martedì 7 febbraio 2017

Il racconto "Kabuliwallah", I parte

Tra le raccolte di racconti di Tagore più riuscite, nel 1991 la casa editrice inglese Penguin pubblicò l’interessante “Rabindranath Tagore: Selected Short Stories”, tradotte da William Radice, che già si era cimentato, qualche anno prima, nel 1985, con una riuscita traduzione di poesie di Tagore pubblicate sempre da parte della Penguin ed intitolate “Selected Poems”.

Come nel caso del suo contemporaneo Premchand (http://informazioniindiaenepal.blogspot.in/2017/01/lo-scrittore-premchand-ed-il-racconto.html), anche la prosa di Tagore è improntata sul realismo, sulla descrizione delle condizioni di vita, spesso precarie, degli indiani di ceto medio e basso, ma con un respiro più ampio del suo collega di lingua hindi.
Il realismo di Premchand è infatti rivolto, molto spesso, a condizioni specifiche della realtà indiana, non sempre rapportabili e situazioni umane più universali, mentre Tagore, pur partendo dallo specifico, riesce a toccare dinamiche più generali.

“Kabuliwallah”, ad esempio, è un noto racconto di Rabindranath Tagore, dove lo scrittore, oltre ad offrire un esotico spaccato di vita familiare bengalese, coglie l’occasione per trattare alcuni argomenti che vanno al di là dell’ambientazione della Calcutta di fine ‘800, come il doloroso distacco dei genitori e dei figli dalla famiglia, e la profonda nostalgia di chi è costretto a lavorare lontano dal proprio paese.
Apprezzabile, in questo racconto, sono anche la semplice umanità e talvolta la pacata ironia del personaggio narrante, facilmente identificabile con l’autore stesso.
Il termine Kabuliwallah significa letteralmente “quello di Kabul” o “il tipo di Kabul”, riferito al venditore di frutta secca afghano, protagonista del racconto.
Segue libera traduzione, divisa in due parti.

Mini, la mia figlia di cinque anni, non fa altro che parlare. Ci ha messo solo un anno ad imparare e da allora credo che in tutta la sua vita non abbia trascorso un solo minuto in silenzio. Sua madre spesso la sgrida per questo e ogni tanto la obbliga a stare zitta, ma io non ci riesco. Vedere Mini calma e tranquilla è innaturale e non riesco a sopportarlo per molto tempo. Quindi i miei momenti con lei sono sempre movimentati.

Una mattina, per esempio, proprio mentre ero nel mezzo del diciassettesimo capitolo del mio nuovo romanzo, Mini entrò nella stanza e prendendo le mie mani tra le sue mi disse “Papà! Il guardiano Ramdayal chiama il corvo crow, invece di kak! Non sa proprio un bel niente, vero?”.
Ma prima che io potessi illuminarla sulla differenza tra le varie lingue di questo mondo, aveva già cambiato argomento “Cosa pensi, Papà? Bhola dice che c’è un elefante tra le nuvole che spruzza acqua dalla proboscide, per questo piove!”.
E mentre cercavo di trovare una risposta a questa domanda “Papà, che relazione c’è tra te e la mamma?”.
“Bella domanda!”, pensai, e a Mini dissi di andare a giocare con Bhola ché io ero impegnato.
Lei invece si mise a sedere ai miei piedi, canticchiando e battendo il tempo con le mani sulle ginocchia, mentre Pratap Singh, il protagonista del mio romanzo, nell’oscurità della notte stava scappando dalla prigione con l’eroina tra le braccia.
La finestra del mio studio dà sulla strada e Mini ad un certo punto smise di canticchiare e corse verso la finestra urlando “Kabuliwallah, Kabuliwallah!”.

Con i vestiti sporchi, un turbante stropicciato, una borsona a tracolla e quattro-cinque scatole di uva in mano, un alto Kabuliwallah stava procedendo a passo lento lungo la strada. È difficile dire esattamente quali pensieri possa aver risvegliato nella mia adorata figlia la sua apparizione, ma lei iniziò ad urlare ed a chiamarlo. Quel borsone vuol dire problemi, pensai: oggi non riuscirò a finire il mio diciassettesimo capitolo...
Ma proprio mentre il Kabuliwallah, attirato dalle grida di Mini, alzò uno sguardo sorridente e si avvicinò alla casa, Mini si spaventò e scappò all’interno. Era convinta che se uno avesse guardato dentro a quel grande borsone, vi avrebbe trovato dentro dei bambini come lei.

Nel frattempo il Kabuliwallah era arrivato sotto alla mia finestra e mi salutò gentilmente. Sebbene la situazione di Pratap Singh fosse estremamente critica, pensai che sarebbe stato maleducato non invitare il venditore in casa e comprargli qualcosa.
Così feci e mi fermai a parlare con lui per un poco, in particolare sugli sforzi di Abdur Rahman di preservare l’integrità dell’Afghanistan contro i russi ed i britannici.
Quando si alzò per andarsene, il Kabuliwallah mi chiese “Signore, dov’è andata la vostra piccola bambina?”.
Per far sparire una volta per tutte le sua infondata paura, chiamai Mini, che si attaccò alle mie gambe, guardando con sospetto il venditore e la sua grande borsa. Il Kabuliwallah tirò fuori dell’uvetta e delle albicocche secche e gliele porse, ma lei si strinse alle mie gambe ancora più sospettosa. Questo fu il primo incontro tra Mini ed il Kabuliwallah.

Alcuni giorni dopo, stavo uscendo di casa per alcune commissioni e vidi mia figlia seduta su una panchina di fronte alla porta che stava chiacchierando senza freni ed il Kabuliwallah che ascoltava, seduto ai suoi piedi, sghignazzando e facendo qualche commento nel suo stentato bengalese. Nei cinque anni della sua vita, Mini non aveva mai trovato un ascoltatore così paziente; a parte suo padre...
Notai anche che una piega del suo piccolo sari era piena di uvetta e noci, così dissi al Kabuliwallah “Perché gli avete dato questo? Per favore, non dategliene più”, quindi presi mezza rupia dalla tasca e gliela porsi. Lui, senza esitazione, la prese e la infilò nella borsa.
Quando tornai a casa, scoprii che quella mezza rupia aveva creato il finimondo. La madre di Mini stava tenendo in mano questo rotondo pezzo di metallo e dicendole bruscamente “Dove hai preso questa mezza rupia?”.
“Me l’ha data il Kabuliwallah!”, rispose Mini.
“Perché gliel’hai presa?”, chiese sua madre.
“Non l’ho presa e neppure chiesta”, disse Mini in lacrime, “Me l’ha data lui”.
Salvai Mini dalla furia di sua madre e la portai fuori.

Scoprii che non era la seconda volta che lei ed il Kabuliwallah si incontravano, che lui ormai veniva quasi tutti i giorni, essendo riuscito a corrompere e vincere il suo cuoricino con uvetta e pistacchi.
Venni anche a sapere che ormai avevano degli scherzi e delle battute di routine; ad esempio, quando Mini vedeva Rahamat, ridacchiando gli diceva “Kabuliwallah, Kabuliwallah, che cos’hai nella tua borsa?”. Lui ridendo diceva con voce nasale “Un elefante!” e la nozione che ci fosse davvero un elefante dentro alla borsa faceva scoppiare dal ridere Mini. Certo non era un gioco molto sottile, ma sembrava che entrambi lo trovassero molto divertente e a me faceva molto piacere vedere, in una mattina di autunno, una piccola bambina ed un uomo maturo ridere così di cuore.
Ma ne avevano anche altri scherzi. Rahamat diceva a Mini “Piccola, non andare mai dai tuoi svasur-bari!” (la casa dei suoceri, alludendo al fatto che quando le donne si sposano, secondo una vetusta tradizione indiana, si trasferiscono nella casa di famiglia del marito).
La maggior parte delle ragazze bengalesi cresce sentendo spesso riferimenti alla svasur-bari, ma mia moglie ed io siamo abbastanza progressivi e non parliamo alle nostre bambine piccole del loro futuro matrimonio.
Quindi Mini non poteva capire esattamente cosa intendesse Rahamat, ma stare zitta e non dare nessuna risposta era contro la sua natura, così invertiva il gioco e diceva “Stai andando dal tuo svasur?”.
Agitando il suo grande pugno verso un fantomatico suocero, Rahamat urlava “Lo sistemerò per le feste!”, e Mini scoppiava a ridere, immaginando il destino di questa sconosciuta creatura chiamata svasur.

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