domenica 31 luglio 2016

Le banconote indiane, II parte

Dopo i tagli da 1000, 500 e 100 rupie (http://informazioniindiaenepal.blogspot.it/2016/07/le-banconote-indiane-i-parte.html), veniamo alle banconote di valori minori, sempre in ordine decrescente, da 50, 20, 10, 5, 2 e 1 (seppur le ultime due non vengono più stampate dall’uscita della “serie Gandhi” nel 1996).

La banconota da 50 rupie propone l’enorme palazzo circolare sede del Parlamento Indiano, con tanto di bandiera centrale al vento; artisticamente piacevole, ma il tono sembra eccessivamente patriotico.
Altro piccolo particolare, nonostante l’indiscussa utilità del taglio, la banconota da 50 rupie è una delle più rare e quelle poche che si incontrano sono spesso in pessime condizioni.


La banconota da 20 rupie, solo leggermente meno rara di quella da 50, si distingue per il suo vistoso colore rosso chiaro e per la piacevole raffigurazione di una spiaggia di Kovalam, nel Sud del paese, con tanto di palme a fare da cornice.
Purtroppo però, il colore stona con il contesto marinaro: buona l’idea della banconota rossa, buona l’idea della spiaggia e delle palme, ma messe insieme ne perdono entrambe.

Sempre meglio della marroncina banconota da 10 rupie che, oltre all’anonimo colore, propone una sovrapposizione di immagini con al centro una tigre, ai suoi lati un elefante ed un rinoceronte di profilo, e dietro una strana composizione floreale.
Va apprezzato lo sforzo, ma forse un’immagine.più “pulita” avrebbe reso meglio: inutile paragonare i disegni degli animali di questa banconota indiana, con quelli meravigliosi delle banconote nepalesi (http://informazioniindiaenepal.blogspot.it/2016/02/banconote-nepalesi.html).

La banconota da 5 rupie, di un gradevole verde chiaro, propone invece un piacevole paesaggio agricolo con un trattore in primo piano e un grande sole arancione che albeggia all’orizzonte.
Nella penultima serie, al posto della foto di Gandhi, vi era disegnato il simbolo dell’India, il famoso capitello della Colonna di Ashoka (http://informazioniindiaenepal.blogspot.it/2016/02/limperatore-ashoka.html), che raffigura i quattro leoni schiena contro schiena (quindi se ne vedono solo tre), sopra ad un abaco dove è scolpita la ruota del dharma (etica buddista) a 24 raggi, il simbolo circolare che compare anche al centro della bandiera indiana.

Oltre a queste banconote, esclusi i “moderni” tagli da 1000 e 500 reperibili solo nella “serie Gandhi”, è ancora possibile trovare dei pezzi di serie precedenti, che hanno un carattere decisamente più esotico, tale che, seppur non siamo propriamente dei collezionisti, nell’arco degli anni ne abbiamo conservate alcune di piccolo taglio (10, 5, 2 e 1 rupia), proprio per la loro bellezza ed originalità.
Una delle più esotiche è sicuramente la quart’ultima serie delle banconote da 10 (oggigiorno quasi introvabile sul mercato), dove le varie sfumature di marrone e qualche tocco rosato si integrano perfettamente con le eleganti scritte e le elaborate decorazioni, mentre la raffigurazione del donghi, una tipica imbarcazione a vela locale, gli dona uno splendido tocco che rimanda al passato.

La penultima serie da 5 rupie, prima della “serie Gandhi”, come detto presenta il capitello di Ashoka, con la caratteristica che talvolta il capitello è rosso ed il suo contorno verde, talvolta il contrario, e a giudicare dalle condizioni dei pezzi che possediamo, le prime dovrebbero essere le più datate.

La penultima serie di banconote da 2 rupie, di un gradevole rosso chiaro, è anch’essa piuttosto esotica, grazie ai numerosi ghirigori ed alla riproduzione di una tigre in posizione dominante sulle zampe anteriori e con la fauci spalancate.
Anche quella dell’ultima serie (prima di quella di Gandhi, nella quale, come già accennato, le banconote da 1 e 2 rupie furono eliminate), è molto elaborata, soprattutto sul lato principale, dove viene segnalata la valuta, ricco di fitte decorazioni di colore rosso chiaro e verde.

Infine veniamo alla banconota più esotica e “tenera”, quella da 1 rupia, non solo per l’ormai scarso valore, ma perché rappresenta un’era ormai lontanissima, come traspare chiaramente dalle caratteristiche di queste storiche banconote, ad esempio, le ridottissime dimensioni (6 x 9,5 cm).
Le ultime due serie, di cui possediamo alcuni esemplari, raffigurano anche l’equivalente moneta per cui è possibile sapere l’anno di emissione.
Emblematica è sicuramente una logora e lurida banconota, della penultima serie, spezzata in due ed attaccata con la pece, che riporta la storica data del 1968, e dove non vi è nessun disegno particolare ma semplicemente la cifra 1 e la scritta One Rupee.
Sempre meglio della serie successiva stampata fino al 1996, dove l’esoticità è stata drammaticamente rovinata dal disegno di una piattaforma petrolifera, chiaro simbolo dell’avanzare della modernità.

sabato 30 luglio 2016

Le banconote indiane, I parte

Indian Rupee symbol.svg
Il simbolo della rupia indiana
Uno dei tanti piccoli problemi tipici dell’India è la cronica mancanza di resto per le varie transazioni finanziarie della vita d’ognigiorno.
Nelle grandi città la situazione è leggermente migliore, ma in quelle piccole o più arretrate, senza parlare dei villaggi, il fenomeno è piuttosto grave ed antipatico, visto che, se non si è in possesso di banconote di piccolo taglio, spesso si è costretti a perdere molto tempo e sprecare preziose energie per andare in giro a cercare qualche buonanima che abbia denaro da cambiare.
Oltre a questo bisogna anche stare molto attenti alle condizioni delle banconote indiane che possono essere davvero molto usurate ed il regolamento sulla loro circolazione è piuttosto severo.
Ad esempio, in presenza di tagli, buchi e pezzi mancanti, la maggior parte delle persone si rifiutano di accettarle, come anche le banconote sulle quali è stato applicato dello scotch, anche pochissimo

Ad ogni modo, un’attenta osservazione delle banconote indiane può offrire numerosi spunti culturali, sociali ed artistici.
Purtroppo oggigiorno le banconote delle serie più vecchie sono sempre più rare poiché stampate prima del 1996, anno in cui iniziarono ad essere stampare le banconote attuali della cosiddetta “serie Gandhi”.
Serie Gandhi che recentemente ha subito qualche piccolo ma interessante cambiamento grazie ad una piccola ma notevole novità del 2012, cioè l’introduzione di un simbolo ufficiale a rappresentare la rupia indiana, che consiste in un ingegnoso segno che può sembrare sia la R dell’alfabeto devanagari, che la R dell’alfabeto latino, con l’aggiunta di un trattino orizzontale come quello della L del pound o della Y dello yen.
Secondo l’interpretazione del fantasioso ideatore, le due linee orizzontali in alto con il piccolo spazio in mezzo rappresentano il tricolore della bandiera indiana, nonché il simbolo dell’uguaglianza, a significare il desiderio della nazione di ridurre la disparità economica.
Questa novità ha quindi anche un valore collezionistico-numismatico in quanto le monete stampate dal 2011 e le banconote successive al Gennaio 2012, portano il nuovo simbolo.

Entrando nei dettagli, la prima interessante e peculiare caratteristica, comune a tutte le banconote indiane, è quella di avere un rettangolo riservato alla scritta del valore nei caratteri di quasi tutte le 22 lingue riconosciute ufficialmente dall’Unione Indiana, dapprima erano 13, più recentemente salite a 15.
Gli appassionati di linguistica, ma anche i semplici curiosi, non potranno fare a meno di notare le interessanti caratteristiche delle lingue indoariane del nord: come hindi, sanscrito, nepali, marathi, gujarati, punjabi, bengali, assamese e oriya; oppure quelle dravide del sud: telugu, tamil, kannada, malayam; o ancora, i caratteri arabi di urdu e kashmiri.
L’inglese non appare in questo spazio, ma viene utilizzato, insieme all’hindi, per tutte le diciture che compaiono su banconote e monete (l’hindi e l’inglese sono infatti le due lingue ufficiali del governo indiano).

Come già accennato, le banconote che vengono stampate dal 1996, nelle denominazioni da 1000, 500, 100, 50, 20, 10 e 5 rupie, fanno parte della cosiddetta “serie Gandhi” e riportano, a destra del lato principale, il volto sorridente del “Padre della Nazione”.
Al centro vi è il numero del taglio, con sotto la scritta in hindi, e sullo sfondo una specie di disegno floreale stilizzato, mentre la zona sinistra rimane bianca e in controluce vi appare di nuovo il viso di Gandhi e la cifra della banconota.
Pur riconoscendo l’importanza del ruolo di Gandhi nella formazione dell’India moderna, è però evidente come questa serie di banconote, sul lato principale, risulti piuttosto monotona, seppur i pezzi più importanti da 1000 e 500 rupie siano abbellite dalla cifra di uno sgargiante verde chiaro metallizzato.
Sull’altro lato invece si trovano varie raffigurazioni decisamente più interessanti.

Sulla banconota da 1000 rupie, con colori predominanti marrone e rosso, vi è una composizione di simboli che dovrebbero rappresentare l’economia dell’India: una grande trebbiatrice, alcune spighe di grano, una piattaforma petrolifera, una colata di acciaio, un satellite e una donna davanti ad un computer.
Le notevoli dimensioni ed anche l’alto valore (circa 13-14 di euro), ne fanno una banconota “importante” e piuttosto rara. E visti i cronici problemi di resto dell’India, pressoché inutilizzabile nella vita di tutti i giorni.

La banconota da 500 rupie, dal gradevole colore giallo-dorato, raffigura un’interessante scultura dedicata a Gandhi, collocata in un trafficato incrocio di Delhi, e rappresenta la nota “marcia del sale”, seppur nella banconota, a causa delle ridotte dimensioni, non sia possibile notare molti particolari.

La diffusissima banconota da 100 rupie, seppur in un anonimo azzurro-grigio, è forse quella artisticamente più riuscita, con la raffigurazione di cime innevate di non ben precisati monti himalayani, con tanto di nuvole sullo sfondo, ben incastonate in due pannelli decorativi.

(segue seconda parte con i tagli inferiori e qualche dettaglio sulle serie più vecchie

venerdì 29 luglio 2016

Le antiche grotte del Mustang

Dopo aver dato uno sguardo generale alla storia del Mustang ed ai suoi recenti piccoli-grandi sviluppi socio-politici (http://informazioniindiaenepal.blogspot.it/2016/07/sguardo-generale-e-contemporaneo-alla.html), nel nostro personale archivio abbiamo trovato alcuni articoli di circa 5-6 anni fa, su un altro fenomeno molto particolare, che riguarda questo impervio territorio nepalese d’alta montagna, cioè la scoperta di alcune grotte che contengono scheletri umani risalenti a circa il 450 a.C..
La bandiera del Mustang
Oltre a questo, cercando notizie più recenti sul web riguardo l’argomento, abbiamo appreso anche che, nel 2007, un pastore della zona scoprì circa una dozzina di grotte contenenti antichi reperti e dipinti che ritraggono la vita del Buddha, databili intorno al XIII secolo, ed in tipico stile newari, l’etnia originaria della Valle di Kathmandu.
Seppur si tratti di due fenomeni ben distinti, anche quest’ultima scoperta dimostra la ricchezza culturale di questa remota zona d’alta montagna.

Il ritrovamento degli antichi scheletri è avvenuto durante delle ricerche condotte tra il 1992 e il 1997 da una troupe tedesca, ma i risultati dei lunghi studi sono stati resi pubblici solo di recente.
La peculiarità di questa scoperta si deve alla notevole antichità dei reperti e all’ottima conservazione di alcuni (in particolare una donna che protegge il proprio figlio) che sembra essere piuttosto rara per il tipo di ambiente nel quale sono stati rinvenuti.

Riportiamo di seguito una libera tradizione di un interessante articolo apparso sul The Kathmandu Post del 5 Gennaio 2012 “I responsabili degli scavi nelle grotte del Mustang guardano al quadro completo”.
Con la scoperta di una serie di antiche grotte costruite dall’uomo tra le alte montagne di Nepal, India, Pakistan e altri paesi, i ricercatori che stanno lavorando alla “civiltà delle caverne” del Mustang, si stanno ora chiedendo se è esistita una civiltà indipendente sul lato indiano della catena himalayana.
Gli esperti affermano che grotte costruite dall’uomo, simili a quelle del Mustang, sono state scoperte in molte altre zone lungo i circa 3.000 chilometri dell’Himalaya: in India, Pakistan, Afghanistan, Nepal, Bhutan e nella regione autonoma cinese del Tibet.
Secondo Mohan Singh Lama, ricercatore del Dipartimento di Archeologia di Kathmandu, le maschere scoperte nei complessi di grotte del Mustang durante gli scavi del 2011 sono simili a quelle trovate nelle grotte del Ladakh nell’India nord-occidentale, e nel villaggio di Taulin nella provincia di Nari in Tibet, entrambi facenti parte della catena himalayana, e sembrano siano state create con lo stesso materiale.
Sempre secondo il ricercatore nepalese Lama, le maschere e le icone religiose ricordano le divinità della religione Bon, diffusa sull’Himalaya prima del buddismo.
“La scoperta di gruppi di grotte simili in varie parti della catena himalayana suggerisce che nell’area potrebbe aver vissuto, migliaia di anni fa, una civiltà indipendente” afferma Lama, aggiungendo che le nuove scoperte mettono in dubbio che tutti gli insediamenti umani del subcontinente indiano siano stati influenzati o dalla civiltà dell’Indo, o da quella cinese.
Gli studiosi infatti affermano che “Se quella himalayana emergesse come una civiltà indipendente, sarebbe la terza, e forse la più influente sugli insediamenti umani nelle regioni montagnose dell’Asia. Siccome ne’ la civiltà della Valle dell’Indo, ne’ quella cinese svilupparono sistemi di grotte, questi insediamenti non possono essere stati influenzati dalle due civiltà vicine”.
Come le grotte del Mustang, anche quelle scoperte in Ladakh, Kashmir e negli altipiani di Tibet e Cina, furono costruite per tre ragioni: funebri, religiose e di accomodamento.
Sempre secondo Lama, alcune di queste grotte sono molto sofisticate, con strutture che comprendono stanze di varie misure, gabinetti e perfino una rudimentale fossa biologica, e ciò suggerisce che al loro interno vivessero molte persone probabilmente in famiglie allargate.
Un team di archeologi e storici del Dipartimento di Archeologia di Kathmandu e del National Geographic Channel ha scoperto in queste grotte anche migliaia di iscrizioni legate alla tradizione Bon, di cui le più importanti sono relativi ai riti funebri.
Infatti anche i cadaveri venivano seppelliti nelle grotte, insieme a gioielli, monete e utensili usati dai defunti quando erano in vita; la stessa cultura è stata incontrata in Ladakh e nella provincia di Nari in Tibet.
“Seppelliti insieme ai cadaveri abbiamo anche trovato chicchi di riso e miglio, oltre ad altri oggetti.” afferma Lama “Ciò suggerisce che anche l'agricoltura era presente nell’area.”

“Le popolazioni che svilupparono il loro unico stile di vita in queste zone sembra fossero nomadi che viaggiavano lungo la catena himalayana per commercio.” prosegue Lama “Grazie alle condizioni di vita relativamente favorevoli nelle aree del Mustang, del Ladakh e del Tibet iniziarono a stabilirsi permanentemente, abbandonando la loro vita nomade.”

giovedì 28 luglio 2016

Sguardo generale e contemporaneo alla regione del Mustang

Kali-gandaki.jpgOggigiorno con il nome Mustang viene indicato uno dei quattro distretti che formano la Zona del Dhaulagiri, una remota area di montagna del Nepal centro-settentrionale, al confine con il Tibet.
Circa i due terzi della parte nord del distretto vengono chiamati Upper Mustang e coincidono con i territori che fino al non lontano 2008 facevano parte del Regno del Mustang (detto localmente Kingdom of Lo), mentre la parte meridionale si chiama Thak, dal nome della diffusa etnia Thakali, originaria di questa zona.
Storicamente, il Regno del Mustang, fondato nel lontano 1380, fu in seguito un regno vassallo di religione buddista all’interno del più grande Regno del Nepal, ma con la caduta della monarchia nepalese nell’Aprile 2008 e la successiva instaurazione della repubblica, il Mustang ha perso la sua indipendenza (in maniera simile a quello accaduto circa 60 anni fa in India con la proclamazione della Repubblica Indiana e la fine delle dinastie di Maharajà, Sultani e Nababbi).

Data la posizione geografica, unita ad una stretta politica protettiva (il permesso per visitare queste zone costa ben 50 dollari al giorno), non sono molte le informazioni che trapelano riguardo questa regione, ma alcune interessanti notizie apparse alcuni anni fa sui giornali nepalesi ci hanno permesso di dare uno sguardo al suo interno leggermente più approfondito.
In particolare sono state due le questioni che hanno riguardato il Mustang: una di carattere interno, sugli sviluppi di complicati intrighi all’interno della famiglia reale, che tratteremo qui di seguito; la seconda è invece d’importanza antropologica internazionale e si riferisce alla scoperta di numerosi scheletri (circa una sessantina) molto antichi, ritrovati in alcune grotte della regione, e delle quali parleremo in un successivo post.

Come riportato in un esteso ed interessante articolo del “The Kathmandu Post” del 24 Dicembre 2011, intitolato “Unrest in the walled city”, Agitazione nella città murata (facendo riferimento alla capitale del Mustang, Lo Manthang, unica città nepalese protetta da mura), gli intrighi di palazzo, per altro molto comuni in Nepal, sono cominciati molti anni fa con la scelta del successore dell’attuale Re, Jhigmi Palbar Bista, e sono stati creati dalla signora Diki Dolkar, moglie del fratello maggiore del Re, che morì prima di poter essere incoronato.
Siccome Re Jhigmi Palbar Bista non ha eredi maschi, e non avendo scelto un successore, la signora Dolkar propose che venisse quindi nominato il figlio di sua sorella.
Il Mustang però si regola secondo una società patriarcale ed il re rifiutò la proposta preparandosi invece ad annunciare come successore il figlio del suo secondo fratello (il quale aveva abbandonato ogni diritto ereditario personale dedicandosi ad una vita religiosa), che secondo la legge locale era il legittimo erede.
La signora Dolkar allora, elaborò un astutissimo piano: nel 1992 il nipote che lei voleva eletto re, organizzò il proprio matrimonio a Kathmandu e in vista delle celebrazioni, la signora chiese al re di dargli i suoi vestiti ufficiali che lei avrebbe preparato per la grande cerimonia.
Re Jhigmi Palbar Bista, senza sospettare nulla, acconsentì, ma la maliarda aveva in mente altri piani: fece infatti indossare i vestiti dal nipote, e dopo aver fatto scattare alcune fotografie, le inviò al Re del Nepal Birendra, affermando che la successione era stata definita e la persona ritratta era il nuovo Re del Mustang.
Purtroppo per lei però, per rendere effettiva la successione, era necessaria l’approvazione del presente re, cioè Jhigmi Palbar Bista, il quale invece, appena venne a sapere del raggiro della signora Dolkar, decretò immediatamente successore suo nipote.
Vedendo il proprio piano fallire, la signora Dolkar decise quindi di creare altri problemi recandosi presso la Corte Suprema nepalese per chiedere la divisione del Palazzo Reale come bene di famiglia, e qui sono nati altri problemi per il Mustang.

Intanto bisogna notare che questo è stato il primo procedimento penale nella storia del Regno, in quanto fino ad allora le questioni erano sempre state risolte localmente tramite l’imparziale giudizio del re.
I circa 15.000 abitanti del Mustang sono rimasti quindi scandalizzati nell’apprendere la notizia che addirittura il loro amato re era la persona affetta dall’ordine della Corte.
Infatti i giudici hanno dato ragione alla Signora Dolkar, stabilendo che il Palazzo Reale (chiamato Lomangthang) venga diviso tra i membri della famiglia, in quanto proprietà privata.
Questa decisione viene contestata per numerosi motivi: innanzitutto, in realtà, la Signora Dolkar già nel 1980, prima di stabilirsi a Kathmandu, aveva ottenuto la divisione dei beni, comprendenti terreni, gioielli e utensili, che lei vendette; e riguardo a questo esistono documenti per provarlo.
Come ulteriore aggravante, dal punto di vista dei protettivi abitanti del Mustang, fallito il tentativo di far eleggere il proprio nipote, la Signora Dolkar emigrò negli Stati Uniti insieme alla famiglia, rinunciando così alla cittadinanza nepalese e dopo la sua morte, la causa è stata portata avanti dalla figlia, considerata a tutti gli effetti un’estranea.

Ma il problema forse più grande che deriverebbe da un’eventuale divisione del Palazzo Reale di Lo Manthang è dovuto all’imminente introduzione dello stesso nella lista dei monumenti protetti dall’UNESCO, che però ha fatto subito sapere che una divisione del Palazzo e degli oggetti al suo interno farebbe rescindere automaticamente la candidatura.

Al momento all’anziano (79 anni) e malfermo ex-Re Jhigmi Palbar Bista non resta che organizzare una delegazione da inviare a Kathmandu per chiedere alla Corte Suprema una revisione della sentenza, invitando i giudici a recarsi in Mustang a raccogliere tutte le evidenze.

Oggigiorno il Mustang sembra essere nuovamente sparito dai radar dei media locali e solo grazie ad una specifica ricerca internet siamo riusciti a trovare un paio d’articoli in qualche modo legati alle questioni sopracitate.

Riguardo alle intricate vicende di palazzo e della dinastia, l’unica breve notizia, dell’Aprile del 2016, si riferiva alle cattive condizioni di salute dell’ormai 84enne ex-Re Jhigmi Palbar Bista, che da tempo risiede stabilmente a Kathmandu presso l’area sacra buddista di Bodhnath (http://informazioniindiaenepal.blogspot.it/2016/07/lo-stupa-di-bodhnath.html).
Un innalzamento della pressione e la presenza di acido urico nel sangue sono state le cause del recente ricovero dal quale probabilmente si è ripreso visto che ad oggi non sono stati ancora divulgate notizie su un suo eventuale decesso.

La seconda recente notizia sul Mustang trattava invece dei problemi che sembra stia già creando una eventuale iscrizione dell’antica capitale Lo Manthang tra i siti protetti dall’UNESCO.
Seppur la candidatura sia al momento ancora in fase di studio, la popolazione locale è giustamente preoccupata di dover rinunciare ad alcune delle già scarse risorse finanziarie della zona.

Per fortuna sembra che la questione sia stata sollevata abbastanza presto e soprattutto che i responsabili UNESCO siano perfettamente consci di tenere in considerazione anche lo sviluppo locale.

mercoledì 27 luglio 2016

Luoghi sacri buddisti, IV parte: Kushinagar

Letteralmente la Città (nagar) della Felicità (kushi), Kushinagar è un paesino indiano poco noto a livello internazionale, ma è piuttosto famoso in Asia, soprattutto per i seguaci del buddismo, in quanto fu qui che il Buddha lasciò le proprie spoglie mortali, o per dirla come i buddisti, raggiunse il nirvana.
Oggigiorno si possono ammirare alcune fondamenta di antichi edifici, i punti precisi in cui il Buddha morì e fu cremato, nonché i moderni templi e monasteri che i paesi a maggioranza o forte influenza buddista hanno costruito secondo i propri stili e tradizioni.

Questa intelligente iniziativa venne avviata ormai alcune decine di anni fa per cercare di promuovere, nei luoghi storici del Buddha, interessanti ma situati in aree molto arretrate, una qualche forma di turismo religioso, ma non sta purtroppo raggiungendo gli effetti sperati, a causa di questioni in gran parte geografiche.
Kushinagar, in particolare, dei 4 luoghi principali legati alla vita del Buddha, è il più sperduto, o se non altro il più lontano da un qualsivoglia itinerario turistico e gode quindi di una limitatissima attenzione.
Grazie all’indubbia importanza storica e religiosa del luogo, a Kushinagar qualcosa di interessante da vedere ci sarebbe, ma l’area attorno è piuttosto depressa, il paesino sorto nei pressi del tempio principale è decisamente poco attraente e le strutture turistiche, come alberghi e ristoranti, sono ridotte al minimo indispensabile.
Unica nota positiva, la superstrada di circa 50 chilometri che collega Kushinagar alla più vicina grande città, l’anonima Gorakhpur, è in ottime condizioni e particolarmente scorrevole, almeno secondo gli standard indiani.

Un altro piccolo problema “logistico”, che non permette a Kushinagar di creare una qualche particolare atmosfera, è che le principali attrazioni, nonché gli alberghi, sono poco comodamente sparpagliati lungo la strada e la campagna circostante.
E purtroppo il luogo, come accade fin troppo spesso in India, è sprovvisto della più basilare segnaletica, non c’è quasi nessun tipo di indicazione e quei pochi cartelli esplicativi sono a dir poco approssimativi, quando non completamente inutili.
Da decenni tutti gli apparati turistici statali, sia quello centrale che quelli locali, dicono di fare grandi sforzi per attirare visitatori, ma non fanno neppure l’essenziale.

L’area sacra principale è racchiusa dentro un ampio giardino ben tenuto, per accedere al quale non bisogna neppure pagare alcun biglietto, ma firmare un grande registro semi-preistorico.
Oltre agli scavi in mattoni delle fondamenta di antichi monasteri sparsi qua e là, al centro del giardino si trovano due grandi costruzioni color crema.
La prima, a forma grossomodo tubulare, è il Parinirvana Temple ed ospita una grande e graziosa statua del Buddha dormiente, sdraiato su un fianco.
La seconda struttura invece è un classico stupa buddista costruito esattamente dove il Buddha morì, mentre il cumulo di mattoni situato alle sue spalle dovrebbe indicare il luogo dove venne cremato.

Uscendo dal giardino e girando a destra, dopo qualche decina di metri, nascosto dietro ad orribili negozi-baracche, si nota il pinnacolo dorato del Tempio Birmano, un appariscente stupa leggermente “appiattito”, nello stile della Birmania, sui quattro lati del quale si trovano delle nicchie che ospitano colorate statue del Buddha.
Molto curiose sono anche delle sculture, disposte tutt’attorno al tempio, che rappresentano dei monaci, vestiti con una tonaca scura, in fila per chiedere l’elemosina o per porgere offerte al Buddha (confessiamo di non conoscere molto a fondo i significati dell’iconografia buddista).

Poco oltre si trova il Tempio Cinese, un edificio a due piani in classico stile a pagoda piacevolmente elaborato e dotato di due stanze per le preghiere.
Nella stanza principale al primo piano trova posto un altare dominato da una grande scultura dorata del Buddha con ben 12 braccia ed affiancato da due guerrieri vestiti in tipco stile cinese (e dei quali colpevolmente non conosciamo né i nomi né la storia, ma sicuramente non erano lì a caso).
Davanti all’entrata della stanza al piano superiore, sopra ad un piedistallo tondeggiante è collocata una statua del Buddha classico cinese, grassoccio, pelato e sorridente, mentre il sobrio altare all’interno ospita tre statue del Buddha in meditazione, in diverse posizioni.

Tornando sulla strada principale ed attraversato il paesino, si prosegue verso la barbagia indiana finché non si incontra il monastero tibetano, piuttosto anonimo all’esterno e dotato di due stanze, una per la preghiera ed una per le tipiche offerte di burro chiarificato.

Poco più avanti, dall’altra parte della strada, si nota una grande cupola di mattoni, che dovrebbe essere uno stupa, anche abbastanza suggestivo, del quale però non sappiamo il nome poiché durante la nostra visita era chiuso ed il cartellone situato lì davanti era cancellato.
Al contrario, proseguendo la strada principale, superati 2-3 alberghi particolarmente esosi, si giunge nella ben segnalata area del tempio thailandese, probabilmente il più bello e ben tenuto poiché gode del patrocinio della famiglia reale Thai.
Il tempio si trova immerso in giardino che ospita una rigogliosa vegetazione ed è costituito da alcune graziose costruzioni dagli immacolati muri bianchi e dai tipici tetti spioventi, con tegole d’un piacevolissimo blu pastello; anche le stanze interne sono riccamente decorate.
Dello stesso stile architettonico sono anche 3-4 costruzioni legate al tempio, che rendono questo breve tratto di strada particolarmente caratteristico.

Superata la zona del monastero thailandese, sul lato destro della strada, si trova una grande lastra di marmo che indica la direzione del “Buddha’s relics distribution site” (letteralmente: sito della distribuzione delle reliquie del Buddha), e sulla quale sono incise le ultime parole del Buddha: tutte le cose condizionate sono impermanenti, sforzati con diligenza (per la tua liberazione).

Il sito è composto da un giardino, protetto da un muro, che ospita un grande albero ai piedi del quale si trova un piccolo santuario.

martedì 26 luglio 2016

Luoghi sacri buddisti, III parte: Sarnath

Sarnath 1858.jpg
Il Dhammaka Stupa in un disegno del 1858
Sarnath, il luogo dove il Buddha promulgò il primo sermone dopo l’illuminazione, si trova a circa 20 chilometri dalla sacra e turistica città di Varanasi, quindi gode di un afflusso di visitatori piuttosto costante.
Purtroppo questo però non è quasi di nessun aiuto per l’economia del posto, in quanto Sarnath rappresenta una gita da Varanasi di mezza giornata, durante la quale, i pur danarosi turisti, al massimo comprano qualche bottiglia d’acqua o due cianfrusaglie nei negozietti e nelle bancarelle d’artigianato.

Il luogo sacro principale è il Parco dei Cervi, dove ancora oggi ne viene allevato un piccolo branco, che è possibile nutrire, con dei pezzettini di verdure che delle anziane signore vendono per poche rupie.
(Questa abitudine dei buddisti di rinchiudere gli animali, soprattutto uccelli e pesci, ma spesso anche mammiferi, per poi nutrirli o liberarli per mostrare la grande compassione del Buddha, andrebbe comunque scoraggiata.)
In mezzo al curato giardino nei pressi dell’entrata principale si trova il grazioso tempio della Mahabodhi Society (un’importante associazione internazionale che si occupa del buddismo in India), di dimensioni modeste ma ben proporzionate e riccamente decorato.
Non molto lontano, in un’area appartata, si trovano alcune sculture piuttosto recenti che rappresentano il Buddha che impartisce il primo sermone ai suoi primi 5 storici discepoli; la cosa più interessante, per certi versi sorprendente, sono in realtà i cartelli esplicativi, costituiti da grandi lastre di pietra, dove è scolpito il primo celebre sermone del Buddha in molte lingue asiatiche, oltre all’inglese, creando un particolare effetto linguistico-artistico.

Poco lontano dall’ingresso del Parco dei Cervi, sulla strada verso l’area archeologica, si incontra un raro tempio Jainista, grazie al fatto che a Sarnath nacque Shreyansanatha, 11esimo tirthankara (profeta) della religione Jaina.
In realtà questo tempio, contrariamente al classico stile jainista noto per le decorazioni, esternamente non è molto particolare, ma si trova dentro un piccolo giardino ben curato ed ospita un altare piuttosto semplice dominato da una gradevole statua di Shreyansanatha; interessanti sono anche i colorati disegni che adornano i muri della stanza.

L’area archeologia è costituita da un grande giardino molto ben tenuto, dominato dall’imponente mole del Dhammaka Stupa.
Costruito intorno al V secolo d.C. per sostituire una più piccola e antica costruzione fatta erigere dall’imperatore Ashoka (http://informazioniindiaenepal.blogspot.it/2016/02/limperatore-ashoka.html) nel III-II secolo a.C., pare indichi il punto esatto dove il Buddha promulgò il primo sermone.
Al giorno d’oggi purtroppo sono sparite quasi tutte le decorazioni esterne, quindi si presenta come un grande cilindro a punta in solidi mattoni, alto circa 43 metri e largo 28.
Nel parco che ospita il Dhammaka Stupa si trovano numerosi resti in mattoni di antichissimi templi e monasteri, in uno dei quali potrebbero essere stati raccolti in passato alcuni dei resti mortali del Buddha, seppur il punto esatto non sia stato ancora rintracciato.

Sempre nei pressi del grande Dhammaka Stupa, sorgeva una delle famose colonne di Ashoka, rinvenuta nei primi anni del ‘900 rotta in più pezzi, ma della quale si è salvato quasi intatto il meraviglioso capitello che oggi rappresenta il simbolo ufficiale dell’India.
La scultura raffigura 4 leoni appoggiati schiena contro schiena, sotto ai quali scorre una fascia dove sono rappresentati un elefante, un cavallo, un toro ed un leone, intervallati da piccole ruote del dharma (etica, morale) a 24 raggi, in India chiamate anche ruote di Ashoka.
Probabilmente una di queste ruote era scolpita anche sopra alla testa dei leoni del capitello, ma purtroppo ne erano rimasti solo pochi frammenti rotti nei paraggi.
Infine, la base della scultura è composta da un grande ed elegante fiore di loto rovesciato.

Per proteggere quest’opera ed altri reperti rinvenuti in zona, già nel 1905 vennero inziati i lavori di costruzione di un piccolo museo, completato nel 1910 e quindi uno dei primi musei in situ dell’India, l’entrata del quale si trova infatti non molto lontano dall’accesso al parco storico.
Nonostante le modeste dimensioni, la visita a questo museo è assolutamente imprescindibile per poter ammirare da vicino appunto il meraviglioso capitello di Ashoka, che fa bella mostra di sé in mezzo alla stanza principale.
Ai lati si aprono due corridoi simmetrici a forma di L, fiancheggiati da pregevoli sculture, datate dal III secolo a.C. fino al XIII d.C., che adornavano gli antichi edifici più importanti dell’area; le più datate sono di ispirazione buddista mentre le più recenti rappresentano divinità indù, secondo la successione storico-cronologica delle due religioni in questa parte settentrionale del subcontinente indiano.

Il Chaukandi Stupa, situato sempre nelle vicinanze, proseguendo oltre il museo, venne costruito dalla dinastia Gupta intorno al IV-VI secolo d.C. per commemorare il luogo dove il Buddha incontrò i suoi 5 discepoli.
Come  avvenuto in altri casi, originariamente lo stupa venne sviluppato da un cumulo funerario e serviva come protezione per alcune reliquie del Buddha.
Successivamente, intorno alla metà del XVI secolo, sulla cima dello stupa venne aggiunta una piccola torre ottagonale in mattoni in stile moghul, per commemorare la visita dell’imperatore Humayun.

Infine, come succede anche negli altri 3 luoghi sacri più importanti per la vita del Buddha (Lumbini, Bodhgaya e Kushinagar), Sarnath ospita numerosi templi e monasteri costruiti nelle ultime decine d’anni dai paesi a maggioranza o forte influenza buddista.

Tra i più originali si segnalano quello thailandese, giapponese, tibetano, birmano e cinese.

lunedì 25 luglio 2016

Luoghi sacri buddisti, II parte: Bodhgaya

Mahabodhi temple.JPGDopo Lumbini, luogo di nascita del Buddha, situato in Nepal pochi chilometri oltre il confine con l’India, la seconda località legata alla vita del Buddha è Bodhgaya dove, seduto a meditare sotto un albero di pipal, raggiunse l’illuminazione.
Grazie alla notevole importanza religiosa ed altri favorevoli fattori, Bodhgaya è uno dei luoghi turistici più visitati ed apprezzati nel nord dell’India.
Intanto è aiutata dalla posizione geografica, a circa 200 chilometri da Varanasi e sulla strada tra questa e Calcutta (distante circa 500 km), che fa di Bodhgaya anche una comoda tappa per interrompere il lungo viaggio tra queste due città.
Secondo, essendo il luogo dove il Buddha si illuminò, è da tempo riverito come il più importante per i buddisti dal punto di vista spirituale e sono presenti numerosi istituti religiosi di vario tipo.
Il terzo motivo per cui Bodhgaya è piuttosto frequentata ed attiva, è che nei mesi invernali da Gennaio a Marzo, per sfuggire al freddo intenso del suo acquartieramento sui monti indiani, il Dalai Lama trascorre qui un po’ di tempo, cogliendo anche l’occasione di organizzare degli apprezzatissimi discorsi pubblici che attirano fedeli buddisti da tutto il mondo.
Quarto ed ultimo motivo del successo turistico di Bodhgaya è lo stupendo Tempio Mahabodhi e l’affascinante zona sacra sviluppatasi ai suoi piedi.

Costruito intorno al V-VI sec. d.C. sul luogo dove si trovava un piccolo santuario edificato nel III sec. a.C. dall’imperatore Ashoka, subì numerosi saccheggi e distruzioni da parte dei mussulmani, e cadde in rovina (anche a causa della decadenza del buddismo in India), finché non venne riportato alla luce da parte degli inglesi verso la metà del 1800 e definitivamente ristrutturato secondo le forme originali negli anni ’50.
Con una forma piramidale piuttosto slanciata e ricoperto di sculture, domina la zona sacra, costituita da un giardino quadrato pieno di santuari e luoghi di preghiera attivamente frequentati.

Il luogo più importante e riverito è sicuramente il punto preciso dove il Buddha si sedette in meditazione, oggi rappresentato da un piccolo trono protetto da un baldacchino, sotto ad un grande albero di fico bengalese.
L’albero presente attualmente è un discendente di quello originale, che fu più volte distrutto ed abbandonato, ed è stato ripiantato da un seme proveniente dal sud dell’India, che a sua volta era stato piantato da un ramo dell’originale, portato lì nel II-III secolo a.C. dai primi “missionari” buddisti.
Caratteristica particolare che aiuta a creare una certa atmosfera di raccoglimento, il giardino si trova qualche metro sotto il livello del terreno ed è circondato da un’ampia passerella situata sopra alle scalinate per accedervi, ricordando un po’ la struttura di una piccola arena.
Questo oltretutto permette anche ai semplici turisti di apprezzare il luogo passeggiando lungo la passerella senza intralciare le attività dei religiosi, che in quest’area sono particolarmente indaffarati con i loro rituali.

Oltre al Mahabodhi Temple, essendo Bodhgaya il luogo sacro buddista più importante, sono presenti templi e monasteri di tutti i paesi con forte presenza buddista e trovandosi spesso gli uni accanto agli altri è davvero semplice ed interessante poter confrontare i vari stili.
In particolare, poco lontano dal tempio di Mahabodhi, si trova una grande area, leggermente scostata dalla strada principale, dove, oltre ad alcuni alberghi discreti, si trovano: il tempio ed il monastero thailandesi, il monastero bhutanese, un tempio tibetano, due templi giapponesi, un monastero tibetano, nonché una grande statua del Buddha seduto in meditazione alta circa 25 metri.
Molto visitato è anche il coloratissimo tempio-monastero cinese, situato proprio sulla via principale.

Grazie alla presenza permamente di un’attiva comunità tibetana, il centro di Bodhgaya ospita anche colorati negozietti e bancarelle di articoli religiosi, artigianato, gioielli, vestiti, creando un’atmosfera particolarmente vivace.
Interessanti sono anche i ristorantini tipici tibetani che sorgono in una zona un po’ degradata e sono costituiti da grandi tende di plastica, quindi esteticamente sono poco invitanti, ma offrono pasti caldi piuttosto originali per poche rupie.

Oltre a questi, nei numerosi alberghi di varia categoria, Bodhgaya propone una discreta scelta in ambito culinario, anche considerando il fatto che ci si trova in una delle regioni dell’India più povere ed arretrate.

domenica 24 luglio 2016

Luoghi sacri buddisti, I parte: introduzione e Lumbini

La pietra che indica il punto preciso in cui nacque il Buddha
Sebbene oggigiorno il buddismo sia praticato solo da circa l’1% della popolazione indiana, la maggior parte dei luoghi legati alla vita del Buddha si trovano in India.
Ad esempio, delle quattro località sacre più importanti della sua vita, ben tre si trovano in territorio indiano ed una in Nepal, solo pochi chilometri al di là del confine indo-nepalese.
Oltre al retaggio storico con il Buddha stesso, originariamente un principe indù, bisogna aggiungere che il Dalai Lama, maggior leader spirituale buddista in esilio dal Tibet, vive nella cittadina indiana montana di Dharamsala, qualche centinaio di chilometri a nord della capitale Delhi.

Una minima conoscenza dei quattro luoghi più importanti della vita del Buddha può essere utile anche per riconoscerli nell’iconografia buddista, che seppur alquanto diversa di paese in paese, concentra su questi quattro posti la propria attenzione.
Numerosi riferimenti si possono notare chiaramente in India e Nepal, ma sono presenti anche in altri paesi con forte influenza buddista come, ad esempio, la Thailandia ed il Laos.
In ordine cronologico: il primo è Lumbini, situato nella desolata campagna gangetica a sud del Nepal vicino al confine con l’India, e si tratta del luogo dove il Buddha nacque; il secondo è Bodhgaya, nello stato indiano del Bihar, dove il Buddha ottenne l’illuminazione; il terzo è Sarnath, piccolo paese di campagna a circa 20 chilometri dalla sacra città indiana di Varanasi, dove il Buddha tenne il suo primo sermone; infine, il quarto luogo più importante della vita del Buddha è chiaramente dove è morto, o, più religiosamente, dove ottenne il nirvana, cioè Kushinagar, ameno paesino della povera campagna dello stato indiano del Bihar.

Lumbini è il luogo di nascita del principe indù Siddharta Gautam e si trova in Nepal, a pochi chilometri dal confine con l’India.
Secondo la leggenda, Maya Devi, la madre del Buddha, stava facendo il bagno in una vasca quando venne colta dalle doglie; uscì dall’acqua, fece sette passi, si appoggiò al ramo di un albero e partorì.
Nell’iconografia buddista questo episodio viene raffigurato con una donna che si tiene ad un albero, oppure con il Buddha seduto in meditazione vicino a sette pietre messe in fila; talvolta anche la presenza di una vasca indica che l’episodio raffigurato sia appunto la nascita del Buddha.
Sebbene nei dintorni si trovino anche altri luoghi importanti, come Kapilavastu, dove il Buddha fu cresciuto ed educato, oggigiorno non rimane molto a testimonianza di questi eventi.
Da anni il governo nepalese sta provando a lanciare turisticamente la zona, ma esistono numerosi ostacoli, non ultimo il fatto che Lumbini sia geograficamente in posizione scomoda, al di fuori dei maggiori circuiti turistici nepalesi.
I recenti sviluppi politici del paese che hanno portato, se non proprio stabilità, almeno pace, potrebbero aiutare in futuro a migliorare la situazione ed il fatto che il Capo Supremo dei maoisti, Dahal Prachand, sia stato eletto come presidente del comitato per lo sviluppo di Lumbini, dimostra perlomeno un certo interesse.

Al momento però il problema più grave, forse insormontabile, è la pietosa condizione delle due strade principali che collegano questa zona con i centri turistici di Pokhara e Kathmandu.
Dobbiamo comunque notare che negli ultimi anni, presso il posto di confine indo-nepalese di Sunauli (porta d’accesso per Lumbini), incontriamo un numero sempre crescente di turisti del sud-est asiatico, soprattutto thailandesi e vietnamiti, i quali, visitando i luoghi sacri buddisti dell’India, molto spesso compiono la faticosa ma importante escursione a Lumbini.

L’attrazione principale, da un punto di vista storico-religioso, è la vasca di Maya Devi, la madre del Buddha, la quale, secondo la tradizione, accusò le doglie proprio mentre si bagnava in questo posto, uscì dall’acqua, compì 7 passi, si aggrappò al ramo di un albero e partorì.
A fianco della vasca, nel grande e ben tenuto giardino, si trova un tempio dedicato a Maya Devi, che all’esterno non presenta nessun particolare rilievo artistico, mentre all’interno ospita i resti di antichi santuari e templi in mattoni, nonché la pietra dove viene indicato il punto preciso in cui il Buddha venne alla luce.
Notevole è anche il grande albero intorno al quale sono avvolte e appese decine di colorate bandiere della preghiera.
Tra i reperti più antichi di Lumbini bisogna citare anche l’alta colonna di Ashoka, il primo grande imperatore indiano, di religione buddista (http://informazioniindiaenepal.blogspot.it/2016/02/limperatore-ashoka.html).
Sparsi nella campagna circostante, secondo una piacevole tradizione inaugurata alcune decine di anni fa, sono stati edificati vari templi e monasteri da parte dei paesi con una maggioranza o forte presenza di praticanti del buddismo.

Molto caratteristici sono ad esempio quelli tibetano, thailandese, birmano, cinese, coreano e giapponese. 

sabato 23 luglio 2016

La cittadina di Ramnagar

Ramnagar è una cittadina di circa 40 mila abitanti, situata alla periferia sud di Varanasi, sulla sponda opposta del fiume Gange.
La sua notorietà è dovuta al fatto che qui il primo maharajà di Varanasi, Balwant Singh (1711-1770), fece costruire, nel 1750, il forte che divenne la residenza della famiglia reale.
Seppur la dinastia abbia ormai perso, oltre ad ogni prestigio, gran parte delle ricchezze, ancora oggi l’erede principale, chiamato Kashi Naresh (Re di Kashi, dall’antico nome di Varanasi http://informazioniindiaenepal.blogspot.it/2016/05/i-nomi-di-varanasi.html), gode di una notevole stima da parte degli abitanti della città, grazie a piccoli ruoli che svolge come custode di antiche tradizioni religiose.
In particolare il Maharajà di Varanasi si occupa dell’organizzazione della famosa Ramlila di Ramnagar, una popolare rappresentazione teatrale e folkloristica dei principali avvenimenti della vita del dio Rama, che si svolge per circa un mese tra le vie della cittadina, in mezzo ad ali di folla curiosa e festante.

Rispetto a molti dei più grandi e famosi forti indiani, come ad esempio quelli del Rajasthan (http://informazioniindiaenepal.blogspot.it/2016/03/forti-del-rajasthan-i-parte.html) il Forte di Ramnagar è piuttosto modesto, ma grazie alla posizione quasi a picco sulle sponde del fiume Gange offre degli ottimi panorami sia verso la lussureggiante vegetazione a sud, che la non lontana città di Varanasi a nord (purtroppo però, da questo lato, il paesaggio è deturpato dalla presenza di un grande ponte in costruzione da molto tempo).
All’interno, superato un alto portale (tale da poter permettere il passaggio di elefanti, da sempre in India simbolo di nobiltà), si trova un ampio giardino dove sono ubicati i due piccoli botteghini dove acquistare il biglietto per accedere alle aree adibite alle visite turistiche.
Una parte del forte è infatti vietata al pubblico in quanto è abitata ancora oggi dai discendenti della famiglia reale.

La Ramlila di Ramnagar venne inaugurata nel 1830 dal Maharajà Udit Narayan Singh, con l’aiuto di alcune importanti famiglie di bramini della zona.
La durata totale della rappresentazione è di 30 giorni e termina per tradizione il giorno di Dashami, già parte dei festeggiamenti di Diwali (http://informazioniindiaenepal.blogspot.it/2016/03/la-festa-diwali.html) che cade solitamente durante il mese gregoriano di Ottobre e che, non per caso, rappresenta il giorno in cui vengono bruciate le effigi del demone Ravana, sconfitto ed ucciso da Rama.
Il testo dell’opera è tratto dal Ram Charit Manas (http://informazioniindiaenepal.blogspot.it/2016/06/il-poema-epico-ramcharitmanas.html), poema epico scritto dal santo-poeta Tulsidas, in lingua awadhi, uno degli antichi dialetti dal quale si formò l’hindi, ancora oggi piuttosto diffuso nelle regioni a nord-est di quest’area, nonché lingua madre per circa 40 milioni di persone.

Escludendo chiaramente i periodi del Ramlila, Ramnagar è una cittadina piuttosto tranquilla, almeno rispetto alla ben più caotica Varanasi, e merita sicuramente una visita proprio per staccare leggermente dall’atmosfera cittadina.
Oltre al forte, per assaporare anche un vago tocco bucolico, si può visitare il non lontano tempio di Sumeri Devi, che propone alcuni interessanti spunti religiosi ed artistici.
Innanzitutto la posizione a particolarmente piacevole, nei pressi di una gigantesca vasca in mattoni, al confine con i verdeggianti campi circostanti.
Dentro ad un giardino verdeggiante si trova il tempio, dedicato a Sumeri Devi, una forma della dea Durga, con un’alta torre piramidale, costruito su una piattaforma rialzata alla quale si accede grazie a due piccole rampe di scale ai lati.
Terminato intorno al 1770 grazie al Maharajà Chet Singh già noto benefattore della città ed in onore del quale è dedicato un ghat da lui finanziato, dal punto di vista artistico offre degli splendidi bassorilievi che circondano l’esterno della torre.
Divisi in file di pannelli con ordine crescente verso l’alto, questi bassorilievi rappresentano semplici lezioni di filosofia indù: partendo dal basso le prime due file raffigurano elefanti e leoni, poi vi sono due file di divinità e scene ad esse correlate, infine nell’ultima fila sono presenti dei saggi circondati da ninfe celesti, a rappresentare l’unione tra la bellezza fisica e la giustizia morale.

Davanti alla porta della stanza dove è custodita l’immagine di Durga, è collocata la bellissima scultura di un leone, veicolo della divinità.
L’ingresso del sancta sanctorum è bloccato da una struttura di metallo sopra alla quale i fedeli porgono le loro offerte (soprattutto fiori, incensi e canfora) e l’interno è sempre molto buio; oltre alla statua di Durga al centro, che in qualche modo si può intravvedere, vi sono altre due statue che ritraggono Krishna e Shiva.
La loro presenza si può intuire molto più facilmente dalle sculture dei loro veicoli che sono posizionate di fronte ai muri laterali del tempio.
Facendo il giro in senso orario, sulla sinistra si nota una splendida statua di Garuda, creatura metà uomo e metà uccello, inginocchiato in posizione devozionale, e rappresenta il veicolo di Vishnu, che nel tempio è a sua volta rappresentato da Krishna (ottava incarnazione di Vishnu).

Continuando il giro esterno della piattaforma del tempio, si incontra una terza scultura che rappresenta Nandi, il toro veicolo di Shiva.
Seppur in scala leggermente ridotta, la naturalezza della posa e la cura dei dettagli danno alla scultura un notevole senso realistico.
Il toro è raffigurato con la testa girata da un lato (e non dritto come avviene di solito) per evitare il contatto diretto con l’amore di Shiva che sarebbe troppo grande per lui da sopportare.
Questa posizione fa sì che girando l’angolo in senso orario, il muso dell’animale sia rivolto in quella direzione, dando quasi l’idea che stia aspettando i visitatori.

Scesi dalla piattaforma e riprese le scarpe, che vanno lasciate prima della rampa di scale, si può raggiungere l’angolo a sinistra del muro che delimita il giardino del tempio, per andare a salutare una divinità molto “rara” ed alquanto insolita.
Rappresentazione terrifica di Kali, Chinnamasta è raffigurata come una ragazza di sedici anni, nuda, che tiene in mano la sua stessa testa che si è appena tagliata con un colpo di spada, che regge nell’altra mano. Dal collo escono tre zampilli di sangue di cui quello centrale viene bevuto dalla testa della divinità, mentre i due laterali finiscono nella bocca di due giovani attendenti anch’esse nude. A completare il quadro, ai piedi di Chinnamasta vi è un coppia sdraiata su un grosso loto bianco in posizione amorosa con la donna sopra.
Dato quindi l’aspetto scioccante e l’effettiva difficoltà artistica nel rappresentare una scena del genere, non sono molti i templi a lei dedicati e questa piccola costruzione ospita una scultura in marmo bianco molto ben eseguita.
Purtroppo il cancelletto del tempio è quasi sempre chiuso e l’interno buio, quindi, anche avvicinandosi alle inferiate, è difficile riuscire a vedere la scultura in tutti i suoi dettagli; verrebbe quasi da consigliare di portarsi una torcia.

venerdì 22 luglio 2016

Akbar, Birbal ed il nobile mendicante

Jai Singh I.pngUn giorno, l’imperatore Akbar, durante uno dei suoi impeti di curiosità, chiese al fido ministro Birbal se fosse possibile per un uomo essere allo stesso tempo il più misero ed il più nobile.
“È possibile!”, rispose senz indugio Birbal.
“Allora presentami questa persona”, chiese Akbar.
Birbal uscì quindi dalla Corte e tornò con un mendicante.
“Questi è il più misero dei tuoi sudditi, Sua Maestà”, disse Birbal presentandolo ad Akbar.
“Potrebbe essere vero”, disse l’imperatore, “ma non vedo come potrebbe essere il più nobile”.
“Beh, ha avuto l’onore di avere un’udienza con Voi, Sia meastà,” arguì Birba, “ciò lo rende il più nobile dei mendicanti!”.

giovedì 21 luglio 2016

Campi crematori, I parte

Dopo aver affrontato l’aspetto pratico e ritualistico delle cerimonie funebri indù (http://informazioniindiaenepal.blogspot.it/2016/05/i-riti-funebri-dellinduismo.html), proponiamo una breve panoramica di quelli che sono i campi crematori più attivi del subcontinente indiano.
Cremation in Varanasi.jpgPrima però vogliamo notare che questi luoghi hanno anche una notevole importanza spirituale, in particolare per i seguaci della filosofia tantrica.
Il motivo principale è che i campi crematori sono i luoghi preferiti dal dio Shiva e la dea Kali, divinità tantriche per eccellenza, quindi, per i loro devoti, sono i posti dove è più facile entrare in loro contatto, o più precisamente con le energie che questi rappresentano.
Inoltre, per coloro che seguono le pratiche più estreme, come gli aghori (http://informazioniindiaenepal.blogspot.it/2016/05/la-setta-tantrica-aghora.html), che eseguono rituali dove si fa uso di ossa, teschi e cadaveri, i campi crematori hanno anche la funzione pratica di permettergli di trovare gli “articoli” a loro necessari.
Chiaramente questi rituali non sono molto comuni ed i rari praticanti stanno ben attenti a farli al riparo da occhi indiscreti, ad esempio effettuandoli di notte, ma già nel tardo pomeriggio nei pressi dei campi crematori talvolta si possono incontrare strani personaggi vestiti di nero che si aggirano tra le pire; e che magari aspettano qualche momento propizio per bere un po’ di alcohol da un teschio.
Venenedo alla nostra breve carrellata, in questo post tratteremo della città di Benares ed il ghat crematorio di Pashupatinath in Nepal, in un post successivo di quello della città di Gaya, del paesino montano di Chamunda Devi e del villaggio bengalese Tarapeeth.

Com’è piuttosto noto, la città sacra di Varanasi è per gli indù il luogo ideale dove morire, essere cremati ed avere le proprie ceneri sparse nel Gange.
Teoricamente tutti i sette chilometri di lungofiume compresi tra i due piccoli affluenti, il Varuna a nord e l’Assi a sud (da cui il nome Varanasi, per dettagli http://informazioniindiaenepal.blogspot.it/2016/05/i-nomi-di-varanasi.html), sono considerati luoghi propizi per le cremazioni e vi sono evidenze storiche che in passato avvenissero un po’ ovunque, mentre al giorno d’oggi sono limitate a due zone, presso il Manikarnika Ghat e l’Harichandra Ghat.
Al Manikarnika, che è il più importante dei due, le cremazioni avvengono pressoché costantemente, sia nella piccola area presso il fiume, sia su delle terrazze costruite appositamente attorno alle torri di due templi che invadono la zona.
La continua fuliggine delle pire ha ormai colorato di nero gran parte degli edifici limitrofi, rendendo l’atmosfera alquanto lugubre, quindi perfettamente in sintonia con ciò che rappresenta.
Allo stesso tempo si può anche apprezzare una vaga tranquillità, se non altro in confronto ad altri ghat o i vicoli che si trovano alle sue spalle, seppur nei periodi di maggior affluenza turistica, specialmente alla mattina, siano presenti in zona numerose false guide talvolta piuttosto insistenti e nella maggior parte dei casi inutili.

L’Harichandra Ghat è oggi meno frequentato, seppur pare che sia un luogo più antico del Manikarnika come campo crematorio.
Qui le cremazioni non si susseguono proprio costantemente anche se, nei momenti in cui il clima è particolarmente ostile, a Gennaio per il freddo e Maggio-Giugno per il caldo, capita spesso vi siano anche 5-6 pire accese.
Grazie alla collocazione in un’area leggermente più spaziosa, l’atmosfera dell’Harichandra Ghat è più piacevole e tranquilla che al Manikarnika, seppur la grande costruzione in metallo arruginito che ospita l’utilissimo crematorio elettrico rovini leggermente l’aspetto estetico.
Crematorio elettrico che sembra stia piano-piano diventando sempre più popolare per due importanti motivi: primo l’aspetto economico, visto che costa circa un terzo delle spese per la pira di legno; secondo per motivi ecologici, cioè un minor impatto sull’inquinamento del già disastrato Gange (com’è purtroppo accettabile, in realtà in India il concetto di ecologia non è molto diffuso, ma grazie alla sua sacralità, il Gange usufruisce di un occhio di riguardo).

Dopo la città di Varanasi, probabilmente il campo crematorio più frequentato è quello di Pashupatinath (http://informazioniindiaenepal.blogspot.it/2016/07/il-tempio-di-pashupatinath.html), una grande area sacra al dio Shiva come Signore, nath, degli animali, pashu, situata alla periferia di Kathmandu, nei pressi dell’aereporto internazionale.
L’area adibita alle cremazioni, situata sulle rive di un fiumiciattolo sacro che scorre dietro al sacrissimo tempio di Shiva Pashupatinath, può essere facilmente divisa in due parti: la zona più settentrionale proprio ai piedi del muro posteriore del tempio ed un’altra più grande a sud, oltre i due ponticelli in pietra.
La zona nord è composta da un piccolo ghat (gradini per accedere ai fiumi) riservato alle cremazioni degli appartenenti alla casta dei bramini (sacerdoti) ed alle più importanti personalità nepalesi.
L’accesso a quest’area pare essere vietata alle caste inferiori, tra cui gli stranieri, ma è possibile assistere agli elaborati rituali sui grandi scaloni situati sulla riva opposta del fiume.
La zona sud per i comuni mortali è decisamente più ampia, con i ghat che occupano circa una cinquantina di metri di scalini, e sui quali sono situate 7-8 piattaforme per le cremazioni, di cui almeno 2-3 quasi sempre in funzione.
Anche in questo caso è possibile assistere ai rituali dai ghat della sponda opposta del piccolo fiume, oppure da una terrazza situata quasi sopra alle cremazioni, oppure ancora mischiandosi con discrezione tra i parenti dei defunti e gli addetti.
Al contrario di quanto succede nei ghat di Varanasi, dove le fotografie sono proibite (o concesse solo pagando delle laute mazzette ai responsabili delle cremazioni), a Pashupatinath non vi è nessuna restrizione di sorta, anche se chiaramente si suppone venga utilizzato un minimo di tatto.

Questo è dovuto alla maggior tolleranza dei nepalesi ed alla loro gentile natura, ma anche perché per accedere all’area di Pashupatinath i turisti stranieri devono pagare un esoso biglietto d’ingresso, quindi gli viene concessa una certa libertà.