Il termine bengalese thakurda, che dà il titolo a questo
racconto di Tagore, significa letteralmente signor nonno ed è una forma
onorofica con la quale vengono chiamate persone anziane degne di particolare
rispetto.
Thakur, anche nella lingua hindi, significa originariamente
idolo, divinità e per esteso agli esseri umani signore, padrone, capo, persona
di rango e quindi viene usata come titolo onorifico e forma di rispetto.
Curiosamente da questo termine deriva anche il nome stesso
dell’autore Rabindranath Tagore, che è la forma anglicizzata del bengalese
Ravindranatha Thakura.
In questo racconto, thakurda è riferito al protagonista
principale, Kailaschandra Raychaudhuri, un nobile ormai decaduto.
Libera traduzione divisa in due parti.
La famiglia reale di Nayanjor una volta era considerata una
dinastia di veri gentlemen, “Babus”, un titolo che a quei tempi non era così
facile da ottenere.
Oggi le persone vengono chiamate “Raja” o “Raybahadur” con
tanto di canti, balli, offerte e adulazione, ma una volta gli sforzi bisognava
farli prima di ricevere degli appellativi così altisonanti.
I “Babus” di Nayanjor erano soliti tagliare gli orli dei
loro vestiti di mussolina (un tessuto molto leggero simile alla garza, tipico
di Dacca) perché erano troppo ruvidi per la loro pelle aristocratica;
spendevano delle fortune per sposare i loro figli ed in una particolare
occasione, si dice fossero riusciti a trasformare la notte in giorno, non solo
per la quantità di lampade e lumi, ma addirittura facendo piovere decorazioni
d’argento per simulare i raggi del sole. Una tale grandezza non poteva
ovviamente durare a lungo e passare agli eredi, e come l’olio di una lampada
venne bruciata in fretta.
Il nostro amico Kailaschandra Raychaudhuri era un rampollo,
ormai consumato, dei famosi Babu di Nayanjor. Alla sua nascita la lampada aveva
già quasi finito tutto l’olio, con la morte di suo padre venne fatto
scoppiettare ancora in un’ultima esibizione di eccessi per il funerale, quindi
si spense completamente. I beni patrimoniali furono venduti per pagare i debiti
e quello che avanzò era troppo poco per tenere alto il nome della famiglia.
Così Kailas Babu lasciò Nayanjor insieme al figlio e venne a Calcutta, ma
presto anche il figlio abbandonò l’esistenza di questo mondo per l’al di là,
lasciandogli una nipotina.
Noi eravamo vicini di casa di Kailas Babu, ma la nostra
storia era completamente diversa. Mio padre aveva guadagnato la sua ricchezza con
i suoi sforzi, contando ogni paisa (centesimo di rupia), economizzando perfino
sulla lunghezza del suo dhoti (lungo drappo usato per coprire le gambe degli
uomini) e non aveva mai aspirato a diventare un “Babu”. Come suo unico figlio
gli ero molto grato ed ero orgoglioso di aver potuto ottenere una certa
educazione e non mi dovevo sforzare troppo a tenere la testa alta. È meglio
ereditare dei buoni del tesoro in una scatola di metallo che un magazzino di
glorie ancestrali ormai vuoto.
Probabilmente è per questo motivo che mi irritavo quando
Kailas Babu cercava di usare grandi crediti dell’ormai fallita banca dei suoi
antenati! Mi sembrava che in qualche modo disprezzasse mio padre per essersi
guadagnato i suoi soldi. Mi faceva infuriare: chi era lui per disprezzarci? Un
uomo che ha fatto tanti sacrifici, resistito alle tentazioni, senza il
desiderio di diventare famoso, che grazie alla propria attenzione, intelligenza
e capacità era riuscito ad abbattere ogni ostacolo, sfruttando ogni piccola
chance per costruire il suo gruzzolo con le sue stesse mani, no, non può essere
disprezzato solo perché non porta il suo dhoti sotto alle ginocchia!
Al tempo ero giovane, per questo reagivo così, ma ora sono
vecchio e non mi importa più, sto bene e non mi manca niente. Se un uomo che
non ha nulla trae piacere a sbeffeggiare gli altri, a me non costa nulla, e il
poveretto forse trova da questo un po’ di conforto.
Quello che mi colpiva, poi, era che nessuno pensava che
Kailas Babu fosse irritante, solo io. Egli aveva infatti una strana e rara
innocenza ed era completamente coinvolto nelle attività e nelle sfere affettive
dei suoi vicini. Sorrideva a tutti, dal più giovane al più anziano, e provava
un genuino piacere ad informarsi gentilmente su ciascuno, chiunque e dovunque
fosse. Ad ogni incontro si lanciava in una serie di domande “Come stai? Come
sta Shashi? Tuo padre sta bene? Ho sentito che il figlio di Madhu aveva la
febbre, si è ripreso? È da molto che non vedo Harisharan Babu, è stato malato?
E come sta Rakhal? A casa stanno tutti bene?” e così via.
Era anche sempre molto ben vestito. Non aveva molti abiti
ma tutti i giorni li arieggiava al sole: il gilé, lo scialle e la camicia –
insieme con la federa, il materasso e l’antico copriletto – venivano spazzolati
ed appesi ad un filo, quindi piegati e posti con cura dentro all’armadio.
Quando lo si incontrava sembrava sempre vestito per la domenica. La sua stanza,
per quanto poco arredata era immacolata e tutto sommato sembrava stare meglio
di quanto non fosse in realtà. Per mancanza di domestici, chiudeva la porta
della sua camera, piegava con cura il suo dhoti e stirava il suo scialle e la
sua camicia. Aveva perso i grandi possedimenti della sua famiglia, ma in
qualche modo era riuscito a salvare dalle fauci della povertà una preziosa
profumiera, un vasetto di brillantina, un piattino d’oro, una pipa d’argento,
un costoso scialle, un paio di pantaloni vecchio stile ed un turbante. Se
capitava l’occasione, li tirava fuori per far rivivere la gloria e la fama
mondiale dei Babus di Nayanjor.
Per quanto gentile e caro, talvolta poteva essere
presuntuoso, ma solo come segno di lealtà verso i suo avi. La gente lo
assecondava e lo trovava molto affascinante. Lo chiamavano “Thakurda” – signor nonno
– e si radunavano spesso a casa sua. Ma, col timore che il costo del tabacco
fosse troppo alto per i suoi scarsi mezzi, qualcuno lo portava e diceva
“Thakurda assaggiate questo, è ottimo!”. Lui faceva qualche tiro e diceva
“Niente male, davvero niente male”, quindi iniziava a parlare di tabacchi
pregiati e magari chiedeva se qualcuno voleva provarli. Ma dire di sì voleva
dire andare in cerca di fantomatiche chiavi o sentire che quel birbante del
servo Ganesha chissà dove l’aveva messo – accuse che Ganesha accettava
serenamente – finché qualcuno diceva “Non vi preoccupate, Thakurda, sarebbe
stato troppo per noi, questo va benissimo”.
Thakurda sorrideva e non ripeteva l’offerta. Quando la
gente si alzava per andarsene talvolta gli diceva “Quand’è che vieni e mangiamo
insieme?”
“Quando volete”, gli rispondevano.
“Va bene, aspettiamo che piova un poco e faccia più fresco,
non possiamo abbuffarci con questo caldo”.
Quando arrivavano le piogge, nessuno gli ricordava la sua
promessa e se per caso qualcuno tornava sull’argomento, tutti dicevano “Meglio
aspettare che passino le piogge”.
I suoi amici erano d’accordo che non si addiceva a lui
vivere in un posto così piccolo e che per lui era di certo una dura prova
doversi abituare, ma era così difficile trovare un luogo decente a Calcutta! Ci
saranno voluti 5-6 anni per trovare una buona casa in affitto.
“Non vi preoccupate amici”, diceva Thakurda, “è un piacere
vivere vicino a voi. Ho una grande casa a Nayanjor ma non ci sto bene là”.
Sono sicuro che Thakurda sapeva che tutti avevano capito qual
era la sua vera situazione e quando lui pretendeva che l’ormai defunta casata
di Nayanjor esistesse ancora e tutti gli davano corda, sapeva nel suo cuore che
questo mutuale inganno era semplicemente un’espressione di amicizia.
Ma io trovavo tutto questo disgustoso! Quando uno è giovane
vorrebbe calpestare la vanità, seppur innocua, e la stupidità, come peccati
meno giustificabili di altri molto più seri. Kailas Babu non era stupido, tutti
ascoltavano i suoi consigli, ma riguardo alla gloria di Nayanjor perdeva la
testa. Le persone gli volevano troppo bene per obiettare alle insensatezze che
diceva, così lui non aveva freni, e se qualcuno decantava Nayanjor, lui si
beveva tutto, senza sospettare per un attimo che altri avrebbero potuto
dubitarne.
Spesso ho desiderato di poter aprire con un paio di
cannonate la vecchia e falsa fortezza nella quale viveva, che lui credeva
sarebbe durata per sempre. Se un cacciatore vede un uccello comodamente posato
su un ramo vicino, vorrà sparargli; se un ragazzo vede una pietra in bilico su
un dirupo, vorrà mandarla giù con un calcio. Dare l’ultima spinta ad una cosa
che sta cadendo ma che ancora resiste, dà molta soddisfazione ed attira il
plauso degli astanti. Le bugie di Kailas Babu erano così semplici e poco
credibili che danzavano di fronte ai cannoni della verità con i quali li avrei
volentieri distrutti; solo la mia pigrizia ed il rispetto per le convenzioni mi
trattenevano.
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