sabato 6 febbraio 2016

Lingua hindi

L’hindi moderna fa parte della famiglia linguistica indo-ariana ed è riconosciuta come la lingua ufficiale del governo indiano, insieme all’inglese.
Storicamente è un’evoluzione del khariboli, un dialetto della zona di Delhi, a sua volta derivante dall’hindustani, la lingua sviluppattasi in India durante la dominazione mussulmana.
L’hindi utilizza i caratteri devanagari, la tipica scrittura indiana in cui le lettere sembrano “appese” ad una linea orizzontale, e viene utilizzata, oltre che per l’hindi, anche per nepali, marathi e sanscrito, l’antica lingua dalla quale si sono formati molti idiomi indiani.
Una delle caratteristiche principali dell’alfabeto devanagari è la presenza di una cosiddetta vocale inerente (una A breve) a seguire ogni consonante, tanto che bisognerebbe propriamente parlare di abugida, o alfasillabario, che si distingue dai normali alfabeti proprio perché i simboli non rappresentano un’unica lettera, bensì una sillaba.
Il numero totale delle lettere è 44 diviso in 11 vocali e 33 consonanti, suddivise a loro volta in un gruppo di 25, più 4 semi-vocali, 3 sibilanti e 1 aspirata.
L’elevato numero di vocali è dovuto al fatto che A, I e U sono distinte in brevi e lunghe, mentre E e O in chiuse o aperte; la tredicesima vocale è una rara lettera derivante dal sanscrito, che rappresenta il suono RI e che in realtà è la settima lettera visto che si posiziona tra la U e la E.
Anche il primo gruppo di 25 consonanti è composto da lettere che possiedono una forma “doppia”, l’aspirata, sicché per esempio la prima consonante, la C dura (traslata in K), prevede la forma aspirata CH (KH) e così via.
Molto interressante è la sequenza di queste consonanti che segue principi fonetici basati sul modo e sul luogo in cui le lettere vengono pronunciate: partendo dal fondo della gola con le gutturali (C o K e G dura), le palatali (C o K e G morbide), le retroflesse (T e D pronunciate retroflettendo la punta della lingua all’indietro come nell’inglese train), le dentali (T e D) e infine le labiali (P e B).
Per ognuna delle 5 posizioni esistono delle nasalizzazioni, vari tipi di N, anch’esse prodotte in diverse zone della bocca, seppur per fortuna sono poche quelle usate comunemente; curiosa è la nasalizzazione delle labiali che produce la lettera M.
Un’ultima caratteristica da segnalare è la presenza di ben 3 S, la prima molto simile a quella sorda italiana, le altre due invece rappresentano il suo SC, di sciare, e seppur propriamente siano diverse, la pronuncia è così simile che le rende pressoché indistinguibili.
Venendo invece all’aspetto sintattico, il periodo hindi prevede di posizionare il verbo in fondo alla frase, come nel latino, dando quindi alla lingua un vago senso di pomposità che obbliga l’ascoltatore ad aspettare la fine del periodo per capirne il significato; o, al contrario, creare un senso quasi retorico quando l’uso del verbo finale è scontato.
Nel linguaggio parlato bisogna notare la presenza di ben 4 forme di dialogo: oltre al “tu” e al “Lei”, esistono infatti un “tu” dispregiativo, e un “Lei” ulteriormente onorifico, vagamente simile all’ormai desueto italiano “Voi”.
Un’interessante osservazione che ne deriva è come la versione più bassa prevede l’utilizzo del minor numero di lettere (per esempio il dispregiativo tu vai, o vattene, tu ja), la forma confidenziale un numero leggermente maggiore (tum jao), il “Lei” comune un ulteriore sforzo (Lei vada, ap jaye), infine la più lunga forma onorifica (Lei vada, ap jayega), quasi a dimostrare il rispetto anche attraverso lo sforzo fisico stesso di chi parla.
Esistono inoltre alcuni altri fenomeni peculiari della lingua hindi, che risultano essere chiaramente il frutto dell’altrettanto peculiare cultura indiana e ne rispecchiano quindi le caratteristiche.
Il più evidente è sicuramente l’assenza del verbo avere, che probabilmente deriva dall’umiltà verso Dio insegnata da tutti i più importanti testi sacri, per cui invece del “volgare” avere, si utilizza il verbo essere, cambiando il soggetto in un complemento di termine ed il complemento oggetto nel soggetto, quindi: Luigi ha una macchina, si esprime dicendo che A Luigi è una macchina.
Analogo discorso viene fatto anche per il verbo conoscere, o sapere, in particolare quando si riferisce ad una lingua, che viene sostituito con il verbo arrivare, e cambiando di nuovo il soggetto in un complemento di termine e il complemento oggetto in soggetto, per cui invece di dire: Luigi sà l’hindi, bisognerebbe dire A Luigi l’hindi è arrivata.
(Questo tra l’altro ricorda molto un proverbiale aforisma attribuito al Buddha, di nascita un principe indiano, secondo cui “L’avere una buona cultura ed essere istruiti è semplicemente fortuna”.)
Un’altra particolare caratteristica dell’hindi è l’utilizzo dello stesso termine, kal, per dire sia ieri che domani, nonché una parola, parsó, per dire sia l’altroieri che dopodomani.
Sebbene questo non crei a livello pratico quasi nessun tipo di incomprensione, in quanto il contesto e il tempo del verbo usato sono in genere sufficienti per capire di quale si tratti, sembra però  in qualche modo riflettere la vaga, personale e spesso ambigua concezione del tempo degli indiani; e allo stesso tempo una specie di disinteresse nella reale differenza tra ieri e domani
A causa di evidenti distanze geografiche e culturali, le similitudini tra la lingua italiana e l’hindi sono rarissime e occasionali: unica eccezione sono i numeri fino a dieci, piuttosto simili grazie all’antichissima origine comune ariana, soprattutto 7, 8, 9 e 10 che si dicono sat, at, no e das.
Tra i rari vocaboli italiani derivanti dall’hindi, uno è il termine shampoo che deriva dal verbo hindi champna, schiacciare, anche se non è chiaro se lo schiacciamento a cui si riferisce è quello dei capelli durante il lavaggio, oppure quello degli ingredienti che costituiscono il prodotto, storicamente in India sotto forma di polvere.
Un altro vocabolo d’uso comune derivante dall’hindi è giungla, attraverso l’inglese jungle e dall’hindi jangal, seppur il significato originale non era quello inglese e italiano di foresta monsonica (e per esteso di foresta tropicale), bensì di regione desertica, cioè disabitata, come infatti erano, e in parte sono tuttora, le foreste indiane.
Infine, nel campo dell’abbigliamento, vi sono due termini italiani piuttosto comuni che hanno origine hindi e sono pigiama, da pajama, nome dei caratteristici pantaloni indiani da uomo, e bandana, da bandhna, verbo che significa legare, raccogliere, in questo caso i capelli.
Grazie al fatto che, seppur involontariamente, l’Italia tra tanti misfatti almeno non si sia macchiata di aver colonizzato altri paesi (escludendo chiaramente la figuraccia nel Corno d’Africa), e men che meno la lontanissima India, sono pressoché nulli i termini che invece hanno viaggiato in senso opposto.
Curiosamente la parola camera, o stanza, ha un suono affine all’italiano, camrà, data l’origine portoghese del vocabolo hindi.
Le uniche due parole italiane che si posssono sentire ogni tanto pronunciare dagli indiani, specie se benestanti, sono pasta e pizza, con la seconda che richiede agli inesperti uno sforzo notevole per pronunciare la doppia zeta, visto che in hindi la zeta non esiste.
Alcuni termini derivanti dall’arabo e dal persiano hanno suoni simili alla zeta ma vengono resi con una specie di G morbida molto marcata, ma che inserita tra PI e A, dà come risultato PIGGIA, suono ben diverso da quello della parola pizza.

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