Il racconto di Tagore “L’editore” descrive le vicende di un
uomo vedovo alle prese con la propria figlia.
Libera traduzione.
Finché mia moglie era in vita, non mi preoccupavo molto di
Prabha. Ero più impegnato con sua madre che con lei. Ero felice di vederla
giocare e ridere, di ascoltare la sua parlata ancora mezza formata e rispondere
al suo affetto; quando ero dell’umore giusto giocavo anche con lei, ma appena
iniziava a piangere la riportavo tra le braccia di sua madre e scappavo. Non
consideravo quanta cura e sforzo ci vogliono per far crescere un bambino.
Con l’improvvisa morte di mia moglie, il compito di far
crescere Prabha passò a me e l’abbracciai caldamente. Francamente non so chi
fosse più preoccupato: io per dover crescere una figlia senza madre con il
doppio dell’affetto, o lei a prendersi cura del suo vedovo padre. Ma da quando
compì 6 anni iniziò ad occuparsi della casa ed era abbastanza chiaro che questa
ragazzina stava cercando di diventare l’unico protettore di suo padre.
Mi divertiva lasciarmi andare interamente alle sue cure e
notai presto che più io sembravo inutile ed incapace, più lei era contenta. Se
prendevo il cappello o l’ombrello da solo, reagiva come se avessi usurpato un
suo diritto. Non aveva mai avuto una bambola così grande come suo padre: gioiva
tutto il giorno nel nutrirlo, vestirlo e prepararlo per andare a dormire. Solo
quando prendevo in mano il libro di aritmetica o quello di poesie, il mio
istinto paterno si svegliava leggermente.
Ogni tanto mi ricordavo che poterla sposare con un uomo
rispettabile, mi sarebbe costato un sacco di soldi, ma dove li avrei presi? La
stavo educando meglio che potevo, sarebbe stato un peccato se avesse sposato un
sempliciotto.
Così iniziai a pensare a come guadagnare soldi, ma ero
troppo vecchio per trovare un lavoro d’ufficio statale e non avevo molte
speranze di entrare in qualunque altro ufficio, così dopo un lungo pensare
decisi di scrivere un libro.
Se si fanno dei buchi ad una canna di bambù, non diventa un
contenitore, non ci si possono tenere acqua o olio e non può essere usata per
niente di pratico. Ma se ci si soffia dentro, diventa un eccellente e gratuito
flauto. Ero dell’idea che chiunque fosse così sfortunato da essere inutile in
ogni lavoro pratico, sicuramente avrebbe scritto dei buoni libri. Confidando in
questo, scrissi una commedia ironica, qualcuno disse che era ben scritta e
venne presentata sulla scena.
Il pericoloso risultato del mio improvviso assaggio di fama
fu che non potei più smettere di scrivere commedie farsesche e con espressione
accigliata passavo tutto il giorno a scrivere.
Se Prabha veniva a chiedermi, con un amorevole sorriso, “Padre,
non fate il bagno?”, io la liquidavo dicendole di lasciarmi in pace e non
disturbarmi.
Probabilmente il viso della ragazza si rabbuiava come una
lampada che si spegne all’improvviso, ma io non notavo neppure il suo
silenzioso uscire dalla stanza.
Mi arrabbiavo con la donna di servizio e schiaffegiai il
domestico; se sulla porta compariva un mendicante, lo mandavo via con il
bastone, se un innocente passante si fermava alla mia finestra per chiedermi
indicazioni (la mia stanza dava sulla strada), gli dicevo di andarsene al
diavolo. Perché la gente non riusciva a capire che in quel momento stavo
scrivendo una commedia da ridere?
I soldi che guadagnavo non erano proporzionati né
all’ilarità delle mie farse né della mia fama ma i soldi in quel periodo non erano
tra i miei primi pensieri. Nel frattempo stavano crescendo gli sposi
accettabili per Prabha, che avrebbero liberato un padre da questa
preoccupazione, ma io non notai neppure quelli. Probabilmente solo la fame
avrebbe potuto farmi riprendere i sensi, ma si presentò una nuova opportunità.
Il capo del villaggio di Jahir mi invitò a diventare
editore salariato di una giornale che stava fondando. Accettai e dopo pochi
giorni stavo scrivendo con un tale fervore che la gente iniziava a riconoscermi
ed indicarmi per la strada e secondo il mio personale parere ero accecantemente
brillante come il sole del pomeriggio.
Vicino a Jahir vi era Ahir ed i due capovillaggio erano
acerrimi nemici. Precedentemente le loro dispute finivano con risse e violenza,
ma ora il magistrato li aveva obbligati a mantenere la calma ed il capo di
Jahir utilizzava me invece dei suoi scagnozzi.
Tutti dicevano che compivo il mio dovere con onore e gli
abitanti di Ahir erano intimiditi dalla mia penna, che inceneriva la loro
storia ed il loro passato.
Quello fu sicuramente un buon periodo per me, divenni
grasso ed avevo un perenne sorriso stampato sul viso. Facevo delle devastanti
sortite verbali contro gli abitanti di Ahir ed i loro antenati, e tutti a Jahir
si sbellicavano per il mio umorismo; ero beatamente felice.
Alla fine, anche il villaggio di Ahir fondò un giornale.
Aveva un linguaggio aggressivo e lanciavano insulti con tale zelo ed in modo
così crudo e volgare che sembrava che le stesse lettere stampate sulle pagine
strillassero. Gli abitanti di entrambi i villaggi sapevano cosa si intendeva,
ma io, secondo il mio stile, attaccavo i miei nemici con umorismo, sottigliezze
ed ironia, tanto che né i miei amici né i miei oppositori capivano quello che
volevo dire. Il risultato era che sebbene io vincessi le discussioni, tutti
pensavano che avessi perso.
Quindi sentii il dovere di scrivere un saggio sul buon
gusto, ma scoprii che anche questo sarebbe stato un errore, poiché, se è facile
ridicolizzare qualcosa di buono, è invece difficile ridicolizzare qualcosa che
è già ridicola.
I miei datori di lavoro diventarono freddi nei miei
confronti e non ero più il benvenuto a cerimonie pubbliche. Quando uscivo
nessuno mi riconosceva o parlava con me, anzi qualcuno iniziava a ridere
vedendomi. Mi sentivo come un fiammifero, che aveva fatto luce per un minuto
dopodiché si era spento. Ero così amareggiato che per quanto mi forzassi a
pensare, non riuscivo più a scrivere nemmeno una riga. Stavo iniziando a
pensare che non avevo più un motivo per vivere.
Prabha ora aveva paura di me. Non aveva il coraggio di
avvicinarsi se non era stata invitata e probabilmente finì per pensare che una
bambola di terracotta sarebbe stata un compagno migliore di un padre che
scriveva satira.
Un giorno divenne evidente che il giornale di Ahir stava
iniziando a concentrarsi su di me invece che sul capo villaggio ed iniziarono a
scrivere cose spregevoli. I miei amici mi portarono le copie del giornale e me
le lessero molto divertiti. Alcuni dicevano che, a parte il contenuto, il
linguaggio era superbo, intendendo che le calunnie contenute erano facili da
capire, e dovetti sentire questa stessa opinione per tutto il giorno.
C’era un piccolo giardino di fronte a casa mia. Una sera
era seduto lì da solo, stufo di questa situazione e notai gli uccelli che
tornavano ai loro nidi e semttevano di cantare, lasciandosi andare liberamente
alla pace della sera. Pensai che non ci sono combriccole di autori satirici tra
gli uccelli, né discussioni sul buon gusto, ma continuai ad essere preoccupato
su come avrei risposto ai miei calunniatori.
Uno dei problemi con la raffinatezza è che non tutte le
persone la capiscono. La scrittura rozza è relativamente comune, così decisi di
rispondere usando uno stile rozzo, non mi sarei dato per vinto! In quel momento
sentii una piccola e familiare voce nel buio della sera, quindi una tenera e
calda mano che toccava la mia. Ero così preoccupato e distratto che nonostante
riconoscessi la voce ed il tocco, quasi non me ne accorsi. Ma un momento dopo
la voce stava gentilmente avvicinandosi alle mie orecchie ed il delicato tocco
si stava intensificando. C’era un ragazza di fianco a me e stava chiamando
dolcemente “Padre”. Quando non ricevette nessuna risposta, prese la mia mano
destra e l’avvicinò per un attimo alle sue guance, quindi tornò lentamente
dentro casa.
Prabha non mi aveva chiamato così da molto tempo e non mi
aveva più mostrato quel genere di affetto, così il tenero tocco di quella sera
andò diretto al mio cuore.
Dopo un po’ anch’io rientrai in casa e vidi Prabha che
giaceva su una sedia; sembrava distrutta ed i suoi occhi erano socchiusi, come
un fiore, appassito a fine giornata. Misi una mano sulla sua fronte ed era
molto calda, come il suo respiro, e le vene sulle tempie stavano pulsando. Solo
allora realizzai che la ragazza, agitata dal principio della malattia, era
andata da suo padre sperando in cuor suo di ricevere attenzioni ed affetto,
mentre suo padre in quel momento era impegnato a pensare ad una infuocata
risposta per il giornale di Jahir.
Mi sedetti di fianco a lei. Senza dire nulla, tirò la mia
mano tra le sue, vi avvicinò le guance e rimase sdraiata.
Io feci un falò con tutti i giornali di Jahir ed Ahir e non
scrissi mai la mia risposta, e la cosa mi diede la più grande felicità che avessi
mai provato.
Quando era morta sua madre, avevo tenuto Prabha nel mio
grembo, ora, dopo aver cremato la sua madre adottiva – il mio scrivere –
l’avevo presa tra le mie braccia e portata a letto.
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