giovedì 30 giugno 2016

Il fiume Yamuna

Il fiume Yamuna, talvolta scritto anche Jamuna, con un percorso superiore ai 1.300 km è il più grande affluente del Gange (http://informazioniindiaenepal.blogspot.com/2016/03/il-fiume-gange.html).
Come tutti i fiumi dell’India riveste una notevole importanza per la religione indù, seconda solo al sacrissimo Gange, nel quale si immette nell’altrettanto sacra città di Allahabad, nello stato dell’Uttar Pradesh (http://informazioniindiaenepal.blogspot.com/2016/02/lo-stato-indiano-uttar-pradesh.html).

Daniell Hindu temples.jpgAnticamente, nella letteratura vedica, la divinità femminile Yamuna veniva chiamata Yami e la sua figura era legata al culto di Surya, il Sole, suo padre, e al dio della morte Yama, suo fratello, mentre più recentemente, nella letteratura puranica, hanno assunto maggior rilievo le vicende legate alla mitologia del dio Krishna, il quale, come vedremo più avanti, trascorse gran parte della sua giovinezza in un’area bagnata dallo Yamuna.
Iconograficamente la dea viene rappresentata come una sorridente signora che regge in mano una brocca d’acqua, seduta sopra ad una tartaruga, il suo veicolo.

Geograficamente il fiume Yamuna nasce dal ghiacciaio Yamunotri, situato a circa 6.300 m s.l.m., nelle remote regioni himalayane dello stato indiano dell’Uttarkhand, che già ospitano la non lontana sorgente del Gange.
Scendendo velocemente sotto forma di un piccolo torrente di montagna, a circa 3.200 metri di altitudine, incontra il primo paese, chiamato Yamunotri, come il già citato ghiacciaio ed il tempio che vi è ospitato, dedicato chiaramente alla dea Yamuna.
Per i successivi 200 km circa, il fiume Yamuna continua la sua discesa attaversando piccoli villaggi di montagna ed aumentando la sua portata grazie all’immissione di numerosi piccoli corsi d’acqua, fino a giungere a Paonta Sahib, a circa 400 m s.l.m., piccola città industriale nota per essere stata fondata, verso la fine del XVII secolo, dal decimo maestro della religione Sikh, Guru Gobind Singh, al quale è dedicato un grande ed attivo Gurudwara (tempio sikh).

Raggiunta la pianura, fin lì con un piacevole percorso, iniziano i problemi per lo Yamuna, legati all’eccessivo sfruttamento delle sue acque e ad un devastante inquinamento.
Dopo aver superato alcune dighe, costruite per deviare l’acqua in grandi canali per l’irrigazione, lo Yamuna è costretto ad attraversare per intero la capitale indiana Delhi, un agglomerato urbano abitato da più di venti milioni di persone.
Considerando le poco rispettate leggi riguardo l’inquinamento industriale, la nota carenza, in India, di adeguati sistemi fognari e costituendo circa il 70% delle risorse idriche della città, superata Delhi lo Yamuna è in condizioni davvero pietose.
Come unica nota storico-culturale di un certo rilievo, sulle sponde dello Yamuna a Delhi si trova il Raj Ghat, un antico ed ancora attivo campo crematorio, trasformato oggi in un grande e ben curato giardino dove sono collocati numerosi memoriali di importanti personalità politiche indiane che sono state cremate in questo luogo, tra cui i più noti: Mohandas Gandhi, Jawaharlal Nehru e Indira Gandhi.

Per fortuna, superata Delhi, per circa 140 km lo Yamuna non incontra altre grandi città fino ad arrivare nella regione del Brajbhoomi, una grande area geografica considerata il luogo dove nacque e trascorse l’infanzia il dio Krishna.
Tra i vari posti sacri di quest’area, il villaggio di Vrindavan è forse il più importante per la presenza di numerosi templi, nonché suggestivi ghat sul fiume Yamuna, in un contesto bucolico piuttosto piacevole.
Dopo una decina di chilometri si incontra la città di Mathura con una popolazione di circa 350 mila abitanti e dedicata al dio Krishna, che pare sia nato proprio in questo luogo.
Importante centro buddista fino a circa l’VIII secolo, quando il buddismo venne soppiantato dalla rinascita induista, nella sua lunga storia Mathura subì numerosi saccheggi e distruzioni da parte degli invasori mussulmani, iniziando col terribile condottiero afghano Mahmud di Ghazni nel 1017 e finendo con l’imperatore Moghul Aurangzeb nella seconda metà del XVII secolo.

Superata quest’area lo Yamuna giunge ad Agra, famosa per il Taj Mahal, ma anche per il traffico e l’inquinamento.
Originariamente il corso dello Yamuna passava proprio sotto alle mura del grande forte cittadino, per poi compiere una grande curva ed andare a bagnare la parte posteriore del Taj Mahal, e seppur al giorno d’oggi il suo corso si sia leggermente allontanato, grazie a questi due pregevoli monumenti lo Yamuna ad Agra offre degli scorci particolarmente suggestivi.
Il danno ecologico nell’attraversare questa città è leggermente minore del passaggio di Delhi, visto che la popolazione stimata attualmente non supera i due milioni di abitanti.

Ad una settantina di chilometri da Agra, in un piacevole contesto bucolico, lo Yamuna incontra il paesino di Bateshwar, sacro sia agli indù che ai seguaci della religione Jaina.
Qui, sulla sponda del fiume, sono stati costruiti dei lunghi ghat sormontati da una serie di templi dedicati a Shiva, che pare abbia trascorso del tempo in questo posto a meditare.
L’importanza religiosa di Bateshwar per la religione Jaina in realtà non è legato al fiume Yamuna, bensì al fatto di aver dato i natali a Neminath, il 22esimo tirthankar (profeta) jainista, ed al quale è dedicato un interessante complesso di templi situato sulle vicine colline.


Negli ultimi 400 chilometri il fiume Yamuna attraversa piccole cittadine e villaggi piuttosto remoti fino ad arrivare nella grande città di Allahabad dove si immerge nel Gange presso l’importante e sacra confluenza, detta dal sanscrito sangam, al quale abbiamo dedicato un posto specifico (http://informazioniindiaenepal.blogspot.it/2016/06/il-sangam-ed-i-mela-di-allahabad.html).

mercoledì 29 giugno 2016

Akbar, Birbal ed il cortigiano invidioso

L’Imperatore Akbar era molto affezionato al suo ministro Birbal, cosa che attirò verso quest’ultimo l’invidia degli altri cortigiani, messi costantemente in ombra dalla sua sagacia.
In particolare, c’era un cortigiano che aspirava alla carica di Birbal ed era sempre pronto a cercare metterlo in cattiva luce.
Un giorno Akbar fece pubblicamente i complimenti a Birbal, cosa che rese questo cortigiano furioso tanto da affermare che le lodi erano ingiustificate e solo se Birbal avesse risposto a tre sue semplici domande avrebbe riconosciuto la sua superiore intelligenza.
Akbar, sempre pronto a mettere alla prova il suo astuto consigliere, lasciò quindi che il cortigiano ponesse le sue domande.
Che erano: quante sono le stelle nel cielo?
Qual è il centro della terra?
Quanti uomini e donne ci sono al mondo?
Poste le domande, Akbar informò Birbal che se non fosse stato in grado di rispondere avrebbe dovuto dimettersi da Primo Ministro.
Questi, per nulla intimorito, per rispondere alla prima domanda si procurò una pecora, quindi disse “Ci sono tante stelle nel cielo quanti sono i peli su questa pecora. Il mio amico cortigiano è il benvenuto se vuole contarle”.
Per la seconda domanda si procurò un’asticella di metallo, fece due linee per terra e vi pose in mezzo l’asticella “Questo è il centro della terra, se ha dei dubbi il nostro caro cortigiano può misurarlo lui stesso”.
In risposta alla terza domanda Birbal disse “Contare l’esatto numero di uomini e donne sarebbe problematico poiché ci sono individui, come il cortigiano qui presente, che non possono essere classificati in nessuna delle due categorie. L’unica soluzione sarebbe uccidere tutte le persone come lui!”.


Nota: Si prega gentilmente di non considerare omofobica l’ultima battuta, la cui intenzione non è certo quella.

lunedì 27 giugno 2016

Breve cenno ai siddhi

La parola sanscrita siddhi, già ricca di molteplici significati, in un contesto religioso indù viene usata per definire qualunque abilità soprannaturale, in pratica la capacità di compiere miracoli.
Questa si può ottenere sostanzialmente in due modi: attraverso la devozione verso Dio o una divinità, oppure praticando rituali “magici”.
Il primo metodo è sicuramente quello più elevato, grazie alla devozione infatti è possibile ridurre il proprio ego per permettere a Dio stesso di operare al suo posto.
Il mutamento dell’individuo è tale che per lui le leggi della natura perdono significato, come travolte dalla potenza dell’amore di Dio.
I miracoli della tradizione cristiana, a partire da Gesù, fanno tutti parte di questa categoria.
Quando Gesù guardava un malato era Dio-padre che guardava Dio-figlio e non potendo sopportare un figlio soffrire, la forza del Suo amore faceva sì che il malato guarisse.

Al contrario, ottenere i siddhi attraverso la magia ha, in genere, scopi molto egoistici.
I manuali tantrici descrivono innumerevoli rituali per ottenere successo, soldi, figli, salute, nonché per ostacolare gli altri, causandogli problemi, malattie e perfino la morte.
La limitazione di questo tipo di superpoteri, oltre che morale, è data anche dal fatto che essi vanno raggiunti uno alla volta, attraverso lunghi e complicati rituali, mentre con la devozione e la susseguente purificazione dell’ego non vi è limite alle capacità che si possono ottenere.
Certo l’abilità di guarire i malati o resuscitare i morti richiede un particolare livello di purificazione e di identificazione con Dio, ma esistono anche altri siddhi, che potremmo definire minori, ottenibili attraverso pratiche molto più “semplici”.

Semplici, chiaramente, dal punto di vista dell’apprendimento del processo ma pur sempre difficilissimi nell’applicazione.
Ad esempio, in India, capita spesso di sentir dire che quando una persona dice sempre la verità, dopo un po’ quello che dice si avvera.
Il concetto d’altronde sembra logico, seppur sia altrettanto evidente quanto sia decisamente arduo dire sempre la verità.
La difficoltà più grande è quindi tenere sotto stretto controllo l’ego, dato che quando non si dice la verità in genere è per fini egoistici.

Discorso molto simile può essere fatto anche per un altro super-potere molto “popolare”: la capacità di predire il futuro.
Per ottenere la quale bisogna “semplicemente” accettare sempre quello che ci riserva il destino.
In questo modo, col tempo, si dovrebbe arrivare a conoscere i meccanismi del fato, come esso opera, per cui risulterà piuttosto naturale capire cosa succederà.

Anche in questo caso è evidente come alla base vi debba essere una completa fiducia in Dio e un perfetto controllo dell’ego.

domenica 26 giugno 2016

Storia di Tulsidas e l'asceta aghori

La seguente storia, seppur probabilmente apocrifa, mostra gli inusuali sistemi degli asceti aghori (http://informazioniindiaenepal.blogspot.it/2016/05/la-setta-tantrica-aghora.html) rispetto agli asceti ortodossi, in questo caso identificati con il noto santo e poeta Tulsidas.

Un giorno, Tulsidas, durante il periodo che trascorse come asceta itinerante, giunse in una città dove, come da tradizione dell’ospitalità indù, una donna lo invitò in casa a mangiare.
Finito il pasto, Tulsidas si sentì molto riconoscente e disse alla donna “Ti prego, chiedimi qualunque cosa e la farò per te”.
Lei, inaspettatamente però, gli rise in faccia “Maharaj, tanti santi sono passati di qua prima di te e nessuno di loro è stato in grado di darmi quello che desidero”.
“Ma io sono Tulsidas! – rispose lui un po’ offeso – Ti darò quel che desideri, dimmi!”.
La donna sospirò per la sua ingenuità e gli disse “Voglio un figlio”.
Tulsidas entrò in meditazione e quando ne uscì le rispose “Mi dispiace, gentile signora, ma temo che un figlio non sia nel tuo destino”.
La donna sorrise “Questo è quello che ti ho detto subito, ma non mi hai voluto ascoltare. Comunque, sei sempre il benvenuto per il cibo”.
E Tulsidas se ne andò per la sua strada.
Dopo un po’ di tempo giunse in quella città un asceta aghori, il quale, saputo della donna che non poteva avere figli, decise di fare qualcosa.
Iniziò quindi a camminare nei pressi della casa di lei urlando “Chi mi darà da mangiare? Offro un figlio per ogni roti (chapati, pane) che mi viene dato! Un roti, un bambino! Dieci roti, dieci bambini!”.
Quando la donna lo udì, invitò l’aghori ad entrare e gli disse “Maharaj, non è nel mio destino avere bambini”.
Alché l’aghori rispose “Io ci piscio sul destino!”.
Gli furono offerti otto roti e la donna in otto anni diede alla luce otto bellissimi figli.
Dopo un po’ di tempo, Tulsidas passò di nuovo in quella città e, mentre camminava per la stessa strada, vide gli otto ragazzi.
Bellissimi ed intelligenti, fecero presto amicizia con Tulsidas, quindi chiamarono la madre, che lo invitò ad entrare e gli disse “Ricordi che avevi detto che non c’erano figli nel mio destino?”.
Quando Tulsidas seppe che glieli aveva dati un aghori, entrò in meditazione e chiese al suo Signore Rama il perché “Raghuvira (epiteto di Rama), se Tu non mi hai permesso di dare a quella donna dei figli, come ha potuto farlo quello sporco aghori puzzolente?” (gli asceti aghori sono conosciuti per le loro pratiche estreme e l’aspetto spesso trasandato).
Rama rispose “Tulsi, quell’aghori è qualcosa di diverso da te. Egli è andato oltre le limitazioni di essere un santo e di vivere nel sattva (purezza)”.
Siccome Tulsidas non sembrava soddisfatto di questa spiegazione, Rama decise di insegnargli una buona lezione, con l’aiuto dell’aghori, e improvvisamente cominciò ad urlare “Oh, ho un terribile dolore al cuore. Ti prego Tulsi, portami il cuore di qualcuno così che possa avere un po’ di sollievo”.
Tulsidas si spaventò: se fosse successo qualcosa al Signore Rama, quale sarebbe stato il suo destino come suo devoto principale? Così si mise a correre per le strade gridando “Un cuore! Il Signore Rama ha bisogno di un cuore! Chi darà il suo cuore per Rama?”.
L’aghori, che stava riposando sotto un albero, lo udì e lo chiamò “Tulsi, Tulsi, vieni qui!”.
Quando Tulsidas si avvicinò, l’aghori disse “Ora so quanto amore hai per il Signore Rama. Se lo amassi veramente, Gli avresti dato il tuo cuore quando l’ha chiesto. Qua, se il Signore Rama vuole un cuore, prenda il mio”, e così dicendo si aprì il petto con le dita, si strappò il cuore e lo diede a Tulsidas.
Quando questi entrò in meditazione per offrire il cuore a Rama, questi sorrise e gli disse “Adesso vedi come un vero amante si comporta con il suo amato?”.

Tulsidas dovette rimanere in silenzio e riconoscere la grandezza dell’aghori.

venerdì 24 giugno 2016

Brevi cenni al sistema sanitario indiano

صولجان هرمس.pngDi seguito riportiamo due articoli sulla sanità indiana apparsi alcuni anni fa sul The Times of India.
Il primo era intitolato “It’s a privatized system anyway” (Ad ogni modo è un sistema privatizzato).

L’India ha, effettivamente, uno dei sistemi sanitari più privatizzati del mondo.
I dati della Banca Mondiale per il 2010, gli ultimi disponibili, mostrano che la percentuale della spesa pubblica riservata alla sanità in India era solo il 29,2% del totale, confronto ad una media mondiale di 62,8%.
Gli unici paesi per i quali erano disponibili i dati con una minor percentuale erano: Guinea Bissau, Guinea, Sierra Leone, Afghanistan, Myanmar, Azerbaijan, Haiti, Costa d’Avorio, Uganda, Georgia, Yemen, Chad e Tajikistan.
Non solo questa percentuale della spesa pubblica per la sanità in India è considerevolmente minore della media globale, ma non arriva neppur a sfiorare le media per i paesi dal reddito basso che è di 38,8%; perfino l’Africa sub-sahariana sta facendo meglio con il 45,3%.
A questo va aggiunto il cupo dato di quanto PIL viene riservato alla spese sanitarie in India: nel 2010 la media mondiale era di 10,4%; nei paesi più ricchi era del 12,9%; nei paesi dal reddito medio, di cui fa parte l’India, la media è di 5,7% e perfino nei paesi dal reddito basso era registrata al 5,3; in confronto a questi dati l’India spendeva un misero 4,1%.
Mettendoli insieme, questi due dati ci dicono che la spesa pubblica indiana per la sanità era equivalente a solo l’1,2%, contro una media mondiale del 6,5%, dell’8,4% per i paesi ricchi, il 3,0% dei paesi dal reddito medio e 2,1% dei paesi dal reddito basso.
Una volta di più l’Africa sub-sahariana, con una spesa pubblica sulla salute del 2,9%, fa meglio dell’India.
In breve, non solo l’India spende meno per la salute della maggior parte degli altri paesi, compresi quelli che sono significativamente più poveri, perfino quel poco che viene speso proviene soprattutto da fonti private.
Date queste circostanze, non sorprende che alcuni studi hanno dimostrato che le spese per la salute, insieme a quelle per i rituali, in particolare quelli funebri e i matrimoni, sono tra le ragioni maggiori del diffuso indebitamento delle famiglie indiane.

Altro interessante articolo riguardava invece gli ultimi dati sulla carenza di dottori e infermieri, intitolato “India has 76% shortfall in govt doctors” (L’India ha una carenza del 76% in dottori statali).
Una piccola tabella riportava il target minimo, l’attuale situazione e la percentuale di deficenza:
Dottori richiesti 109.484, numero attuale 26.329, carenza del 76%.
Dottori specialisti richiesti 58.352, numero attuale 6.935, carenza dell’88%.
Infermieri richiesti 138.623, numero attuale 65.344, carenza 53%.
Radiografi richiesti 14.588, numero attuale 2.221, carenza 85%.
Tecnici di laboratorio richiesti 80.308, numero attuale 16.208, carenza 80%.

I motivi di una tal drammatica situazione vanno fatti risalire in gran parte alle condizioni lavorative, a dir poco precarie, presenti negli ospedali e nei vari centri sanitari pubblici.
Ma causa non da poco è anche il diffuso menefreghismo, tipicamente indiano, verso poveri, bisognosi e malati.
In un paese dove la povertà e la disoccupazione sono problemi che portano alla fame, sorprende scoprire l’elevato numero di impieghi lasciati scoperti, come anche l’enorme sproporzione tra i numerosi iscritti ad università ingegneristiche, confronto alla scarsità di studenti iscritti a corsi di medicina.
Non solo, ma la maggior parti dei neodottori, appena in posesso delle preziose riconoscenze accademiche, non perdono tempo per lasciare l’India, dove le condizioni del lavoro sono difficili, le carriere lente e le paghe “magre”, per emigrare verso paesi stranieri: dagli Stati Uniti, all’Inghilterra, dall’Arabia, alla Malesia, ovunque basta non lavorare in India.
Per frenare questa fuga di dottoruncoli, si è mosso addirittura il solitamente macchinoso Governo Indiano che ha dovuto recentemente erogare delle Leggi che obbligano i neodottori a spendere almeno 3 anni di tirocinio sul suolo natio.

Questi dati agghiaccianti purtroppo non riguardano solo la sanità ma anche l’istruzione, con un’elevatissima carenza di insegnanti a tutti i livelli, ma per riportare dati precisi aspettiamo di leggere, in futuro, qualche interessante articolo sul fidato The Times of India.

mercoledì 22 giugno 2016

Akbar, Birbal e la lista degli idioti

Akbar domptant l'éléphant Hawai.jpgUn giorno un mercante arabo si presentò alla Corte di Akbar con una mandria di cavalli di vario tipo.
Akbar fu molto impressionato dall’alta qualità, pagò il prezzo richiesto per i cavalli che aveva scelto ed ordinò al mercante di mandargli i migliori che avrebbe trovato in Arabia.
Il mercante accettò, ma chiese di essere pagato in anticipo, così Akbar diede ordine ai suoi tesorieri di elargirgli il dovuto denaro, dopodiché questi se ne andò con la promessa di spedire i cavalli appena possibile.

Passate alcune settimane, Akbar, durante uno dei suoi attacchi di curiosità, chiese a Birbal di preparargli una lista degli idioti residenti nel suo impero.
Birbal, con molta calma rispose “Mio Signore, proprio alcuni giorni fa mi ero già preso la libertà di prepararne una”, e porse ad Akbar una lunga lista.
Questi rimase allibito nel constatare che il primo nome della lista era il suo!
Indignato Akbar urlò a Birbal “Come ti permetti di mettere il nome del tuo Imperatore nella lista degli idioti?”.
Birbal, sempre molto tranquillo, rispose “Alcune settimane fa, Vostra Maestà ha pagato lautamente un mercante arabo senza nessuna garanzia che questi Vi avrebbe effettivamente spedito i cavalli. Questo giustifica il mio avervi messo in cima alla lista”.
Akbar però gli chiese “Cosa succede invece, se il mercante mi porta i cavalli che gli ho ordinato?”.
“Beh, in quel caso, Sua Maestà, sostituirei il Vostro nome con il suo!”.
Akbar realizzò l’errore che aveva fatto a pagare in anticipo e restò in silenzio.

lunedì 20 giugno 2016

Il poema epico Ramcharitmanas

Il Ramcharitmanas è un poema epico indiano in cui vengono narrate le vicende più importanti della vita del dio indù Rama.
Venne composto verso la fine del XVI secolo dal poeta e santo Goswami Tulsidas, considerato uno dei primi e più importanti autori della letterattura hindi, seppur il Ramcharitmanas sia precisamente composto in awadhi, una delle due principali lingue locali da cui si sviluppò l’hindi moderna.
Tulsidas non scelse per caso questa lingua (ancora oggi parlata da circa 38 milioni di abitanti tra il nord dell’India ed il sud del Nepal), invece del sanscrito, considerato fino ad allora l’unica lingua in cui comporre testi religiosi, ma col preciso scopo di cercare di diffondere, finalmente, i precetti spirituali anche alle persone meno istruite.
Questo chiaramente non era ben visto dai bramini ortodossi della sacra città di Varanasi, dove Tulsidas trascorse gran parte della sua vita, i quali per molto tempo non accettarono il valore religioso della sua opera.
Secondo la leggenda, i suoi oppositori cambiarono definitivamente opinione grazie ad un curioso episodio che pare essersi verificato ripetutamente.
Per dimostrare il proprio disprezzo verso Tulsidas e dare poca visibilità al Ramcharitmanas, quando alla sera chiudevano la stanza che conservava i testi sacri, i bramini ortodossi erano soliti mettere l’opera di Tulsidas in fondo alla pila, ma quando riaprivano la stanza il giorno dopo lo trovavano magicamente in cima, come se una forza divina lo imponesse per essere il primo e più importante testo da leggersi.

Metricamente il poema è formato da chaupai (quartine), separate da doha (distici), ma sono presenti anche altre forme, soprattutto per le invocazioni, spesso in sanscrito, all’inizio delle 7 sezioni principali.
Strutturalmente infatti il Ramcharitmanas è diviso in 7 kand, dove vengono descritti particolari momenti della vita di Rama: ad esempio, la prima sezione è chiamata Balkand e narra dei primi anni di vita del dio, da bal, che significa bambino.
Un’altra caratteristica di questo vasto poema epico, dalla quale se ne ricavano interessanti riflessioni, è che non si tratta di un’opera originale, bensì di una rivisitazione del Ramayana scritto in sanscrito dal poeta Valmiki tra il VI e III secolo a.C..
Oltre a numerose modifiche nei dettagli della storia, con tagli e aggiunte da altre tradizioni, la differenza principale tra le due opere è che nel Ramayana viene dato maggior risalto all’aspetto divino dell’uomo Rama, quindi al suo lato spirituale, mentre nel Ramcharitmanas l’attenzione è concentrata sull’aspetto umano del dio Rama, quindi alle vicende materiali della sua vita (lo stesso titolo significa il ritratto, charit, di Rama come uomo, manas).
Questo permette al lettore una più facile identificazione che potrebbe essere uno dei tanti motivi per cui questo poema ebbe da subito un enorme successo e viene ancora oggi ampiamente letto, studiato e discusso.

Purtroppo però una completa identificazione con Rama è molto difficile visto che nell’opera di Tulsidas viene considerato come l’essere umano ideale in ogni suo ruolo, di figlio, fratello, marito, padre, principe, re, amico, guerriero, asceta ed altri ancora.
In realtà in qualche raro episodio il suo comportamento non è proprio ineccepibile: ad esempio, per uccidere un demone usa un sotterfugio molto poco elegante, giustificandosi poi quasi con un macchiavellico “il fine giustifica i mezzi”, un atteggiamento decisamente poco divino.
Bisogna però ricordare che nonostante tutto Rama è comunque un uomo e fa parte della naturale perfezione umana cedere ogni tanto a qualche debolezza.

Infine, altro motivo della popolarità del Ramcharitmanas, Tulsidas scrisse il poema in modo che fosse possibile musicarlo e cantarlo secondo semplici principi della musica classica indiana.
Sebbene questa caratteristica sia comune a molti testi sacri indù, essendo scritta in awadhi invece del sanscrito, l’opera di Tulsidas risulta decisamente più facile da capire e da pronunciare per l’indiano medio.
In occasione di particolari festività, nei templi dedicati a Rama o al suo fido Hanuman, vengono spesso organizzate delle semplici ma sentite esecuzioni di circa una settimana, durante la quale, piccoli gruppi di musicisti, musicano e cantano tutta l’opera per circa 8-10 ore al giorno.

Nonostante la nota devozione degli indiani, al giorno d’oggi è difficile che molte persone possano dedicare ben 9 giorni a questa attività (che tra l’altro, alla lunga, potrebbe rivelarsi leggermente noiosa), per cui torna particolarmente utile la divisione in kand, grazie alla quale i devoti possono concentrare la propria attenzione sugli avvenimenti a loro più graditi.

domenica 19 giugno 2016

Storia su Tulsidas e lo spirito

Il poeta e santo Tulsidas, durante la sua vita, trascorse molti anni come asceta errante, in cerca della sua adorata divinità, il dio Rama (http://informazioniindiaenepal.blogspot.it/2016/06/le-vicende-della-vita-del-dio-rama.html).
Mentre stava passando un periodo di riposo in un ashram nella foresta, Tulsi aveva preso l’abitudine di versare l’acqua che avanzava dal suo lavaggio mattutino ai piedi di un grande albero.
Dopo quaranta giorni, lo spirito che risiedeva nell’albero gli apparve all’improvviso e gli disse “Grazie, sono molto contento di te. Esprimi un desiderio!”.
Tulsi, spaventato, dapprima cercò di rifiutare “Io non sapevo che tu eri nell’albero, non sapevo che ti stessi compiacendo”.
“Non importa, sono soddisfatto di te. Chiedimi qualcosa!”.
Tulsi allora disse allo spirito “L’unica cosa che voglio è incontrare il dio Rama”.
“Se sapessi dove si trova Rama, sarei là io stesso! – rispose lo spirito – Ma se vuoi posso dirti dove trovare Hanuman (il dio scimmia fedele devoto di Rama http://informazioniindiaenepal.blogspot.it/2016/02/il-dio-scimmia-hanuman.html) e lui ti dirà come incontrare Rama.
Tutte le sere, al tempio del villaggio qui vicino, si tiene una lettura del Ramayana. Partecipano molte persone, tra cui un gruppo di lebbrosi: Hanuman è il primo di loro che arriva e l’ultimo che se ne va”.
Così, alla sera, Tulsi si recò al tempio del villaggio ad assistere alla lettura e studiò chi poteva essere il lebbroso-Hanuman.
Dopo una settimana, quando fu certo di aver individuato il suo uomo, Tulsi aspettò che tutti se ne andassero, si avvicinò al lebbroso e lo afferrò per un braccio.
Dimenandosi per liberarsi, il lebbroso gli disse “”Cosa stai facendo, pazzo? Vuoi prenderti la mia malattia?”.
Tulsi rispose “Sì, voglio prendere la malattia della devozione. Portami dal signore Rama, se non puoi, posso anche morire, non voglio più vivere”.

Sentendo la parola Rama, Hanuman capì immediatamente e dopo poco tempo Tulsidas finalmente incontrò il suo adorato Rama.

venerdì 17 giugno 2016

La canzone di Bollywood Kabhi Kabhie

Kabhi Kabhie (in italiano “Talvolta”) è un film di Bollywood del 1976, noto per la discreta qualità cinematografica e, soprattutto, per l’ottima colonna sonora.
Sebbene oggigiorno la musica bollywoodiana sia qualitativamente piuttosto bassa e monotona, fino a circa una trentina di anni fa le musiche erano invece decisamente migliori e fungevano spesso, come nel caso di Kabhi Kabhie, come traino per il successo commerciale delle pellicole.
La miglior qualità si deve al fatto che gli artisti di quei tempi avevano spesso ancora profonde radici con le migliori tradizioni sia per quanto riguardava le composizioni, i testi e le interpretazioni.
In particolare la canzone principale del film Kabhi Kabhie mere dil mein (Talvolta nel mio cuore), considerata una delle migliori opere musicali di Bollywood, può essere presa da ottimo esempio, visto che gli autori di musiche e testi, nonché il cantante, hanno vinto il premio di migliori al Filmfare Award, uno dei più importanti riconoscenti cinematografici indiani.

Il noto compositore Khayyam imparò musica a Lahore dal grande Baba Chisti (considerato il padre della musica cinematografica pakistana), prima di trasferirsi nel 1948 a Bombay, dove inizierà la sua prolifica carriera di compositore per i film di Bollywood.
L’autore del testo è Sahir Ludhianvi, un noto poeta indiano che scrisse poesie e testi per canzoni sia in hindi che in urdu.
L’originale di Kabhi Kabhie mere dil mein è una poesia in urdu molto stretto, che l’autore stesso modificò leggermente per essere compresa più facilmente dal pubblico.
Delle tre versioni presenti nel film, la più popolare è quella più lunga, accompagnata dal video dei due protagonisti del film, Amitabh Bachchan e Raakhee, e cantata magistralmente dal grande Mukesh e la squisita Lata Mangeshkar.

Lasciamo di seguito il testo traslato con traduzione ed il link al video di youtube.

Kabhi kabhie mere dil mein
khayal aata hain
Ke jaise tujhko
banaaya gaya hain mere liye
Tu abse pehle
sitaaron mein bas rahi thi kahin
Tujhe zameen pe
bulaaya gaya hain mere liye

Kabhi kabhie mere dil mein
khaayal aata hain
Ke ye badan, ye nigaahen
meri amaanat hain
Ye gesuoon ki
ghani chhaaon hain meri khatir
Ye honth aur
ye baahen meri amaanat hain

Kabhi kabhie mere dil me
khaayal aata hain        
Ke jaise bhajti hain
shehnnaiyan si rahoon mein
Suhaag raath hain
ghunghat uthaa raha hoon main
Simat rahi hain
tu sharma ke apni baahon mein

Kabhi kabhie mere dil mein
khayal aata hain
Ke jaise tu mujhe
chaaeghi umr bhar yoonhi
Uteghi meri taraf
pyar ki nazar yoonhi   
Main jaanta hoon
ke tu gair hai, magar yoonhi   

Kabhi kabhie mere dil mein
khayal aata hain
Talvolta nel mio cuore
sorge un pensiero
Che tu
sia stata creata solo per me
Tu prima d’ora
vivevi da qualche parte tra le stelle
E sei stata chiamata sulla terra
solo per me

Talvolta nel mio cuore
sorge un pensiero
Che questo corpo e questi occhi
sono il mio tesoro
Quest’ombra
sotto i tuoi capelli è solo per me
queste labbra
e queste braccia sono il mio tesoro

Talvolta nel mio cuore
sorge un pensiero
Che sembra che
per le strade si senta lo shennai
Come se fosse la nostra prima notte
di nozze e ti sollevassi il velo
E tu ti lasciassi andare
con timidezza al mio abbraccio

Talvolta nel mio cuore
sorge un pensiero
Che tu mi amerai per sempre
in questo modo
Che il tuo amorevole sguardo sia
sempre rivolto verso di me in questo modo
Lo so che tu non sei per me
ma in ogni modo…

Talvolta nel mio cuore
sorge un pensiero


giovedì 16 giugno 2016

Il parapendio in Nepal

Il parapendio è uno strumento simile al paracadute che permette di praticare la disciplina del volo libero di pendio, sebbene per praticità il nome del mezzo è stato esteso anche alla disciplina.
Questa moderna attività sportiva sta ottenendo un sempre maggior successo grazie a numerosi fattori, non ultimo la possibilità concreta di avvicinare in qualche modo l’uomo al sogno di volare.
Oltre a questo, vanno segnalati i continui progressi in campo tecnologico che permettono la sperimentazione di materiali sempre più affidabili, nonché alcune caratteristiche tecniche che rendono il parapendio uno sport sorprendentemente semplice e sicuro.
In confronto a qualunque tipo di mezzo a motore, per quanto piccolo ed ultraleggero, i vantaggi di non dover dipendere da nessun tipo di carburante e di non creare alcun tipo di inquinamento, neppure quello acustico, sono evidenti, mentre rispetto al paracadutismo e al diffuso banjee-jumping, il parapendio permette un’esperienza meno eccitante ma più simile ad un volo controllato che non ad una semplice caduta.
Rispetto invece alla simile disciplina del deltaplano, che dopo il passato successo sta diventando leggermente obsoleta a causa dell’introduzione di piccoli motori che ne favoriscono la manovrabilità, vi sono dei vantaggi riguardo alla sicurezza, soprattutto nelle laboriose e delicate operazioni di partenza, che nel parapendio possono essere interrotte in qualunque momento, mentre nel deltaplano questo non è possibile, e nel caso di errori le conseguenze possono essere disastrose.

In base alle condizioni atmosferiche, relative ai venti e alle correnti d’aria, il parapendio può essere diviso in due tipologie di volo: dinamico o termico.
Nel primo caso, la forza che consente alla vele di aprirsi e al pilota di planare nell’aria è determinata esclusivamete dal vento che, soffiando in direzione dei pendii dai quali sono previsti i lanci, risale verso l’alto.
Il volo termico, invece, prevede l’utilizzo delle correnti ascensionali calde, esattamente come fanno in natura molti uccelli tra cui, com’è piuttosto noto, i grandi rapaci: specialmente alla mattina, qualche ora dopo il sorgere del sole, i raggi iniziano a scaldare l’aria che si trova nelle pianure poste sotto ai rilievi, ed essendo questa più leggera tende a salire.
Questo sistema di volo è quello preferito dai praticanti poiché permette di volare quasi a tempo indeterminato; unica esigenza è il sole, altrimenti, senza il supporto delle correnti calde ascensionali, si scende in fretta e i voli durano molto poco.

I rischi legati a questa attività, apparentemente e profanamente pericolosissima, sono in realtà molto limitati e determinati in genere da condizioni climatiche avverse, che però possono essere prevedibili e verificabili.
Nel caso del volo termico vi è anche la possibilità di salire troppo in alto e rischiare di avvicinarsi a eventuali cumuli nembi, che di solito provocano imprevedibili cambiamenti nel vento che possono essere alquanto pericolosi; in ogni caso, l’attrezzatura completa prevede un paracadute d’emergenza, da utilizzare proprio se si perdesse il controllo della vela principale.
Terminando l’argomento sicurezza, bisogna notare come, curiosamente all’opposto di quanto si possa pensare di primo acchito, più in alto si vola minori sono i rischi di incidenti, visto che questi aumentano in rapporto alla vicinanza col suolo.

Tra i tanti luoghi dove intrepidi appassionati hanno scoperto le condizioni adatte per praticare questa interessante disciplina, uno dei migliori al mondo è la collina di Sarangkot, situata in posizione dominante sopra il Lago di Pokhara, in Nepal.
Grazie alla posizione ed alla conformazione della valle e delle montagne circostanti, i lanci dalla cima di Sarangkot sono considerati tra i più sicuri e semplici, e chiaramente quelli più panoramici, con il placido lago ai piedi e le cime himalayane alle spalle.
Sebbene la zona sia attrezzata per tale attività da molto tempo, il vero boom del parapendio nepalese sta avvenendo solo da un 4-5 anni, grazie alla rinnovata stabilità politica del Nepal che sta favorendo l’afflusso di turisti stranieri.
Nella zona turistica del lungolago le agenzie che offrono i voli, gestite da nepalesi ma con istruttori occidentali, sono sempre più numerose, visto che il fascino di volare sembra non conoscere confini e attira turisti da tutto il mondo; e grazie al diffuso sistema del volo in tandem, cioè con un istruttore legato alle spalle che si occupa di tutto l’aspetto tecnico, non è neppure necessaria alcuna particolare esperienza.

Tutto sembrerebbe perfetto quindi, se non fosse per il vistoso e spiacevole aumento di grandi jeep, minivan e taxi che portano i volatori in cima alla collina e poi li vanno a recuperare quando atterrano, in genere a nord del lago.
Ciò che colpisce è il paradosso che questo fenomeno crea, visto che il parapendio dovrebbe essere il mezzo di trasporto ecologico per eccellenza, ma se prima e dopo il lancio servono dei potenti mezzi a motore (l’attrezzatura infatti è piuttosto voluminosa), questo presupposto crolla miseramente.
Sebbene sia forse prematuro parlare di danni all’ambiente, già ora si può facilmente notare dal lungolago di Pokhara come la collina di Sarangkot abbia perso in più punti la copertura della vegetazione.
Il fatto che recentemente, sempre tra queste colline, siano stati trovati altri punti favorevoli alla pratica del parapendio, sembra un altro indice del forse eccessivo sfruttamento.
Oltretutto nessuno sembra rendersene minimamente conto: gli stranieri sono troppo concentrati a godersi l’esperienza ed i nepalesi a trarne i maggiori profitti economici.

Rimpiangiamo di non aver affrontato l’argomento con il nostro amico Phil, un inglese da molti anni appassionato di parapendio, che citiamo non solo per l’amicizia, ma per dargli credito di essere stato la fonte attendibile delle notizie tecniche che abbiamo riportato.

Parabola sul dio Indra, il karma ed il pappagallo

Conoscere il karma vuol dire conoscere il fato, sebbene il fato non sia così facile da conoscere, visto che, stando alla seguente storiella, perfino le divinità fanno fatica a comprenderlo.
Indra, il Re degli Dei, aveva un pappagallo domestico.
Un giorno pensò “Prima o poi il mio bellissimo pappagallo morirà. Quando succederà?”.
Quest’idea si insinuò a tal punto nella mente di Indra che decise di andare a chiederlo al dio Brahma, il Creatore.
Egli però rispose “Mi spiace, Indra, ma io sono solo il Creatore, non conosco cose come la morte. Ma ora mi hai incuriosito, andiamo a chiedere a Vishnu, il Conservatore”.
Ma anche Vishnu rispose “Io sono solo il Conservatore, non so nulla sulla distruzione, per questo dobbiamo andare da Shiva, il Distruttore”.
Così si recarono da Shiva, il quale rispose “Sebbene sia vero che sono il Distruttore, io non faccio nulla di mia volontà, seguo solo il Fato. Quando nel destino di qualcuno è scritto che è arrivata la sua ora, io vado a prenderlo. Se vogliamo sapere quando il pappagallo morirà, dobbiamo andare da Vidhata (la personificazione del fato)”.

Indra, il pappagallo, Brahma, Vishnu e Shiva si recarono quindi da Vidhata e appena furono ammessi alla sua presenza posero la loro domanda sul pappagallo.
Vidhata li squadrò per un attimo e disse “Guardate nella gabbia”.
All’interno, sul fondo, giaceva il pappagallo, morto.
Scioccati, i quattro Dei chiesero spiegazione.
Vidhata disse “Era scritto che l’uccello sarebbe morto quando lui, Indra, Brahma, Vishnu e Shiva si sarebbero incontrati con me nello stesso momento. Questo era l’unico modo in cui sarebbero stati soddisfatti i prerequisiti per la sua morte. Siccome era arrivata l’ora del pappagallo tu Indra ti sei posto quella domanda e sei venuto fin qui per saperne la risposta; se tu avessi ignorato quella domanda, il pappagallo sarebbe ancora vivo”.
Indra e la Trinità impararono quindi una buona lezione ma dovettero tornare a casa senza pappagallo.

Da un punto di vista mitologico Indra è il Re degli Dei ma nel contesto del corpo umano egli rappresenta indriya, gli organi di senso.
Quello che fanno continuamente gli organi di senso è porsi domande, sono sempre alla ricerca di qualcosa da sentire, toccare, vedere, annusare e gustare.

Porsi domande è quindi quello che fanno per natura, ma se Indra fosse stato in grado di controllare la sua natura, si sarebbe chiesto perché si era posto quella domanda e probabilmente avrebbe conservato ancora a lungo il suo bel pappagallo.

mercoledì 15 giugno 2016

Birbal rovescia le parti

Akbar the Great Mogul, 1542-1605 (1917) (14773023132).jpgUn giorno l’imperatore Akbar si svegliò di soprassalto a causa di uno strano sogno e chiamò subito Birbal e gli altri cortigiani per raccontarglielo.
Il sogno iniziava con Akbar e Birbal i quali, camminando l’uno verso l’altro durante una buia notte senza luna, si scontrarono tra loro e caddero.
“Per mia fortuna,” disse l’Imperatore, “caddi in una vasca di payasam (uno dei nomi del risolatte tipico del subcontinente). Ma, sapete dov’è caduto Birbal?”.
“Dove, Sua Altezza?”, chiesero i cortigiani.
“In una fogna!”.
La Corte echeggiò di risate ed Akbar stesso fu molto contento di essere riuscito, per una volta, a prendersi gioco del sagace Birbal, il quale apparentemente non ebbe nessuna reazione.
Infine, quando le risate cessarono, questi disse “Sua Maestà, stranamente anch’io ho fatto lo stesso sogno ma, rispetto a Voi, ho dormito fino alla fine. Quando Voi usciste dalla vasca di payasam ed io dalla fogna, scoprimmo che non c’era acqua per lavarci, così, sa cosa fecimo?”.
“Cosa?”, chiese Akbar, già temendo la risposta.
“Ci leccammo l’un l’altro!”.

Akbar divenne rosso dalla vergogna e si promise di non provare mai più ad avere la meglio su Birbal...

lunedì 13 giugno 2016

Le vicende della vita del dio Rama

Unknown Indian - Rama, Lakshmana, and Sita Cooking and Eating in the Wilderness - Google Art Project.jpgSri Ramachandra, comunemente abbreviato in Rama, è la settima incarnazione del dio indù Vishnu.
Le vicende della sua vita sono narrate in numerosi testi sacri, su tutti il Ramayana, scritto in sanscrito dal poeta Valmiki nel VI-III secolo a.C. ed il Ramcharitmanas, scritto nel XV secolo in lingua awadhi (una “proto-hindi”) dal poeta Goswami Tulsidas.
L’importanza culturale della figura di Rama è notevole, tanto che anche a noi, scrivendo alcuni articoli, capita spesso di fare qualche cenno alle sue imprese, di solito piuttosto fugacemente per cercare di non essere eccessivamente prolissi.
È quindi forse il caso di dedicare un post specifico alla vita di Rama, citando quelli che sono gli avvenimenti più importanti.

Dasaratha era il re di Ayodhya ed aveva tre mogli: Kausalya, dalla quale ebbe Rama e Shanta; Kaikey, che diede alla luce Bharat; e Sumitra, madre di Lakshman e Shatrughna.
Giunto ormai in età avanzata, Dasaratha decise di abdicare in favore dell’amato primogenito il principe Rama, ma pochi giorni prima dell’incoronazione, la seconda moglie Kaikey, si recò dal re e gli chiese di poter esprimere un desiderio che lui le aveva accordato anni prima per averlo aiutato in una difficile situazione.
Così obbligò Dasaratha a mandare Rama in esilio nella foresta per 14 anni ed eleggere re suo figlio Bharat.
Non potendo rimangiarsi la parola data, addolorato Dasaratha chiamò Rama e lo mise a conoscenza della situazione.
Questi, dimostrando come sempre le sue elevate qualità morali, non solo non protestò, ma consolò il padre dicendogli che il responsabile era lui stesso, che aveva accettato la carica senza pensare che questo avrebbe potuto infastidire la matrigna Kaikey.

Quindi Rama, insieme alla moglie Sita e al fratellastro Lakshman, si diresse nella foresta, lasciando il regno di Ayodhya in uno stato di profonda depressione.
Addirittura Dasaratha morirà di crepacuore poco tempo dopo, mentre Bharat non si sedette mai sul trono, ma depose ai suoi piedi un paio di vecchi sandali di Rama, in segno di rispetto; lui si fece costruire una capanna vicino al palazzo reale, dalla quale governerà conducendo una vita sostanzialmente ascetica.
I primi 13 anni e mezzo dell’esilio di Rama passarono piuttosto tranquillamente: trovato un posto ideale dove sistemarsi, i tre trascorrevano le giornate a meditare, cacciare, conversare, incontrare saggi ed eremiti, ed uccidere l’occasionale demone.

Qualche mese prima della scadenza dei 14 anni però, il re dei demoni Ravana, istigato dalla sorella Shurpanakha, posò gli occhi su Sita, se ne invaghì e decise quindi di rapirla.
Per fare questo usò un semplice stratagemma: come prima cosa costrinse lo zio Maricha ad assumere le sembianze di un meraviglioso cervo dorato, quindi lo mandò a pascolare nei pressi della capanna di Rama.
Sita, appena vide quel meraviglioso animale, chiese a Rama di catturarlo, quindi questi, nonostante i dubbi del fratello Lakshman, si inoltrò nella foresta.
Dopo pochi minuti, Sita e Lakshman sentirono un grido di aiuto, che sembrava provenire da Rama, così anche Lakshman lasciò Sita e preoccupato si mise alla sua ricerca.
In realtà quel grido era stato un’illusione di Maricha (che Rama aveva appena colpito a morte con una freccia), proprio per permettere a Ravana di approfittare dell’assenza dei fratelli per recarsi nella loro capanna e rapire Sita.

Una volta scoperto l’inganno, Rama e Lakshman si mettono alla ricerca di Sita aiutati da vari personaggi, tra cui Jambavan, il re degli orsi, e soprattutto Hanuman, il re delle scimmie.
Questi, con il suo esercito di primati, inizia a setacciare ovunque finché non raggiunge la punta più meridionale dell’India e scopre che Sita si trova prigioniera del demone Ravana nell’Isola di Lanka.
Per attraversare lo specchio d’acqua che separa Lanka dal continente, Hanuman assunse una forma gigantesca e con un semplice balzo arrivò sull’isola, quindi prese la forma di un piccolo insetto volante ed iniziò a perlustrare la città in cerca di Sita.
Una volta trovata, in un giardino del palazzo reale di Ravana, assunse le forma di un bramino e rivelò a Sita di essere stato mandato da suo marito Rama che si stava preparando per venirla a salvare.

Prima di tornare da Rama a dargli la buona notizia, già che era lì, Hanuman decise di dare una prima lezione a Ravana: riprese le sue sembianze scimmiesche ed iniziò a distruggere gli alberi e le piante del giardino, finché non arrivarono due guardie che lo arrestarono, lo legarono e lo portarono al cospetto di Ravana.
Lì Hanuman, mostrando una sicumera ai limiti della superbia, umilia ed offende Ravana e tesse le lodi di Rama, al punto che il re dei demoni, spazientito, decide di dare fuoco alla sua coda.
Ma non appena la punta della coda di Hanuman iniziò a bruciare, questi assunse di nuovo una forma gigantesca, si liberò dalla corda che l’avvolgeva ed iniziò a saltare sui tetti della città incendiandola completamente.

Tornato da Rama e raccontatagli la vicenda, iniziarono quindi i preparativi per l’assalto a Lanka.
Giunti di fronte all’isola, di nuovo si presentò il problema di attraversare il mare, che venne risolto dagli eserciti di scimmie e orsi, che iniziarono a gettare grandi massi nell’acqua fino a creare un ponte.
Piccola digressione: questo semplice episodio mitologico, oggigiorno è fonte di notevoli controversie legate al cosiddetto Adam’s Bridge, una serie di dune di sabbia sommerse che uniscono l’Isola di Lanka con la terraferma.
A causa di questa particolare conformazione orografica, le navi che devono recarsi da una parte all’altra della penisola indiana, giunti in quest’area non possono continuare a costeggiare il subcontinente, ma sono costrette a compiere una lunga deviazione e passare all’esterno dello Sri Lanka.
Con la fine della guerra civile nell’isola e lo stabilizzarsi dei rapporti politici ed economici con l’India, si è quindi pensato di eliminare almeno in parte l’Adam’s Bridge per permettere il passaggio delle navi, progetto molto semplice ed intelligente ma opposto con forza dalla maggioranza degli indù, purtroppo anche supposti scienziati  e studiosi, che affermano essere i resti del Ram Setu, il ponte costruito da Rama.

Una volta giunti a Lanka scoppia una cruenta guerra che teminerà, in maniera piuttosto prevedibile, con uno scontro tra Rama e Ravana, che chiaramente verrà sconfitto e ucciso.
Molto toccante, nella versione del Ramayana sanscrito del poeta Valmiki, è la morte di Ravana: riconoscendo al demone la sua notevole conoscenza, Rama gli chiese di diventare suo discepolo, cosa che chiaramente Ravana accettò, poco prima di spirare tra le sue braccia.
Conclusa vittoriosamente la campagna militare, non c’era però molto tempo da perdere visto che stavano scadendo i 14 anni di esilio e Bharat aveva già fatto sapere che se Rama non fosse tornato si sarebbe suicidato.
Utilizzando una sorta di carro volante, ovviamente riescono ad arrivare in tempo, la città di Ayodhya esplode di gioia ed iniziano i preparativi per l’incoronazione di Rama.
Purtroppo però il supplizio di Sita non era ancora finito...
Secondo i costumi induisti, avendo Sita trascorso del tempo in casa di un altro uomo, Rama dovette sottoporla alla prova del fuoco, per essere sicuro della sua fedeltà.
Chiaramente Rama sapeva benissimo come stavano le cose, ma fu obbligato per dare il buon esempio ai suoi sudditi, che già vociferavano contro di lui se non l’avesse sottoposta ad alcun test.

Sita senza protestare minimamente entrò quindi nel fuoco, rimanendo illesa grazie alla sua castità (il nome Sita stesso potrebbe significare “fresca”), ma fu piuttosto delusa e lasciò Ayodhya per tornare dalla sua famiglia.