domenica 7 febbraio 2016

Sati

Sati è il nome della prima moglie di Shiva, morta suicida per uno sgarbo subito dal padre Daksha.
Egli infatti decise di organizzare un grande sacrificio, al quale invitò tutte le divinità, tranne la figlia e suo marito Shiva, a causa del fatto che disapprovava il comportamento ascetico del genero.
Sati, molto irritata da tale affronto, decise di recarsi lo stesso ad assistere al sacrificio, in quanto, essendo figlia dell’officiante, riteneva non avesse bisogno di alcun invito.
Shiva invece, ben contento di poter continuare a meditare sul Monte Kailash, decise che se quello era il volere del suocero, l’avrebbe assecondato volentieri e lasciò che Sati andasse da sola.
Una volta giunta nel luogo stabilito per il sacrificio, Sati ebbe un’accesa discussione col padre, il quale insultò a tal punto Shiva che lei, in un accesso di rabbia, distrusse i preparativi del sacrificio e si suicidò buttandosi nel fuoco sacrificale che era stato appena acceso.
Quando Shiva venne a sapere del’accaduto si recò inferocito sul luogo del misfatto, accompagnato da una schiera di demoni, uccise il suocero, completò la distruzione del sacrificio e, preso sulle spalle il corpo della sua amata, iniziò a volare tra i cieli distruggendo tutto quello che incontrava.
Gli dei, impossibilitati a fermare la sua furia, chiesero allora aiuto a Vishnu (che rappresentando la Conservazione è l’unico che può opporsi alla Distruzione-Shiva), il quale lanciò il suo disco divino sul corpo di Sati, che iniziò a rompersi ed i cui pezzi caddero sulla terra.
Infine Shiva fu definitivamente placato quando gli fu assicurato che ella sarebbe ritornata a lui, ed infatti la nota Parvati non è altro che un’incarnazione di Sati.

Da questo interessante episodio mitologico si possono trarre alcuni spunti sia religiosi-spirituali, che socio-culturali.
Ad esempio, lo smembramento del corpo di Sati ha dato vita all’importante tradizione induista degli shakti peetha, 54 luoghi sacri dove si presume siano caduti i pezzi della dea e che si trovano sparsi in tutto il subcontinente indiano, compresi Pakistan, Nepal e Bangladesh.
E seppur la tradizione sia molto antica, ancora oggi la maggior parte di questi templi sono importantissimi luoghi di culto per le divinità femminili, quali Durga e Kali.

Dal punto di vista socio-culturale, la parola sati viene utilizzata per descrivere la tradizione delle donne indiane, specialmente di casta alta, di immolarsi sulla pira del marito, come segno di devozione totale al coniuge.
Seppur in realtà il riferimento alla storia mitologica sia poco preciso (cambia il motivo del suicidio di Sati e il fatto che Shiva sia vivo) e la pratica non era universalmente accettata, fu abbastanza diffusa e fu solo grazie agli inglesi, nella seconda metà dell’800, che fu dichiarata illegale.
In molti casi, infatti, pare si trattasse di solito di atti volontari, ma non erano pochi i casi in cui la moglie vi era costretta dalle circostanze, cioè trovarsi completamente sola, abbandonata e magari osteggiata, e talvolta era addirittura obbligata con la forza.
Anche dopo l’indipendenza dell’India dall’Inghilterra le leggi che proibiscono tale pratica sono diventate sempre più severe visto che, purtroppo, ancora oggi, talvolta capitano alcuni “casi di sati”.
Se le autorità vengono avvertite in tempo, di solito i poliziotti intervengono ed arrestano tutti i presenti (è considerato reato anche solo assistere a tali infausti eventi), e soprattutto distruggono santuari o altari che in genere vengono eretti sul luogo del sacrificio, per evitare che si crei un culto che sarebbe poi difficile da interrompere.
Le donne che commettono il sati vengono infatti venerate alle stregua di divinità, per aver avuto il coraggio e la devozione per sacrificarsi per il proprio marito, tenendo anche presente che, secondo l’induismo, il sacrificio della moglie garantisce all’uomo una rinascita “superiore”.
Ancora oggi sono molti i templi, soprattutto nelle zone rurali del Rajasthan e del Bengala, dedicati a donne che hanno commesso il sati, costruiti sul luogo del sacrificio e dove talvolta vengono rappresentate come una donna seduta a gambe incrociate sopra al fuoco di una pira.
Nella città di Benares, da sempre luogo propizio per morire e per essere cremati, si possono notare invece numerosissimi altarini sparsi lungo i ghat, dove viene rappresentata una coppia, uomo-donna, in piedi e indicano il punto esatto in cui è stato commesso un sati.
Presso i due campi crematori di Manikarnika Ghat e Harischandra Ghat, questi altari sono particolarmente numerosi, ma si possono trovare lungo quasi tutti i 7 chilometri di lungofiume, da Assi Ghat a sud fino al Raj Ghat a nord.

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