma il semplice fatto che gli era stato proibito di andare vicino al fiume, aveva immediatamente spostato l’attenzione della mente del bambino dai fiori all’acqua. La vedeva gorgogliare e mulinare, come se migliaia di ondine stessero maliziosamente ed allegramente sfuggendo verso il luogo proibito, lontano dal raggio di un qualche potente Raicharan; ed il bambino era eccitato dal loro dispettoso esempio. Scese quindi dal suo passeggino e si avvicinò all’acqua. Prendendo un lungo giunco, si spinse in avanti facendo finta che fosse una canna da pesca; le divertenti e gorgogliose ondine sembravano mormorare un invito al bambino di unirsi al loro gioco.
Si sentì semplicemente un pluf, ma sulle rive del fiume Padma, durante la stagione delle piogge se ne sentivano parecchi di rumori del genere.

Raicharan aveva riempito di fiori di kadamba una piega del suo dhoti, scese dall’albero, si diresse verso il passeggino ridendo, finché non si accorse che il bambino non c’era più. Guardandosi attorno, non vide nessun segno della sua presenza e gli si gelò il sangue nelle vene. L’universo all’improvviso gli sembrò irreale, pallido e torbido come il fumo, ed un singolo acuto urlo uscì dal suo cuore affranto.
“Padrone, piccolo padrone, mio caro, dolce piccolo padrone”, iniziò a gridare, ma nessuno rispose “Channa”, e non si sentì in risposta nessuna risata biricchina. Il fiume Padma continuava a mulinare e gorgogliare, come se non sapesse nulla o non avesse tempo per stare attento ai piccoli avvenimenti del mondo.

Scese la sera e la madre del bambino, non vedendolo, iniziò ad essere preoccupata, così mandò un gruppo di persone con le torce a cercarlo. Giunti sulle rive del fiume trovarono Raicharan che vagava per i campi singhiozzando “Padrone, mio piccolo padrone!”.
Alla fine tornò a casa e si buttò ai piedi della padrona piangendo e rispondendo alle sue domande “Non lo so, madre, non lo so!”.
Sebbene tutti sapessero che il colpevole era il fiume Padma, i sospetti caddero su un gruppo di zingari che erano accampati al margine del villaggio. La padrona di casa addirittura iniziò a sospettare che Raicharan avesse rapito il bambino ed arrivò a chiamarlo e dirgli apertamente “Riportami mio figlio! Ti darò tutti i soldi che vuoi”.

Ma Raicharan poté solo battersi il petto e lei gli ordinò di sparire dalla sua vista. Il signor Anukul provò a scacciare gli infondati sospetti di sua moglie: che motivo avrebbe avuto Raicharan per compiere un gesto tanto spregevole? “Cosa vuoi dire?”, gli diceva sua moglie, “Il bambino indossava bracciali d’oro, no?”.

venerdì 17 febbraio 2017

Breve cenno al filosofo Abhinavagupta

Abhinavagupta.jpgAbhinavagupta (ca. 950-1016) è stato un filosofo indiano, originario del Kashmir.
Le notizie sulla sua vita sono scarse e poco attendibili, a partire dal nome che fu probabilmente un titolo onorifico che ne evidenziava la competenza e l’autorità.
Istruito da alcune delle personalità più importanti del Kashmir del suo tempo, si sa per certo che si avvicinò al vishnuismo, allo shivaismo, al tantrismo ed al buddismo.
Tra le numerose opere di Abhinavagupta, almeno una trentina, la più importante è sicuramente il Tantraloka, un trattato enciclopedico delle tradizioni tantriche shivaite del Kashmir, in particolare kula e trika.
Più precisamente il kula, o kulamarg, è una categoria dello shaktismo e del tantrismo shivaita, del quale il trika può essere considerato una parte, in quanto si tratta invece di un concetto specifico dello shivaismo kashmiro riferito alle altre triadi che formano la filosofia trika, che significa appunto triade.
Al tantraloka fecero seguito, sempre da parte di Abhinavagupta, il Paratrimsika, un commentario al Tantraloka, ed il Tantrasara, una versione condensata in prosa.

L’importanza di questi testi è notevole per le numerose nozioni riportate, sia degli aspetti ritualistici che filosofici, permettendo una visione generale del tantrismo shivaita del Kashmir.
In realtà non solo di quello, ma del tantrismo in generale, visto che molti dei concetti trattati in questi testi di Abhinavagupta sono comuni anche ad altre tradizioni tantriche, come quella shakta e buddista.
Bisogna infatti notare che non sono molti i testi indiani così antichi giunti completi fino ai giorni nostri.
Oltre a queste opere, Abhinavagupta scrisse anche numerosi inni devozionali, alcuni commentari filosofici, opere poetiche ed il monumentale Abhinavabharati, un commento al Natya Shastra, un antico trattato in sanscrito sulle arti.


L’opera di Abhinavagupta è abbastanza nota in Italia, almeno in campo accademico, grazie agli studi del professor Raniero Gnoli, orientalista, storico delle religioni ed indologo allievo di Giuseppe Tucci, accreditato della prima e ad oggi unica traduzione in una lingua europea del Tantraloka.

mercoledì 15 febbraio 2017

Il racconto Chuha aur main

Simpatico e significativo racconto di Harishankar Parsai, intitolato “Chuha aur main”, Il topo ed io.

Subito pensavo di intitolare questo pezzo “Io e il topo”, ma quel topo è riuscito a dare una lezione al mio ego. Quello che io non sono riesco a fare, c’è riuscito quel topo di casa mia. Quello che gli abitanti di questo paese non capiscono, a me lo ha fatto capire lui, che in qualche modo, alla fine, è riuscito ad ottenere il suo cibo.

In questa casa c’è un grosso topo. Quando c’era la moglie di mio fratello, in casa si preparava da mangiare. Dopo, a causa di alcuni incidenti in famiglia, come la morte di mio cognato, siamo andati per un po’ di tempo a vivere da un’altra parte e questa casa rimase deserta parecchi giorni.
Quel topo si era promesso che in qualche modo avrebbe trovato da mangiare solo in questo posto; una promessa che neppure gli uomini riescono a mantenere, ma il topo ci riuscì.
Più o meno la casa rimase chiusa per quarantacinque giorni. Quando tornai da solo, aprii la porta e vidi subito sul pavimento dei pezzetti di ceramica e vetro; probabilmente sarà andato in cerca di qualcosa da mangiare tra le tazze o nelle scatole.
Non trovando niente in questa casa, sarà andato a cercare da qualche vicino ed è sopravvissuto, ma non se ne è andato da qui. Ormai aveva deciso che questa era casa sua.

Quando entrai, accesi la luce e vidi che quello, squittendo di felicità, correva da una parte all’altra. Forse avrà pensato che ora in questa casa si sarebbe cucinato, le scatole sarebbero state aperte ed avrebbe potuto trovare un po’ di cibo. Tutto il giorno girava beatamente per la casa, io lo vedevo, ma mi rallegrava la sua gioia sfrenata.
E comunque in casa non si iniziò a cucinare.
Io ero da solo e a pranzo andavo a mangiare dalla mia sorella che abita qua vicino. Alla sera invece mangiavo tardi, quindi mia sorella mi mandava la cena dentro a dei contenitori e quando finivo li chiudevo. Così entrambi i pasti li consumavo grazie a mia sorella e non c’era bisogno di cucinare in questa casa; quindi il signor topo non aveva speranze.
Avrà pensato “Ma che razza di casa è questa. L’uomo è arrivato, c’è anche la luce, ma non si prepara da mangiare”.

Ed a me capitò una strana situazione. Di notte il topo si avvicinava alla mia testa, saliva sulla zanzariera, iniziava a far rumore e così mi svegliava. Io lo mandavo via, ma dopo un po’ quello tornava e riprendeva a muoversi vicino alla mia testa. E questa divenne la sua abitudine quotidiana.
Aveva fame, ma come aveva fatto a capire quali erano i piedi e quale la testa? Perché lui non andava mai dai miei piedi, ma si muoveva e faceva rumore sempre sulla mia testa. Una notte riuscì addirittura ad entrare nella zanzariera e non riuscii più a dormire.
Cosa avrei dovuto fare? Pensavo di provare ad ucciderlo, ma se non ci fossi riuscito e lui fosse andato a morire in qualche nascondiglio avrebbe fatto puzzare tutta la casa.
Di giorno girava allegramente e alla notte veniva a disturbare me. Appena mi addormentavo, quello veniva a fare rumore vicino alla mia testa.

Finalmente un giorno capii che il topo voleva solo qualcosa da mangiare. Ormai aveva deciso che quella era casa sua e non se ne sarebbe andato, così di notte veniva da me e forse mi diceva “Cosa sei venuto a fare? Tu mangi e io muoio di fame. Anch’io sono un membro di questa casa e ho i miei diritti. Non ti lascerò dormire in pace fino a quando non otterrò quello che mi spetta”.
Così alla sera, quando aprivo i contenitori con la mia cena, spargevo in giro qualche briciola di papad (uno snack secco a base di farina di lenticchie). Il topo spuntava da qualche parte, prendeva un pezzetto alla volta e se li andava a mangiare sotto all’armadio. Finito di cenare, lasciavo per terra qualche pezzetto di pane e alla mattina anche quelli erano spariti.
Un giorno mia sorella mi mandò delle papad di farina di riso ed io, come sempre, ne sparsi tre-quattro pezzetti sul pavimento. Il topo venne fuori, li annusò e tornò indietro: non gli piaceva la papad di riso.  Ero stupefatto che anche il topo avesse delle preferenze. Così spezzettai del pane e lui lo fece sparire.

E quella divenne la mia abitudine. Prima di mangiare gli davo qualche pezzetto di papad, ma siccome non sarebbero bastati per placare la sua fame, quando finivo gli lasciavo del pane, che lui si mangiava durante la notte. Ed io potevo dormire tranquillo perché lui non veniva più a fare rumore vicino alla mia testa.
Poi un giorno venne con un suo fratellino. Gli avrà detto “Vieni con me in quella casa. Io disturbo il tipo che mangia e vedrai che ci darà del cibo. Questo è il mio diritto, dai andiamo!”.
Ed io pensavo “Non deve forse l’uomo diventare come questo topo? Per il diritto al suo cibo mi sale sulla testa e non mi lascia dormire in pace: quando l’idealismo di questo paese si comporterà come il topo!”.

(Con questa simpatica metafora Harishankar Parsai vorrebbe in qualche modo spronare le masse indiane a comportarsi come il topo ed a combattere per quello che gli spetta di diritto, cercando magari anche di aiutare e coinvolgere gli altri)

martedì 14 febbraio 2017

Il racconto "Profitto e Perdita", II parte

Passarono molti mesi. Nirupama continuava a mandare messaggi, ma suo padre non compariva. Alla fine si offese e smise di mandarne. Questo addolorava acutamente Ramsundar, ma resistette e non andò da lei.
Quando venne il mese di Asvin (periodo tra Settembre ed Ottobre in cui cadono molte festività indù) disse a se stesso, facendo un voto “Quest’anno devo riportare a casa Nirupama per Durga-puja” (una festa di nove giorni, molto sentita in Bengala dove è ambientato il racconto).
Al quinto o sesto giorno della puja, Ramsundar legò di nuovo alcune banconote al suo scialle e si preparò per andare, quando, all’improvviso, un nipotino di cinque anni si avvicinò a lui e gli disse “Nonno, mi compri un carretto?”.
Da settimane aveva adocchiato quel carretto ma non c’era modo di far avverare questo suo desiderio.
Quindi arrivò una nipotina di sei anni, che piangendo si lamentò che non aveva un bel vestito da indossare per la puja. Ramsundar lo sapeva bene e ci aveva rimuginato a lungo, ma non poteva farci niente.
Aveva sospirato penosamente all’idea che le donne della sua famiglia avrebbero partecipato alle celebrazioni della puja in casa di Raybahadur come delle poverette che ricevevano la carità, vestendo quei pochi miserabili ornamenti che avevano, ma questi pensieri non facevano altro che rendere le rughe sulla sua fronte ancora più profonde.

Con il lamento della sua povera famiglia nelle orecchie, Ramsundar arrivò a casa di Raybahadur. Oggi non c’era nessuna esitazione nei suoi modi, nessuna traccia dello sguardo nervoso con cui prima si avvicinava al guardiano e ai domestici; sembrava che stesse entrando in casa sua.
Gli venne detto che Raybahadur era fuori ed avrebbe dovuto aspettare per un po’, ma non potè trattenere il desiderio di incontrare sua figlia e quando finalmente la vide pianse per la gioia. Padre e figlia piansero insieme e per un po’ nessuno dei due riuscì a parlare.
Quindi Ramsundar disse “Questa volta ti porto via, mia cara. Niente mi può fermare ora”.
All’improvviso però, il più grande dei suoi figli, Haramohan, entrò nella stanza con due suoi bambini “Padre, hai davvero deciso di mandarci in mezzo ad una strada?”.
Ramsundar si infiammò “Devo condannarmi all’inferno per il tuo bene? Non puoi lasciarmi fare ciò che è giusto?”.
Aveva venduto la casa e nonostante avesse provato in tutti i modi a nasconderlo ai figli, questi l’avevano scoperto lo stesso. Il nipotino si strinse alle sue gambe, guardò in su e gli chiese “Nonno, mi hai comprato quel carretto?”, e quando non ricevette nessuna risposta dall’ormai mortificato Ramsundar, il bambino si girò verso Nirupama “Zia, me lo compri tu il carretto?”.

Nirupama non ci mise molto a capire la situazione “Padre, se tu dai anche solo che una rupia ai miei suoceri, giuro solennemente che non mi rivedrai mai più”.
“Cosa dici, figlia mia?”, rispose Ramsundar, “Se non gli darò i soldi, la vergogna rimarrà per sempre su di me e diventerà anche la tua”.
“La vergogna sarà maggiore se tu pagherai”, disse Nirupama, “Pensi che non abbia onore? Pensi che sia solo una borsa per i soldi: più ce ne sono, maggiore è il mio valore? No, padre, non mi infamare pagando questi soldi. Mio marito non li vuole comunque”.
“Ma così loro non ti lasceranno venire a trovarmi”, disse Ramsundar.
“Non ci possiamo fare niente. Per favore, non provare più a venire a prendermi”.
Ramsundar, tremando, si rimise sulle spalle lo scialle con i soldi e lasciò la casa, di nuovo come un ladro, cercando di evitare lo sguardo di tutti.

Non rimase però un segreto che Ramsundar era venuto con i soldi e sua figlia gli aveva vietato di consegnarli. Un domestico che aveva origliato passò l’informazione alla suocera di Nirupama, la cui cattiveria nei suoi confronti ora superò ogni limite e per lei quella casa divenne come un letto di chiodi.
Suo marito, dopo il matrimonio, era andato fuori per alcuni giorni per lavorare come magistrato aggiunto in un’altra parte del paese e sostenendo che Nirupama sarebbe stata danneggiata dal contatto con i suoi familiari, i suoi suoceri ora le proibivano completamente di vederli.

Un giorno Nirupama si ammalò, ma non era del tutto colpa della suocera; lei stessa aveva trascurato paurosamente la sua salute. Una fredda notte di autunno si era addormentata con la testa verso la porta aperta, non indossava mai qualche vestito in più d’inverno e mangiava in maniera irregolare. I domestici qualche volta si dimenticavano di portarle il cibo, ma lei non diceva nulla e non glielo ricordava. Stava fermamente pensando che lei stessa era una domestica della famiglia, dipendente dai favori del suo padrone e della sua padrona.
Ma sua suocera non poteva sopportare neppure questo atteggiamento. Se Nirupama non si interessava al cibo diceva “Che principessa! Non le piace il vitto di una povera famiglia!’.
Oppure “Guardatela, che bellezza! Sembra sempre più un pezzo di legno bruciato”.
Quando la sua malattia peggiorò, la suocera disse “È tutta scena”.
Finché un giorno Nirupama disse umilmente “Madre, lasciatemi vedere mio padre e i miei fratelli, solo per una volta”.
Ma la suocera le rispose “Nient’altro che un trucco per andare a casa dei genitori”.
Sembra incredibile, ma la sera in cui il respiro di Nirupama iniziò a mancare, fu la prima volta in cui venne chiamato il dottore, e fu anche la sua ultima visita.

La nuora più anziana della famiglia era morta ed i riti funebri furono celebrati in pompa magna. La famiglia di Raybahadur era conosciuta nel distretto per lo sfarzo con cui svolgevano l’immersione della statua della divinità alla fine di Durga-puja, ma divenne ancora più famosa per il modo in cui Nirupama fu cremata: una così grande pira di legno di sandalo non si era mai vista. Solo loro potevano organizzare un rituale così elaborato e si diceva addirittura che per questo loro stessi si erano dovuti indebitare.
Tutti diedero a Ramsundar dettagliate descrizioni della grandiosità della morte di sua figlia, quando si recarono da lui per le condoglianze.
Nel frattempo arrivò una lettera dal magistrato aggiunto “Ho preparato tutto qui, appena potete, fate venire mia moglie”.
La signora Raybahadur rispose “Caro figlio, ci siamo assicurati un’altra ragazza per te, per favore, prendi una licenza e vieni a casa”.

Questa volta la dote venne fissata a 20.000 rupie; pagamento anticipato.