sabato 30 aprile 2016

Il vento Loo

Il percorso del Loo segnato dalle frecce arancioni
Questo post è una libera traduzione della voce wikipediana inglese sul vento Loo.
Pur conoscendone in prima persona i nefandi effetti, ma mancando di dati precisi, durante una ricerca su internet abbiamo trovato la pagina inglese di Wikipedia particolarmente ricca di interessanti dettagli, che possiamo anche in parte confermare per esperienza diretta.

Il Loo è un forte vento caldo e asciutto che nei pomeriggi d’estate soffia sulla regione centro-occidentale della pianura Indo-Gangetica, in Pakistan e nel nord dell’India, in particolare nei mesi di Maggio e Giugno.
A causa delle sue elevate temperature (tra i 45 e i 50 gradi), l’esposizione a questo vento spesso conduce a fatali colpi di calore.
Creando una bassissima umidità ed alte temperature, il Loo tende a seccare rapidamente la vegetazione che nelle aree affette perde le sue tipiche tinte verdeggianti per assumere un anonimo color marrone.

Inizio e fine del Loo
Il Loo ha origine nelle grandi regioni desertiche della zona nord-occidentale del subcontinente, come il Grande Deserto Indiano (o Deserto del Thar), il limitrofo deserto del Cholistan (o Rohi) e le aree desertiche a sud del Balochistan, e termina verso la fine dell’estate con l’arrivo delle piogge monsoniche.
Spesso prima di queste si verificano delle brevi ma violente tempeste di sabbia, note localmente con il nome di kali andhi, letteralmente tempesta nera, mentre una volta arrivata la pioggia il paesaggio cambia nuovamente colore, dal marrone al verde, grazie anche alla fine del Loo.
(Nella città di Varanasi le kali andhi avvengono almeno un paio di volte a stagione quando il Loo alza la sabbia situata sulla desertica riva opposta del Gange n.d.r.)

Adattamento al Loo
Siccome le pianure del nord dell’India e del Pakistan sono entrambe molto calde ed estremamente secche, durante questa stagione l’acqua evapora molto rapidamente e sebbene ciò comporti il prosciugamento di laghi e pozze, l’estrema secchezza viene utilizzata per creare dei sistemi di refrigeramento basati appunto sull’evaporazione.
In particolare risulta molto utile la combinazione tra l’acqua e l’erba khas, in inglese vetiver (nome scientifico chrysopogon zizanoides), che viene seccata e con la quale vengono create delle specie di spesse stuoie che vengono appese davanti a porte e finestre (talvolta perfino sui tetti delle autovetture).
Lo stesso semplice principio viene seguito anche nella costruzione di utili air-cooler, antesignani dell’aria condizionata, costituiti da grandi cubi di metallo (recentemente anche di plastica), rivestiti su tre lati di erba khas e sotto ai quali si trova una piccola cisterna d’acqua.
Grazie ad una pompa che preleva l’acqua ed inumidisce costantemente le pareti, e ad una ventola, entrambe situate all’interno, questo marchingegno produce un’aria sorprendentemente fresca.
L’unico inconveniente è dato dalla velocissima evaporazione dell’acqua e bisogna provvedere che la cisterna sia sempre piena.
Purtroppo anche laghi, stagni, fiumi ed ogni tipo di riserva d’acqua sono affetti dal calore del Loo e del sole, e se non vengono in qualche modo protetti tendono a prosciugarsi molto in fretta.

Effetti ecologici del Loo
Molti uccelli ed animali durante l’estate muoiono a causa del Loo, specialmente nelle aree deforestate dove il vento caldo soffia senza ostacoli e non sono presenti ripari di alcun tipo.
Alcune malattie portate dagli insetti, come la malaria, storicamente registrano un calo durante la stagione del Loo, a causa del fatto che anche il numero di insetti tende a diminuire.
Perfino prima della scoperta, nel 1897, che sono le zanzare a trasmettere la malaria, gli ufficiali inglesi avevano notato come il Loo, durante l’estate, rendesse naturalmente le pianure del nord dell’India relativamente esenti dalla malattia.

Il Loo nella cultura popolare
A causa della pericolosità, potenzialmente fatale, degli effetti del Loo su esseri umani, animali e piante, nella cultura popolare Indo-Pakistana viene spesso descritto come un vento diabolico.
Evitare l’esposizione al Loo è altamente raccomandato a bambini ed anziani, ma anche agli animali domestici, e la maggior parte delle persone cerca di rimanere al chiuso durante i pomeriggi in cui soffia.
I colpi di calore in questo periodo vengono chiamati Loo lagna, letteralmente essere colpiti dal Loo, contro i quali il rimedio migliore è l’assunzione di liquidi.
Molto popolari sono gli sherbet (o sharbat), tipici drink della tradizione mussulmana, composti da sciroppi di vari aromi, mischiati con acqua, latte, ghiaccio e zucchero.
In particolare merita una citazione il rooh afza, una ricetta che combina numerosi ingredienti ritenuti rinfrescanti, originaria della medicina unani, praticata tradizionalmente dall’Impero Moghul in India e dalle culture mussulmane del sud e del centro dell’Asia.

Altre bevande molto popolari considerate ottimi rimedi contro il Loo sono anche il lassi, a base di yogurt, acqua e zucchero, i succhi di bael (frutto della pianta aegle marmelos), e il kajri ka panna, una bevanda a base di mango acerbi.

venerdì 29 aprile 2016

Parabola del negoziante lottatore

Sushil Kumar, lottatore indiano campione del mondo nel 2010
C’era una volta un club di lotta presieduto da un vecchio lottatore, il quale era anche un maestro spirituale.
Il suo discepolo favorito era un negoziante, non perché questi fosse il miglior lottatore, ma perché conosceva i loro precedenti legami karmici.
Il negoziante però, all’oscuro di questo, pensava di essere davvero il migliore, così importunava continuamente il maestro affinché lo facesse combattere contro un gigantesco lottatore professionista della zona.
Il maestro sapeva benissimo che il suo allievo non avrebbe potuto neppure mettere in difficoltà il professionista ma, volendo aiutarlo a soddisfare il suo desiderio, un giorno lo chiamò a sé e gli chiese “Che cosa ti fa pensare che tu saresti in grado di battere quel forte lottatore?”.
Il negoziante rispose “Beh, so di essere il tuo migliore allievo, questo mi dà fiducia. Sebbene sarà molto difficile: so che per prepararsi mangia addirittura una capra al giorno!”.
Il maestro rispose “E allora? Fai una cosa: una mattina, quando si reca nella foresta per i bisogni, seguilo e controlla quanto defeca”.
Il negoziante iniziò ad obiettare ma il maestro fu irremovibile “Ora non discutere, se vuoi che ti aiuti, fa quello che ti dico!”.
Seppur controvoglia il negoziante obbedì ed il giorno dopo si recò dal maestro per il resoconto: quasi un chilo.
Quindi il maestro disse “Non hai niente da temere. Mangia una capra intera ma non può digerirla. Ti do il permesso di combattere questo gigantesco lottatore”.
Il giorno stabilito, poco prima dell’incontro, il negoziante si prostrò completamente di fronte al maestro, questi lo sollevò, prese un shakarpala (un tipico biscotto indiano), vi soffiò sopra ripetendo un mantra e lo mise in bocca all’allievo.
Una volta saliti sul ring ed iniziato l’incontro, in pochi secondi il negoziante afferrò un gamba dell’avversario, facendolo cadere e lo bloccò con una presa vincendo l’incontro.
Fu così estasiato che cominciò a ballare ma il maestro lo riprese subito “Mascalzone di un negoziante! Perché stai danzando? È il shakarpala il responsabile!”.

Imbarazzato, l’allievo si prostrò immediatamente a ringraziare il maestro.

giovedì 28 aprile 2016

Verdure indiane, III parte

Senza addentrarci nel complessissimo argomento dei legumi secchi (ai quali abbiamo dedicato un post specifico http://informazioniindiaenepal.blogspot.in/2016/04/i-legumi-indiani.html), tra le verdure reperibili sui mercati dell’India del nord, in inverno sono molto diffusi i piselli freschi, abbastanza economici e di buona qualità, come anche i fagiolini, seppur i più comuni siano i fagioli egiziani prodotti dalla pianta dolichos lablab, chiamati in hindi bora.
Speso si trovano due qualità di bora piuttosto diverse, una verde chiaro ed una scuro, ma non siamo riusciti a determinare se si tratti di due cultivar diverse o la stessa a differente maturazione.
Lunghi entrambi circa 30-40 cm, rispetto ai fagiolini comuni in Italia, che non sono altro che i baccelli immaturi dei fagioli comuni della specie phaseolus vulgaris, i bora di colore chiaro sono leggermente più spessi, più duri e meno saporiti, mentre quelli scuri sono più simili ai fagiolini nostrani, infatti sono ottimi in casseruola con aglio e pomodoro, alla maniera mediterranea.
Abbastanza comuni sono anche i lunghi fagiolini del genere vigna unguiculata sottospecie sesquipedalis, che in inglese vengono chiamati, esagerando un po’ le dimensioni, yardlong bean (una yard corrisponde a circa 90 cm).
Trichosanthes cucumerina
Esistono anche altri bacelli di cultivar di fagioli chiamati in italiano “mangiatutto”, che esteticamente sembrano un incrocio tra i normali fagiolini e le fave (purtroppo assenti nel subcontinente indiano), il cui uso è di solito limitato ad arricchire misti di verdure.
Un ultimo legume consumato fresco, tipico di India e Pakistan, è il bacello della pianta cyanopsis tetragonoloba, chiamato in hindi gavar.
Il nome significa “cibo per mucche”, ma dato il suo sempre maggior costo, sta perdendo questo suo antico uso, per venire sempre più spesso cucinato per gli esseri umani, anche perché si è recentemente scoperto possedere ottime proprietà, oltre alla facilità nell’essere coltivato.
Nell’aspetto ricordano molto i comuni fagiolini, solo leggermente più piatti e di una tonalità di verde più chiara.

Altri ortaggi tipici del subcontinente indiano sono prodotti dalle piante del genere trichosanthes, presenti in India con più specie tra cui la più diffusa per uso culinario è la trichosanthes dioica, che produce abbondanti frutti chiamati in hindi parwal.
Di forma oblunga e dimensioni tra gli 8 e i 10 cm, hanno una lucente buccia liscia verde, talvolta con striscie più chiare, mentre all’interno racchiudono una polpa verdina e numerosi grossi semi.
Seppur tagliati a fette siano comuni ingredienti di misti di verdure, il gusto leggero e dolciastro dei parwal, e soprattutto la loro consistenza irregolare, non ne fanno una delle verdure più gradite.
Oltre alla buccia, piuttosto resistente, che contrasta con la poca polpa morbida, possiedono numerosi semi, di forma variabile e duri, simili a fagioli secchi, e non perdono questa poco piacevole consistenza neppure dopo lunghe cotture.
L’ampissimo utilizzo dei parwal è dato, fondamentalmente, dalla comune reperibilità e dai prezzi estremamente economici tutto l’anno.
Simile è la congenere trichosanthes cucumerina, della quale si consuma il frutto che si presenta in forma allungata (da cui il nome inglese serpent gourd, zucca serpente), quelli edibili sui 30 cm, verde opaco, la cui polpa risulta essere ben poco consistente e quasi insapore.
Simili sono i taroi, o tori, frutti delle piante luffa acutangula e luffa aegyptiaca, che ricordano in qualche modo nell’aspetto le zucchine, ma purtroppo ne sono molto lontane nel gusto.
Come i succitati parwal, questi ultimi ortaggi hanno caratteristiche organolettiche piuttosto scarse, ma sono apprezzatissimi grazie alla vasta diffusione ed al conseguente prezzo economico.

Tra i numerosi ortaggi cucinati nei misti di verdure, bisogna ricordare i jack-fruit, giganteschi frutti prodotti dalla pianta artocarpus heterophyllus, reperibili tutto l’anno sul mercato, essendo l’India non solo il paese di provenienza ma anche il maggior produttore mondiale.
In italiano i frutti possono essere chiamati in due modi: giaca, dal portoghese jaca, o catala, dall’hindi katahal.
Tolta la spessa buccia legnosa, vengono tagliati a dischi spessi 2-3 cm e cucinati a pezzetti, ed hanno una caratteristica consistenza che ricorda la carne, mentre il gusto è decisamente leggero e dolce, sebbene sia difficile da distinguere negli speziati curry indiani.

Come ultima pianta commestibile citiamo la moringa oleifera, originaria delle zone pedemontane dell’himalaya.
Questa pianta risulta essere particolarmente versatile visto che se ne mangiano le foglie, i fiori, i frutti e le radici
Più comunemente vengono usate le foglie, alla maniera degli spinaci, e i frutti giovani, grandi bacelli triangolari, che contengono dei semi rotondi simili a fagioli; questi bacelli, chiamati in inglese drumstick, per la forma vagamente simile a bastoni da tamburo, vengono cucinati per arricchiere i classici misti di verdure.

mercoledì 27 aprile 2016

Verdure indiane, II parte

Un gradito ortaggio originario del subcontinente indiano e presente costantemente sul mercato con numerose forme è la melanzana.
Le più diffuse sono quelle allungate ma anche quelle grandi rotonde sono molto comuni, mentre più rare sono quelle piccole rotonde.
A queste varietà va aggiunta la specie di colore bianco, cui si deve il curioso nome inglese delle melanzane, eggplant (pianta delle uova), considerato sinonimo di aubergine.
La forma di queste piccole melanzane bianche in realtà è allungata, simile a quelle viola, ma durante la crescita è facile immaginare come la pianta possa sembrare produrre effettivamente tante piccole uova.
Per quanto riguarda il gusto, sia quelle viola, ma ancor di più quelle bianche, ne hanno molto poco e difficilmente arrivano ad avere quel sapore forte e pungente, piuttosto apprezzato in cucina, di cui sono provviste spesso le melanzane italiane.
Ultimo particolare, di natura linguistica, come il colore rosa chiaro viene detto in hindi pyaji, da pyaj cipolla, il viola scuro, baigani, prende il nome dalle melanzane, chiamate baigan.

I peperoni in India sono reperibili in tre varietà: i più comuni tondeggianti verdi, lunghi verdi e lunghi rossi; la loro produzione non è elevatissima ma, quando di stagione, sono piuttosto apprezzati.
I peperoncini piccanti invece sono presenti costantemente in grandi quantità sia nella nota forma allungata, sia in una tondeggiante, più potente ma anche più saporita.

Un ortaggio estremamente diffuso nella cucina indiana è la zucca, piuttosto versatile negli stufati di verdure e presente in diverse varietà, sia del genere cucurbita, molto comune anche in europa, sia con specie del genere lagenaria ed altre ancora.
La più versatile è la lagenaria longissima, chiamata in italiano zucca da pergola (in hindi lokhi), dotata di una buccia liscia verde chiaro e lunga di solito oltre i 50 cm fino a circa un metro.
Sia la buccia che la polpa, di colore bianco, sono più morbide delle zucche cucurbita ed il sapore, piuttosto leggero e dolce, si presta molto bene a curry di patate, di ceci e quelli di verdure miste.
Secondo la brevissima voce italiana di Wikipedia è comune anche nel sud Italia, di cui siamo colpevolmente poco esperti, e trova vari impieghi nella cucina del Cilento ed in quella napoletana; conoscendo l’ortaggio e le capacità culinarie italiane, non dubitiamo vengano prodotte ottime pietanze.
Oltre alla forma allungata, sui mercati  indiani si trovano spesso anche di forma rotonda della specie lagenaria sicaria, i cui frutti sono chiamati in italiano zucche a fiasco, per la loro forma e il loro utilizzo come recipienti.
Sono anche apprezzatissime, sia in India che in Africa, come casse armoniche di numerosi strumenti, soprattutto a corde, tra cui gli indiani sitar, veena, tanpura e surbahar.
Tradizionalmente nel subcontinente indiano, quelle dalla forma simile a due bocce una sopra all’altra erano usate anche dagli asceti per produrre delle ciotole per l’elemosina e il dio Shiva stesso viene spesso ritratto con uno di questi contenitori.
In sud-america è nota invece per essere utilizzata come recipiente per il consumo dell’erba mate.

Altra zucca sporadicamente presente sui mercati è il cosidetto melone invernale, dal nome inglese; piccola, rotonda e verde scuro, fa parte della sottotribù benincasinae, come anche la tinda, nome indiano di una zucca piccola e verde chiaro, chiamata zucca rotonda indiana, o zucca mela.
Piuttosto comune è  il chayote, frutto della pianta cucurbitacea sechium edule, che per la forma viene chiamata in inglese pera zucca o pera verdura, mentre in italiano si dà più importanza alla caratteristica di alcuni frutti di possedere delle escrescenze aghiformi e viene chiamata zucca centenaria oppure zucchina, o patata, o melanzana spinosa.
Liguisticamente, comunque, il nome più corretto, assieme all’originale spagnolo chayote, è quello derivato dal genere, cioè sechio.
Per finire l’argomento zucche, citiamo il kundru, nome indiano del frutto della pianta coccinia grandis, che tra le cucurbitaceae indiane è quella che più di tutte assomiglia, seppur solo vagamente, alla zucchina.

Un ortaggio che trova un clima favorevole, sebbene sia originario dell’Africa, è il gombo, nome del frutto giovane della pianta abelmoschus esculentus, chiamato in inglese okra, o lady’sfinger, e in hindi, bindi.
I gombi sono lunghi circa 10-15 cm, conici, da cui il nome inglese “dita di donna”, ed hanno un’originale forma ottagonale.
La buccia verde è leggermente setolosa ma sottile e commestibile, e la polpa all’interno ricca di semi, anch’essi edibili.
Di solito i gombi vengono cucinati saltati in padella, da soli o insieme a cipolle e patate, piuttosto che essere utilizzati nei classici stufati misti.
Saltandoli in padella, dai semi del gombo viene prodotta una sostanza viscida, che seppur a prima vista possa sembrare poco gradevole, in realtà si asciuga durante la cottura (15-20 minuti) ed ha anche la non comune proprietà di lubrificare l’ugola, quindi il suo consumo può essere sorprendentemente efficace nel migliorare le prestazioni canore.
I gombi possiedono molti elementi importanti per la nutrizione umana, grazie ai quali sono considerati un alimento particolarmente sano: numerose fibre, alta concentrazione di vitamina C, sodio, potassio, antiossidanti e sono privi di colesterolo e grassi.
A tutto questo bisogna aggiungere che il gombo ha un sapore decisamente gradevole, che ricorda vagamente zucchini e asparagi, e forse anche il cuore dei carciofi, tre apprezzabili ortaggi che purtroppo in India sono assenti.

Nella scala dei sapori, dalla parte opposta rispetto al gombo, si trova un prodotto originario dell’India che a causa del suo noto retrogusto amaro è considerato il terrore dei bambini, e anche di qualche adulto: la karela, nome hindi del frutto della pianta momordica charantia, chiamata in inglese, non a caso, melone amaro o zucca amara (http://informazioniindiaenepal.blogspot.in/2016/02/le-karela.html).
La forma del fenotipo indiano è oblunga, sui 10-15 cm di lunghezza e all’esterno si presenta tendenzialmente di un piacevole colore verde vivo e ricoperta di piccole escrescenze simili a grandi brigole, mentre l’interno è composto da una sostanza bianca spugnosa, che ricorda l’albedo della buccia degli agrumi, dove sono incastrati alcuni grossi semi.
Per essere cucinata, la karela viene tagliata a fettine e tutta la parte bianca interna e i semi vengono rimossi, per cui rimangono dei dischetti composti essenzialmente dalla parte bitorzoluta esterna.
Di solito qualche sottile fettina di karela viene aggiunta ai misti di verdure, per nascondere il loro gusto amaro ed esaltare quello degli altri ortaggi, oppure vengono saltate/fritte in padella, con un po’ di sale e peperoncino, e sono un ottimo accompagnamento all’accoppiata riso-dal (brodo di lenticchie).
Nonostante il suo gusto amaro, comunque tollerabile, non sia apprezzato da tutti, il consumo di karela è comune, non solo per il basso costo, ma poiché è riconosciuto possedere numerose proprietà benefiche per l’organismo umano.

Simile al karela, ma più raro sul mercato, è il frutto della pianta congenere momordica dioica, chiamato in inglese zucca spinosa, per la forma delle sue tipiche protuberanze.

martedì 26 aprile 2016

Verdure indiane, I parte

Come riportato in precedenti post sulla culinaria indiana (http://informazioniindiaenepal.blogspot.com/search/label/Culinaria), la maggior parte degli indiani segue una dieta latto-vegetariana dove, oltre ai latticini, hanno chiaramente una notevole importanza le verdure.
L’India, grazie alla vastità della sua superficie, produce una grande quantità di ortaggi, di discreta qualità e varietà, ma a causa di noti problemi di arretratezza, che si riflettono su lenti trasporti e sulla carenza di sistemi di conservazione, nei mercati ortofrutticoli indiani si è costretti a seguire alla lettera il vecchio adagio che consiglia di consumare le verdure di stagione, poiché le altre, se presenti, sono di bassa qualità e molto costose.
Da questo ne deriva che i prodotti in vendita tendono ad essere piuttosto simili quindi monotoni.

Partendo dagli ortaggi più comuni presenti tutto l’anno, iniziamo con le patate, sulle quali non vi è nulla di particolare da segnalare, a parte il fatto che sono reperibili in due sole qualità: bianche e talvolta rosse.
In certe periodi quelle bianche possono essere a loro volta divise in “vecchie” e “nuove”, più piccole, con la buccia sottile appena formata, molta terra marrone a ricoprirle e vagamente più saporite.
Nella loro umile semplicità, le patate, per ovvie ragioni di praticità e costi, sono comunque l’ortaggio più diffuso sulle tavole indiane e si potrebbe affermare che in molte zone, soprattutto in montagna, quasi non si mangia altro: a colazione per farcire delle focacce calde chiamate paratha, a pranzo e cena stufate in intingoli speziati, i noti curry, e nel pomeriggio come snack, in particolare nel ripieno delle samosa, triangolini di pasta ripieni di verdure e fritti.
Diffuse sono anche alcune qualità di patate dolci (ipomoea batatas), dal gusto quasi impercettibile, quindi estremamente versatile in cucina.

I venditori ambulanti che spingono il proprio carretto carico di patate, generalmente di qualità inferiore ma ad un prezzo migliore di quello dei banchetti fissi, propongono anche le cipolle, dalla buccia di colore viola chiaro e sapore non eccessivamente forte, caratteristiche che fanno supporre si tratti in realtà di scalogno.
Apprezzatissime dagli indiani sia crude che per curry, soffritti e ripieni vari, le cipolle, seppur reperibili tutto l’anno, sono vincolate alle stagioni: la qualità non cambia di molto, ma i prezzi, già di per sé non economici, talvolta salgono alle stelle ed in quei periodi, per qualche tempo, spariscono dalle tavole.
Comune è anche l’erba cipollina, molto simile a quella reperibile in Italia.

Continuando con ortaggi classici, i pomodori, nei mercati del nord dell’India, sono presenti in genere con due soli tipi: tondeggianti e ovoidali.
La qualità di entrambi è piuttosto bassa per quasi tutto l’anno, poiché il pomodoro, data la delicatezza, è l’ortaggio che più di tutti richiederebbe qualche particolare attenzione nella raccolta, smistamento e conservazione.
Di solito quelli tondeggianti sono coltivati in loco, mentre quelli ovoidali provengono da serre.

Dal punto di vista della conservazione, decisamente più comodi sono i cavolfiori e le verze, i quali, specialmente i primi, sono reperibili quasi tutto l’anno, esclusi solo i mesi più caldi.
Sulla qualità dei cavoli c’è poco da segnalare, quando di stagione sono “ottimi” ed a buona prezzo, mentre in estate sono costosi e non molto invitanti; talvolta in inverno fanno la loro apprezzata comparsa anche i broccoli.
Le verze sono molto utilizzate anche crude, a causa dell’assenza di lattuga e altri ortaggi a foglia per insalate, a parte la saltuaria comparsa, nei mesi più freddi, di insalata “riccia”.

L’assenza di bietole invece viene bilanciata dalla massiccia ed apprezzata presenza degli spinaci, come anche del fienogreco fresco e del bathua una pianta a foglie seghettate, dal sapore simile a bietole e spinaci.
A questi bisogna aggiungere anche le foglie di numerose altre piante (carote e rape ad esempio), utilizzate soprattutto nella cucina casalinga, per insaporire i curry e rinforzare l’apporto di vitamine e minerali di cui sono forniti.
Nella famiglia dei cavoli, che provengono tutti dalla specie brassica oleracea, ricordiamo anche il kohlrabi, termine inglese derivato dal tedesco, che significa cavolo-rapa, dall’aspetto esteriore simile appunto ad una rapa.
In hindi viene chiamato ganth gobhi, vagamente traducibile come cavolo annodato, e viene usato come la verza.

Tra i tuberi, molto diffuso è il taro, il lungo rizoma marrone della pianta colocasia esculenta, che viene cucinato in modo simile alle patate, cui somiglia parecchio sia nella consistenza che nel sapore.

Un altro tubero tipico del sud dell’Asia è lo yam piede d’elefante (dal nome inglese), di medio-grandi dimensioni, tondeggiante ma schiacciato, talvolta pieno di bitorzoli e sporco di terra.
La polpa è arancione-rosata e viene tenuto in alta considerazione per il suo gusto leggermente più deciso di quello delle patate, simile alla zucca; ottimo per stufati, ma anche tagliato a fette sottili e fritto.

Tra le verdure indiane comuni anche nell’area mediterranea, si segnalano i diffusissimi ortaggi da radice come rape, rapanelli e radici (di solito l’asiatico daikon), dei quali vengono utilizzate anche le foglie verdi, alla maniera degli spinaci.
Particolarmente varia è la scelta di carote presenti con ben tre diverse cultivar dotate di distintive tonalità di colore: arancione, rosso e nero.
Quelle arancioni, comuni tutto l’anno, sono grossomodo come quelle europee a parte le dimensioni leggermente minori; quelle rosse, più vincolate alle stagioni e presenti soprattutto d’inverno, hanno una polpa più morbida ed un sapore più delicato, ottime crude; quelle nere, o forse più precisamente viola molto scuro, oltre ad essere solo saltuariamente presenti sul mercato, hanno la poco simpatica proprietà di perdere colore, sono piuttosto dure e “fibrose” e con un gusto forte, quindi sono presumibilmente più adatte ad essere cucinate piuttosto che consumate crude.
Nei banchetti che propongono insalatine fresche con le carote tagliate a strisce è molto comune anche la barbabietola, considerata anche un ottimo ingrediente per insaporire le zuppe.

Ma il vero principe degli ortaggi da mangiare crudi è sicuramente il cetriolo, che nonostante subisca ovvi sbalzi stagionali è quasi sempre reperibile.
Originario proprio del subcontinente indiano, le sue pur scarse proprietà si sposano molto bene con il clima torrido ed è uno dei più apprezzati rifornitori di liquidi e sali minerali, tanto che viene spesso proposto da venditori ambulanti.
Una volta pelato, il cetriolo viene tagliato longitudinalmente per farne quattro spesse strisce e viene cosparso di kala namak (sale nero), un gustoso sale, tipico indiano, di colore amaranto scuro da grezzo (da cui il nome kala, nero, namak sale) ma che sbriciolato appare rosa.
Le dimensioni dei cetrioli indiani sono leggermente ridotte rispetto a quelli dei mercati italiani e, a causa della loro velocissima crescita, sono molto più maturi, quindi con la buccia “tigrata” di giallo-verde e liscia, e non verde uniforme con piccole protuberanze.

Nei mesi più caldi compaiono sul mercato anche gli interessanti “cetrioli armeni”, dal nome inglese, prodotti in realtà da una varietà della pianta del melone, la cucumis melo var. flexuosus.
I frutti di questa pianta, chiamati in hindi kakhri, sono lunghi da una decina ad una quarantina di centimetri, sottili, leggermente attorcigliati e ricoperti di una morbida buccia edibile, vagamente setolosa, con lunghe rughe longitudinali; quindi, all’esterno, non assomigliano in alcun modo ai cetrioli.

La polpa all’interno, invece, provvista di un cuore di piccoli semi, ha qualche somiglianza con il cetriolo, suo parente cucurbitaceo (cucumis sativus), ed il sapore è pressoché identico, o forse ancora migliore, grazie ad un piacevole retrogusto d’erba di campo, soprattutto quando consumati leggermente acerbi.

lunedì 25 aprile 2016

Parabola del re Sivi

C’era una volta un re chiamato Sivi, molto generoso, compassionevole e protettore di ogni creatura.
Un giorno il dio Indra decise di mettere alla prova il suo carattere prendendo la forma di un falco ed inseguendo Dharma, il dio della giustizia, che in quel momento aveva preso le sembianze di una tortora.
Questa scappò spaventata ed andò a rifugiarsi nel grembo di re Sivi.
Avvicinatosi, il falco disse con voce umana “O Re, questo è il mio cibo naturale; dammi la tortora, ho fame! Sapendo che io morirò se tu non ascolterai la mia preghiera, potresti considerarti corretto e giusto?”.
Sivi rispose “Questa creatura è volata nel mio grembo per protezione, non posso abbandonarla, quindi ti darò dell’altra carne per l’equivalente del suo peso”.
Il falco annuì “Va bene, dammi la tua carne”.
Il re acconsentì, ma appena si tagliava un pezzo di carne e lo metteva sul piatto della bilancia, la tortora sembrava pesare sempre di più, finché re Sivi non mise tutto sé stesso sul piatto.
A quel punto si udì una voce celestiale “Ben fatto, questo è l’equivalente del peso della tortora”.

Quindi Indra e Dharma abbandonarono la forma animale e benedirono re Sivi.

domenica 24 aprile 2016

La lebbra a Varanasi

The times of india.svgLibera traduzione di un articolo sulla lebbra apparso sul The Times of India alcuni anni fa.

35 casi di lebbra registrati nel distretto di Varanasi nel mese di Giugno 2013.
Sebbene il governo consideri la lebbra quasi estirpata, con la diffusione scesa sotto all’1% negli ultimi anni, l’Ufficio Distrettuale della Lebbra di Varanasi teme che l’aver interrotto l’attiva ricerca di pazienti stia facendo aumentare i casi di lebbra nel distretto.
Secondo Rahul Singh, addetto al sopraccitato ufficio, nel mese di Giugno nel distretto sono stati riscontrati ben 35 nuovi casi, in netto incremento rispetto alla media mensile intorno ai 20.
“Più del 50% dei casi di lebbra a Varanasi sono multibacillari, mentre idealmente la percentuale dovrebbe essere del 40%. La disabilità dei nuovi pazienti raggiunge il 9% in città, invece del 3%. I nuovi casi di deformità e disabilità stanno aumentando la pressione sui lebbrosari, visto che i pazienti altrove vengono ancora ostracizzati.
Lo stato non ha nessun progetto o programma per riabilitare queste persone ed i lebbrosari di solito sono mantenuti da ONG.
Altro dato allarmante, il 15% dei casi sono bambini, mentre non dovrebbe superare il 7% del totale”.
Tra gli ultimi 35 casi, 18 sono paucibacillari e 17 multibacillari, 6 pazienti sono affetti da deformità e 5 sono bambini.

“La ricerca attiva di pazienti affetti da lebbra è stata interrotta nel 2005 quando la prevalenza era scesa sotto all’1%, ma gli indicatori che determinano il tasso di prevalenza stanno aumentando in questa regione. Durante le fasi di ricerca attiva, il nostro staff cerca di instaurare un contatto diretto con i pazienti, ma da quando il governo ha interrotto gli interventi specifici, sono i pazienti che vengono a cercare noi. Stando ai nuovi allarmanti dati è indubbio che ci sia di nuovo bisogno di una ricerca attiva”.

martedì 19 aprile 2016

I legumi indiani

La dieta caratteristica della maggior parte degli indiani viene definita latto-vegetariana, in quanto esclude il consumo di carni e uova di ogni genere, ma comprende latticini e verdure.
In realtà oggigiorno il consumo di carne e uova è sempre più diffuso, grazie a migliori condizioni economiche e minori pressioni di tipo cultural-religioso, ma bisogna ricordare che molte persone che consumano carne e uova, seppur tecnicamente non possano essere considerate vegetariane, lo fanno in maniera decisamente sporadica ed il fabbisogno giornaliero di proteine lo assumono anche loro tramite i latticini, oppure dalla combinazione cereali-legumi, entrambi molto utilizzati nella culinaria indiana.
I cereali vengono assunti sotto forma di riso o di pane, di solito prodotto da farine di grano più o meno raffinate, mentre maggiore è la varietà di legumi.

Più precisamente bisognerebbe parlare di civaie, termine che in agronomia indica i semi prodotti dalle piante della famiglia delle fabaceae o leguminose, dalle quali è derivato il colloquiale termine legumi, inizialmente attribuito alle piante ma poi esteso ai semi commestibili che producono.
L’India è il maggior produttore mondiale di lenticchie, con una produzione pari a quasi il 30% del totale (curioso notare come, al secondo posto, con il 24%, ci sia un paese dal clima completamente differente da quello indiano, il Canada).
Nella produzione di ceci l’India supera addirittura il 50% mondiale con quasi 6 milioni di tonnellate dei 9 milioni prodotti globalmente.
Nei fagioli comuni, del genere phaseolus vulgaris, l’India è al primo posto per quelli secchi e al quarto per quelli freschi, seppur tra questi ultimi la maggior parte appartengano ad altre specie, soprattutto dolichos lablab, ma anche la locale cyamospsis tetralonogoba.
Riguardo i piselli l’India è il quarto produttore di quelli secchi e il secondo di quelli freschi.

Prima di iniziare la nostra breve panoramica sulle civaie indiane dobbiamo premettere che la distinzione tra i termini lenticchie, ceci, fagioli e piselli, non ha basi scientifico-tassonomiche e può cambiare in base alla lingua: in hindi infatti il termine per lenticchie, dal, viene esteso anche per le civaie in generale, e molti semi ritenuti lenticchie in India, vengono chiamati fagioli in inglese e italiano.
Proprio per definire meglio la questione, recentemente è stato fatto un aggiornamento tassonomico che ha visto lo spostamento di alcune piante del genere phaseolus, che prima le comprendeva quasi tutte, nel nuovo genere vigna, distinguendo così civaie con caratteristiche chiaramente diverse.
Prendendo come base i prodotti più presenti comunemente nei mercati e i nomi datigli dagli indiani, i legumi che in India rientrano nella categoria delle lenticchie sono di numerose specie e tipi.

La lenticchia più comune, e primo esempio di discrepanza linguistica, è la moong dal, che in hindi descrive la lenticchia, dal, della pianta vigna radiata (precedentemente phaseoulus radiatus), ma in inglese ed italiano viene invece chiamata mung bean e fagiolo mungo verde.
Il seme provvisto di buccia assomiglia infatti ad un piccolo fagiolo verde, ma raramente viene utilizzato in forma intera, bensì decorticato e diviso in due, assomigliando quindi a piccole lenticchie gialle.
Il loro uso in cucina è ampissimo, dalle comuni zuppe, a saporiti snack, fino ai numerosi dolci che prevedono l’utilizzo della farina di questa comune e versatile civaia.

Il moong dal può essere confuso con un’altro legume che si presenta di solito di colore giallo e diviso in due, seppur abbia dimensioni ben maggiori: l’arahar dal.
Esso viene prodotto dalla pianta cajanus cajanus (talvolta cajanus indicus), da cui il nome italiano caiano, mentre in inglese viene riconosciuto come un pisello, pigeon pea.
Il suo utilizzo in cucina è pressoché identico al moong dal, rispetto al quale è leggermente meno versatile ma più apprezzato per possedere una maggior consistenza e un più distinto sapore.

Tra le numerose varietà della “vera” lenticchia, prodotta dalle piante della specie lens culinaris subspecie culinaris, la più diffusa nel subcontinente indiano è  chiamata localmente masoor dal, in italiano lenticchia rossa.
Di colore rosa vivo e di piccole dimensioni, in India viene venduta decorticata, sia rotta a metà che intera, ma è possibile trovarla anche intera con la buccia, quindi all’apparenza di colore marrone.
Il suo utilizzo è simile a quello del comune moong dal, seppur la lenticchia masoor sia più delicata e saporita.

Ma le lenticchie più gustose sono sicuramente quelle provenienti dalla pianta vigna mungo, chiamate in hindi urad dal e in italiano fagiolo mungo nero, per distinguerle dagli affini fagioli mungo verdi, moong dal, i primi della nostra lista, prodotti dalla pianta congenere vigna radiata.
Utilizzate intere, con tanto di buccia, le lenticchie urad dal sono molto apprezzate in Punjab, la cui cucina è tra le più ricche e saporite del subcontinente, e sono l’ingrediente principale di gustosi misti di legumi.
Una volta che il seme viene decorticato e diviso in due, l’urad dal appare come una piccola lenticchia bianca, importantissimo ingrediente della cucina del sud dell’India: idli, vada, dosa e uttapam, specialità tipiche, sono tutte preparate partendo da una pasta prodotta attraverso la macinazione di questi semi.

Altre due qualità di dal, inteso come civaie in generale, molto comuni sono la matar ki dal e la chana ki dal, che non sono affatto lenticchie, bensì piselli (matar) e ceci (chana).
In questa loro versione vengono venduti decorticati, secchi e divisi in due, quindi dato il loro colore giallo, assomogliano ai già citati moong dal ed arahar dal, dai quali si differenziano per la forma rotondeggiante piuttosto che oblunga.
Di solito vengono utilizzati in misti di legumi o di verdure e risultano essere decisamente più saporiti delle lenticchie.

I ceci interi più diffusi, chiamati chana, provengono dalla cultivar indiana dal seme piccolo ricoperto da una spessa buccia marrone (nella varietà europea ha invece una tonalità verdognola) che sono comunissimi nella cucina indiana, soprattutto per arricchire misti di verdure, e versatili per essere abbrustoliti per vari tipi di snack.
Molto diffusa è anche la cultivar di cicer arietinum (nome scientifico della pianta del cece, tratto dalla vaga somiglianza del seme con la testa di un ariete) che produce un grande seme di colore bianco-giallino, che in India viene chiamato kabuli ki chana (ceci di Kabul), rimandando ad una sua supposta origine afghana.
Dal sapore più delicato di quelli marroni ma anche più costosi, i kabuli ki chana sono l’elemento principale della nota pietanza indiana chana masala, un curry molto popolare e saporito.
Anche l’utilizzo della farina di ceci è elevatissimo, noto soprattutto per i numerosi tipi di saporite frittelle chiamate pakora.
I piselli secchi, oltre che divisi in due sotto forma di “lenticchie”, vengono venduti anche interi, ma data la comune reperibilità di quelli freschi, soprattutto in inverno, non sono molto utilizzati.

Venendo ai fagioli propriamente detti, della specie phaseolus vulgaris, la cultivar più utilizzata è quella rossa chiamata in inglese kidney bean, per la somiglianza, nella forma e nel colore, ai reni.
Come tutte le altre civaie è uno dei vari ingredienti dei misti di legumi e vengono talvolta cucinati da soli, con la loro speciale mistura di spezie, per la pietanza chiamata rajma masala, curry di fagioli.
Meno diffusa ma sempre presente nei caratteristici negozi alimentari è la cultivar bianca con sottili rigature marroni, sempre per misti di verdure e legumi.

Un altro tipo di fagiolo secco presente sul mercato, seppur cucinato raramente, è quello prodotto dalla pianta vigna unguiculata subspecie unguiculata, chiamata in hindi lobya e in italiano fagiolo con l’occhio o dolico dall’occhio nero
Caratteristica è la sua colorazione, dalla quale è derivato il termine italiano: bianco con un cerchietto nero dentro al quale si trova un punto bianco.

Sempre del genere vigna, la pianta vigna aconitifolia, apprezzata dai coltivatori per la sua notevole resistenza alla siccità, produce dei piccoli fagioli marroncini, chiamati in hindi moth ed in inglese moth bean.
Un’ultima civaia tipica del subcontinente indiano è prodotta dalle piante macrotyloma uniflorum, i cui fagioli di varie tonalità di marrone vengono chiamati kulthi in hindi e horse-gram, seme da cavallo, in inglese.
Il moth-bean e l’horse-gram sono civaie sub-tropicali o tropicali e crescono bene su terreni aridi, grazie ai quali sono particolarmente ricche di ferro.

Insieme ai lobya, grazie alla facile digeribilità, questi fagioli vengono anche spesso cucinati per malati e degenti.

lunedì 18 aprile 2016

Le quote riservate alle classi svantaggiate

The times of india.svgI motivi delle contorte e talvolta orribili condizioni in cui versa la società indiana sono numerosi e molto complessi, ma a loro volta essi sono causati da un unico madornale errore, cioè il fatto che essa sia basata sull’aberrante principio che gli uomini, per nascita, non sono tutti uguali e quindi non godono tutti degli stessi diritti e privilegi.
Questo principio, sorto da un’errata ed opportunistica interpretazione sacerdotale di antichi testi sacri, trova la sua “legittimazione” nella nota divisione in caste della società indiana. Specifichiamo indiana e non indù poiché il fenomeno, seppur d’origine induista, comprende anche l’islam, il buddismo, il jainismo, il sikhismo ed il cristianesimo.
Nonostante il sistema delle caste sia stato legalmente bandito da molti anni, ben poco è cambiato nella mente delle persone e quindi sono ancora scarsissimi i risultati ottenuti.
La questione oltretutto è così radicata e complessa che talvolta perfino gli sforzi fatti verso l’eliminazione di tali pregiudizi, raggiungono invece risultati opposti.
Come esempio basta citare la spinosissima questione che riguarda le quote riservate alle cosiddette Scheduled Castes (i “fuori casta”) e le Tribal Comunity (le comunità tribali), appartenenti all’ultimo gradino della scala gerarchica indiana.
Per favorire il loro ingresso nella società, da tempo sono state promulgate leggi grazie alle quali a queste categorie di persone vengono riservate delle quote nelle scuole, nelle università e nei posti di lavoro statali.
In ambito accademico questo crea però l’evidente discriminazione contraria, in quanto i già pochi posti disponibili vengono divisi “equamente” in due. Ma se le richieste da parte delle caste minori sono poche centinaia, quelle generali raggiungono le decine di migliaia, creando due competizioni decisamente inique.
A questo va aggiunto anche l’ingenuo ma imperdonabile errore di concedere a “fuori casta” e “tribali” di passare gli esami con votazioni minori: ad esempio un test che richiede un minimo del 70% di risposte corrette, a loro viene concesso di passarlo con circa il 50%.
Non è quindi un pregiudizio supporre la maggior preparazione da parte dei laureati provenienti dalla classe generale, vista l’altissima selezione, rispetto ai laureati delle classi riservate, dove la competizione è decisamente minore.
Come risultato è noto che, ad esempio, nessuno studente appartenente alle classi riservate deciderà mai di studiare medicina, in quanto pochi pazienti si affiderebbero di mettere la propria salute nelle mani di un dottore dal dubbio curriculum accademico.
La situazione è tale che le classi riservate stesse stanno iniziando a chiedere l’abolizione delle quote.
Un’alternativa, che per fortuna sta trovando sempre maggior appoggio politico, è quella che prevede una differenziazione non tanto “castale” quanto economica, per dare la possibilità di studiare anche a coloro che non possono permetterselo, ma poi l’avanzamento deve dipendere solo dai meriti.
A riguardo bisogna notare una legge che obbliga tutti gli istituti scolastici, compresi quelli privati, ad ammettere gratuitamente studenti poveri in una quota del 25% del totale degli iscritti.

Per quanto riguarda i posti di lavoro statali, proponiamo un articolo del The Times of India intitolato “Reservation in promotion has failed to achive its objective” (Le quote riservate nelle promozioni hanno fallito nel raggiungere l’obiettivo).
Secondo i dati riportati risulta infatti che, nonostante vengano riservate percentuali di circa il 15% (11% per i “fuoricasta” e 4% per i “tribali), i posti occupati sono pochissimi, in alcuni casi tendenti allo zero.
Ma cosa ha portato a tale situazione? Si chiede il giornalista Pankaj Shah.
La teoria prominente suggerisce che le persone provenienti da quelle categorie non possono qualificarsi a causa della loro scarsa istruzione.
«Il grado di discriminazione verso queste persone, nell’arco degli anni, ha pesantemente intaccato la loro posizione sociale. Come risultato, la loro posizione socio-economica è crollata sul fondo.
Questo è provato dal fatto che durante il recrutamento non riescono a raggiungere i minimi consentiti per qualificarsi» afferma Ajit Kumar Singh, direttore del Giri Insitute of Social Science.
«Ancora piu evidente è il fenomeno che riguarda i migliori posti di lavoro dove il livello e la qualità dell’istruzione sono molto importanti».
Seppur Mr. Singh affermi che il sistema delle quote per l’ammissione deve rimanere, egli però si oppone decisamente alle quote sulle promozioni che, a suo sensato avviso, non possono essere amministrate al di fuori degli effettivi meriti.
La soluzione che propone è in realtà nota da tempo: migliorare le condizioni sociali e l’istruzione di queste persone.
Le quali infatti affermano che la causa di tale situazione è una “cospirazione”, da parte delle caste più alte, che fanno di tutto per lasciarli fuori dai posti più ambiti, in quanto non riescono a tollerare l’idea che le caste basse vengano elevate.
K.B. Ram, presidente di un’importante associazione a favore delle quote riservate, porta ad esempio la statistica del 1990 dove su 226 posti riservati, vi furono 172 candidati e ben 157 furono selezionati (cifre impensabili al giorno d’oggi con candidati che, come abbiamo detto, si avvicinano allo zero).
Un altro punto evidenziato da Mr. Ram è che essendo le caste inferiori poco rappresentate durante il processo di reclutamento, a causa appunto del fatto che fanno fatica a raggiungere i posti più elevati, le quote riservate per le promozioni diventano ancora più importanti, altrimenti tutti i posti alti sarebbero occupati dalle caste superiori.
Il gruppo che sostiene invece la tesi contro le quote riservate cita però casi in cui persone appartenenti a caste superiori con 10-12 anni di servizio, lavorano sotto gli ordini di appartenenti a caste inferiori con minor esperienza; fenomeno che, in effetti, a prescindere dalle gerarchie castali, non può essere giustificato in alcun modo.

Perfino la Corte Suprema, che recentemente ha istruito l’Alta Corte ad annullare le quote riservate nelle promozioni, l’ha chiamato un caso di “discriminazione inversa”.

domenica 17 aprile 2016

Ateismo in India

The times of india.svgLibera traduzione di un breve articolo sull’ateismo, comparso qualche tempo fa nella versione internet del The Times of India ed intitolato “Sempre più indiani smettono di credere in Dio”

Secondo i dati del 2012 dell’Indice Globale di Religiosità ed Ateismo, il numero delle persone non religiose in India sta aumentando.
Nel 2005 l’87% degli indiani dichiarava di essere religioso, percentuale scesa all’81% nel 2013, con un calo del 6% in 7 anni.
Il rapporto ha evidenziato anche un calo dell’1% tra coloro che si definiscono atei, dal 4% del 2005 al 3% del 2013.
Anche a livello mondiale il trend è simile: la religiosità è calata del 9% mentre l’ateismo è salito del 3%, dimostrando un declino globale delle persone che si definiscono religiose.
Il Pakistan è tra i pochi paesi che ha avuto un incremento, del 6%, mentre l’Argentina (curiosamente il paese del nuovo Papa, faceva notare l’articolo n.d.r.) ha avuto un calo dell’8%.
Anche in Sud Africa la percentuale è scesa del 19%, così come negli USA, il 13%, la Svizzera e la Francia il 21%, il Vietnam il 23%.
(I dati riguardanti l’Italia sono i seguenti: il 73% si considera religioso, con un incremento dell1% rispetto al 72% del 2005; gli atei sono l’8%, con un incremento del 2% dal 6% del 2005; il 15% si dichiara non religioso; il 4% non ha risposto o non sa)
Per questo studio sono state intervistate 51.927 persone, provenienti da 57 nazioni di tutti e 5 i continenti.
In ogni paese è stato scelto casualmente un numero di circa 1.000 intervistati tra uomini e donne.
La Cina ha il più alto tasso di atei, che raggiunge quasi il 50% della popolazione, confronto alla media mondiale del 13%.

L’articolo era accompagnato da una tabella dove venivano riassunti i dati dell’India (dove l’81% dichiara di essere religioso, il 13% non religioso, il 3% convinti atei), e di altri 11 paesi dove l’ateismo sta guadagnando terreno, ma per chi fosse interessato ai dettagli, lasciamo il link del chiarissimo file pdf con i dati completi dello studio:
http://www.wingia.com/web/files/news/14/file/14.pdf

sabato 16 aprile 2016

L'Himank ed i suoi cartelli stradali

Le condizioni delle strade indiane sono, notoriamente, disastrose, a causa degli scarsi mezzi economici, spesso mal utilizzati (leggasi corruzione) ed a condizioni climatiche talvolta decisamente estreme.
A questi bisogna aggiungere, in alcuni casi, la posizione remota che rende molto difficili le necessarie operazioni di manutenzione.
In particolare, nelle zone di alta montagna a nord del paese, gli sforzi per creare vie di comunicazione vengono spesso vanificati da cataclismi di varia entità, in particolare frane, inondazioni e terremoti.
Oltre a facilitare lo sviluppo degli abitanti autoctoni, la costruzione e manutenzione di molte strade d’alta montagna hanno anche una notevole importanza da un punto di vista strategico in quanto si trovano in remote zone di confine con Pakistan e Cina, paesi storicamente poco amici dell’India.
Per questo motivo tali strade sono gestite dal Corpo degli Ingegneri dell’Esercito Indiano insieme ad un corpo di ingegneri civili sotto la supervisione del Ministro dei Trasporti di Superficie, che insieme formano il BRO: Border Roads Organisation.
All’interno del BRO è attivo da molti anni, per l’esattezza dal 1985, il progetto Himank, responsabile per la costruzione e manutenzione delle strade di alta montagna che confinano con il Pakistan in Kashmir e con la Cina nella zona a ovest del Nepal (quindi, oltre al Jammu-Kashmir, gli stati indiani dell’Uttarkhand, Himachal Pradesh e Ladakh, già parte del Jammu-Kashmir).
In quest’ultima zona le altitudini sono estremamente elevate tanto che il Passo Mana, che unisce l’India con la Cina, viene considerato la strada carrozzabile più alta al mondo, ad una quota di ben 5.610 metri. 
Oltre che per l’utilissimo lavoro che svolge, l’Himank è anche noto per i numerosi cartelli stradali che riportano vari frasi ed aforismi, spesso umoristici, per tenere allerta i guidatori sulla pericolosità delle strade.
Alcuni significativi esempi:

On the bend, go slow friend (In curva vai piano amico)
Blind curve ahead, check you nerve (Curva cieca in arrivo, controlla i tuoi nervi)
Lower your gear, curve is near (Abbassa la marcia, la curva è vicina)
Peep peep, don’t sleep (Peep peep, non dormire)
No worry, no hurry, enjoy the beauty of the valley (Niente preoccupazioni, niente fretta, goditi le bellezze della valle)
Better late than never (Meglio tardi che mai)
Let your insurance policy mature before you (Fa che la tua assicurazione mature prima di te)
Safety on road is “safe tea” at home (La sicurezza sulla strada significa thé sicuro a casa)
Don’t be gama in the land of lama (Non essere stupido, gama, nella terra dei saggi, lama)
Worst come without warning, prevent it by careful driving (Il peggio succede senza avvertire, previenilo guidando con attenzione)
This is a highway not a runway; drive slow (Questa è un’autostrada non una pista, guida piano)
Accident begins when alertness ends (Gli incidenti iniziano quando l’attenzione finisce)
Driving faster can causa disaster (Guidare più veloce può creare diastri)
Fast won’t last (La velocità non dura)
Speed thrills but kills (La velocità è divertente ma uccide)
Speed is a knife that cuts life (La velocità è un coltello che taglia la vita)
Cat has nine life, not the one who drives (Il gatto ha nove vite, non chi guida)
Do not be rash and end in a crash (Non essere di fretta e finisci con uno scontro)
Love the neighbor but not while driving (Ama il tuo prossimo, ma non quando guidi)
Make love not war but nothing while driving (Fate l’amore non la guerra, ma nessuno dei due mentre guidate)
Hospital ceiling are boring to look at, avoid accident (I soffitti degli ospedali sono noisi da fissare, evita gli incidenti)
Road is hilly, don’t drive silly (La strada è collinare, non guidare stupidamente)
Indian traffic says “Left is right, right is wrong” (Il traffico indiano dice “La sinistra è giusta, la destra è sbagliata”)
Shortcut may short your life (Le scorciatoie possono accorciare la tua vita)
Break the speed, that’s the need (Diminuisci la velocità, questo è ciò che serve)
Life is short don’t make it shorter (La vita è corta, non renderla ancora più breve)
If you sleep, your family will weep (Se tu dormi, la tua famiglia piangerà)
Three enemies of road: speed, liquor and overload (I tre nemici della strada: velocità, alcohol e sovraccarico)
Drive on horse power not rum power (Guida la potenza dei cavalli non quella del rum)
After whisky, driving is risky (Dopo il whisky, guidare è rischioso)
Drinking and driving a fatal cocktail (Bere e guidare cocktail fatale)
A spill, a sip, a hospital trip (Un goccio, un sorso, una gita all’ospedale)
BRO work today for your better tomorrow (Il BRO lavora oggi per darvi un futuro migliore)
Sorry for oooh, ahhh, ouch, inconvenience regretted (Spiacenti per gli oooh, ahhh, ouch, ci scusiamo per i disagi)
We cut the mountains but connects hearts (Tagliamo le montagne ma uniamo i cuori)
Time si money but life is precious (Il tempo è denaro, ma la vita è preziosa)
Way of worship may be different but God is one (I tipi di devozione possono essere diversi, ma Dio è uno)
Reduce your desire and you reduce your problems (Riduci i tuoi desideri e ridurrai i tuoi problemi)
Without geography you are nowhere (Senza geografia non sei da nessuna parte, di Jimmy Buffet, cantautora americano)
Laziness is nothing but the habit of resting before you get tired (L’ozio non è altro che l’abitudine a riposarsi prima di stancarsi, di Jules Renard, scrittore francese)
Simplicity is the peak of civilization (La semplicità è il picco della civilizzazione, di Jesse Sampter, zionista)
Climb every mountain, cross every stream, follow the rainbow, till you reach your dream (Scala ogni montagna, attraversa ogni fiume, segui l’arcobleno, finché non raggiungi il tuo sogno)
The journey of life is long and the path unknown (Il viaggio della vita è lungo ed il percorso sconosciuto)
Study as if you were to live forever, live as you were to die tomorrow (Studia come se dovessi vivere per sempre, vivi come se dovessi morire domani)
Half hearted effort does not produce half results, it produces no results (Un sforzo a metà non produce mezzo risultato, non produce alcun risultato)
When you are good to others you are best for yoursef (Quando sei buono con gli altri, sei migliore per te stesso)

Unity in difference, the speciality of India (Unità nelle differenze, la specialità dell’India)