martedì 31 maggio 2016

La filariasi in Nepal

File:Filariasis 01.pngDal The Kathmandu Post 7 Luglio 2013
5.921 casi di filariasi in 12 distretti
Nonostante gli sforzi del governo per estirpare la filariasi linfatica, un gran numero di pazienti soffre di questa malattia in 12 distretti della regione orientale ed un recente rapporto governativo mostra che quasi 6.000 persone ne sono affette.
Sagar Prasai, ufficiale del Consiglio Direttivo per la Salute della Regione Orientale, conferma il numero di  5.921 casi.
Per questo il Consiglio Direttivo, in collaborazione con varie organizzazioni, si sta preparando a lanciare un programma per provvedere cure a tutti i pazienti di filariasi.
“La malattia viene trasmessa dalla zanzara femmina del genere culex quando questa trasporta il verme parassita wucereria bancrofti. Questi vermi prosperano nel sistema linfatico umano, causando orribili rigonfiamenti a gambe, braccia, testa, genitali e seni.
Nonostante questi terribili sintomi, la filariasi non è considerata una malattia mortale, sebbene i parassiti continuino a danneggiare l’organismo internamente”.
Secondo i dati disponibili presso il Consiglio Direttivo, 4.340 pazienti di filariasi soffrono di idrocele (accumulo di fluidi nei genitali), 987 di gonfiamento degli arti inferiori ed i rimanenti 594 di problemi a seni, mani ed altri organi.
Secondo Prasai, dei 16 distretti che compongono la regione orientale solo 4 sono privi di casi di filariasi.
Il governo, dal 4 al 6 Febbraio, aveva lanciato una campagna per amministrare dietilcarbamazina ed albendazolo, riuscendo però a raggiungere solo il 74% del target nei 12 distretti affetti.
La campagna purtroppo non ha potuto coprire il rimanente 26% a causa della mancanza di collaborazione da parte dei locali.
Paura nell’assumere medicinali e la non-collaborazione delle scuole nell’amministrare le medicine agli studenti, sono tra le cause maggiori che hanno impedito alla campagna di raggiungere le stime prefissate.

lunedì 30 maggio 2016

Bevande alcoliche nepalesi

Una delle differenze più evidenti tra la società indù nepalese e quella indiana è il diverso approccio verso le bevande alcoliche.
Come già evidenziato in un precedente articolo a riguardo (http://informazioniindiaenepal.blogspot.in/2016/02/il-consumo-di-alcohol-in-india.html), in India esistono varie limitazioni, del tutto assenti nella legislazione nepalese, che, in materia di produzione, vendita e consumo di alcolici, segue una politica liberale molto simile a quella dei paesi occidentali.
Tongba.jpg
Tongba servita nel tradizionale contenitore con cannuccia in bambù
Tra le poche eccezioni, un’orario di vendita fissato tra le 10 del mattino e le 10 di sera (seppur non applicato rigidamente) ed il divieto di consumare alcohol sul suolo pubblico, per cui ad esempio, camminare per strada, o sedersi su una panchina, bevendo una birra è perseguibile dalla legge.
D’altronde, data l’estrema diffusione di rivendite e bar, non è neppure molto difficile attenersi alle regole.
Sul mercato sono facilmente reperibili birra e alcolici prodotti da distillerie locali, di qualità dallo scadente al bevibile, nonché apprezzabili, seppur costose, bevande d’importazione.
Accanto a questi, grazie alla notevole diversità etnico-culturale, in Nepal sono presenti vari tipi di alcolici di produzione artigianale, per i quali vengono utilizzati semplici ingredienti facilmente reperibili anche in zone inospitali e remote.
Nello specifico ci riferiamo a tari, aila e tongba, in un ordine vagamente ascensionale-geografico da sud a nord.

Partendo dalla regione meridionale del paese, la pianura del Terai è abitata da varie etnie, tra cui spiccano i tharu, una popolazione originale della zona, nota per possedere una particolare resistenza genetica alla malaria.
In quest’area, come anche in tutto il resto della pianura gangetica settentrionale indiana, è molto diffuso il vino di palma, chiamato toddy in inglese e tari, o nomi simili, nelle varie lingue locali.
Il sistema di raccolta di questa bevanda è particolarmente semplice, visto che consiste nel praticare un’incisione vicino ai fiori delle palme e legando una piccola giara di terracotta sotto al taglio per raccogliere la linfa che lentamente ne fuoriesce.
Appena raccolto, in genere alla mattina presto, il liquido inizia a fermentare e già dopo un paio d’ore raggiunge una gradazione alcolica intorno ai 4-5 gradi.
Questa aumenterà fino a sera, diventando via-via sempre più forte, come anche il gusto, ma un’eccessiva fermentazione, lasciandolo a riposare per la notte, trasformerà invece il saporito vino in aceto.
La stagione migliore è la calda estate ore-monsonica, durante la quale il fresco tari risulta essere particolarmente gradito. 
In realtà la raccolta ed il consumo di vino di palma non è una caratteristica esclusiva dell’etnia tharu, essendo molto popolare anche in tutto il sub-continente ed in molte altre parti del mondo, ma gli abitanti più numerosi nelle zone nepalesi dove si trovano le palme adatte sono tharu (come anche apparteneva a questa etnia il gentile ragazzo nepalese che ce lo fece assaggiare alcuni anni fa nei pressi del Parco Nazionale di Chitwan).

Nelle regioni collinari una delle etnie più importanti è quella newari, originaria della Valle di Kathmandu.
Ad essa va ascritta la produzione dell’aila, un distillato prodotto con ingredienti quali riso, grano e miglio.
Questi vengono fatti fermentare grazie al marcha (o murcha), un composto organico locale, per 4-5 giorni e quindi distillati, cuocendoli sul fuoco in appositi contenitori di terracotta e ottone.
La bevanda ottenuta assomiglia ad una grappa secca, molto forte, intorno ai 50 gradi.
Come nel caso del tari e dell’etnia tharu, la produzione ed il consumo di questo tipo di distillati, chiamati col nome generico di rakshi, non è prerogativa unica della popolazione newari, seppur l’aila, nome originale newari, abbia per loro una particolare importanza anche durante le feste religiose, allorché viene abbondantemente consumata.
Da parte nostra abbiamo avuto modo di assaggiarlo in un ristorante tipico newari (noti in Nepal per le loro gratuite ed apprezzate degustazioni di potenti aila) ed acquistando una bottiglia, di recentissima produzione, abbellita dall’elegante stampa di una tipica finestra di legno in stile newari.

La tongba è la bevanda alcolica tipica dell’etnia tibeto-birmana limbu, la cui popolazione, oggigiorno, abita prevalentemente remote regioni collinari dell’est nepalese.
L’ingrediente principale è il miglio (in particolare il panico indiano, eleusine coracana), che viene bollito, raffreddato e raccolto dentro a speciali cesti di bambù e foglie, chiusi con vari strati di stoffa; qui viene fatto fermentare per 1-2 giorni grazie al già citato marcha.
Dopo questo trattamento, viene messo in vasi di terracotta sigillati e lasciato a riposare per 1-2 settimane per permettere la completa fermentazione.
Al termina della quale non resta che aspettare circa sei mesi per lasciare intensificare aroma e sapore.
Il risultato di questo lungo processo sono dei piccoli semi rotondi marroni, leggermente umidi, chiamati jaand, con i quali si riempono dei grandi contenitori di bambù cilindrici (detti tongba e dai quali deriva il nome della bevanda), insieme ad una lunga cannuccia, sempre di bambù, munita di piccoli fori.
Viene quindi versata dell’acqua calda e dopo pochi minuti si può iniziare a consumare questo gustoso alcolico.
La gradazione inizialmente è piuttosto bassa, circa 3-4 gradi, e tende a salire leggermente, facendola riposare e dopo aver aggiunto acqua due o tre volte, finché i principi alcolici del jaand non vengono definitivamente consumati.

Come l’aila può essere considerato un tipo di rakshi, il tongba può essere considerato un tipo di chaang, nome d’origine tibetano dato a vari tipi di preparazioni simili, detti volgarmente “birra tibetana”, per i quali però, rispetto al tongba, vengono utilizzati anche altri ingredienti quali orzo e riso.

domenica 29 maggio 2016

I riti funebri dell'induismo

Il campo crematorio del Manikarnika Ghat a Varanasi in una foto del 1922
Secondo la versione induista della teoria della reincarnazione, quando il corpo muore l’anima deve cercare di dimenticare il più in fretta possibile l’esistenza appena terminata e trovare un nuovo corpo, in base al bilanciamento dei suoi karma positivi e negativi.
Questo è il motivo teologico per cui gli induisti quando muoiono si fanno cremare, attraverso il rito dell’antyesti, che viene solitamente eseguito entro 24 ore, 48 al massimo, dal decesso, proprio per aiutare l’anima a dimenticare la vita passata.

Sebbene oggigiorno siano sempre più diffusi, soprattutto nelle grandi città, forni crematori elettrici o a gas, sono ancora numerosi ed attivi i campi crematori tradizionali, chiamati in hindi dal sanscrito smashan, dove i cadaveri vengono bruciati all’aperto su pire di legna.
Essendo spesso situati vicino a fiumi e corsi d’acqua, come vedremo elemento molto importante durante i rituali, vengono anche chiamati ghat crematori (smashan ghat), in quanto si trovano nei pressi dei gradini per le abluzioni.
In ogni caso i campi crematori sono quasi sempre situati nella zona meridionale dei centri abitati, poiché il sud è la direzione della morte e si vorrebbe evitare che questa, quando si reca ad appropriarsi dei deceduti, debba attraversare una città, col rischio di seminare ulteriore distruzione al suo passaggio.
Sempre per questo motivo le pire vengono costruite in modo da posizionare i piedi verso sud e la testa a nord, anche se, escluse vaghe teorie personali, ci sfugge il motivo specifico per cui sia preferibile che la morte si appropri di un corpo iniziando dai piedi piuttosto che dalla testa.
Comunque, a prescindere da dove ci si trovi, grazie a questo particolare, le pire possono essere usate anche come pratiche e precise bussole.

I dettagli dei rituali funebri possono essere molto differenti per vari motivi, a partire da quello geografico, con tradizioni che possono variare da regione a regione, fino a quelli legati all’identità del defunto, quali sesso, età, casta ed altri ancora.
In realtà questi ultimi al giorno d’oggi dipendono essenzialmente dalle condizioni economiche della famiglia del deceduto: con maggiori disponibilità verrà acquistata più legna, i rituali saranno più complessi e maggiori gli articoli per le offerte da aggiungere alla pira.
All’estremo opposto si trovano invece i cadaveri non reclamati che vengono portati al campo crematorio da svogliati poliziotti, che li affidano agli addetti alle cremazioni, i quali preparano delle piccole pire con legna di recupero.
Proprio per questo motivo, prima di preparare ciascuna pira, è tradizione prelevare cinque pezzi di legna da tenere per queste situazioni d’emergenza.
Almeno ciò è quanto avviene nel campo crematorio di Harichandra Ghat a Varanasi, dove abbiamo appreso i suddeti dettagli e gli altri che descriveremo.

Prima però, come ultima premessa, bisogna ricordare che esistono alcune categorie di persone per le quali non è prevista la cremazione, ma vengono sepolte o immerse nei fiumi.
Tradizionalmente sono tre: i bambini, poiché, essendo ancora puri, non hanno bisogno che i loro karma negativi vengano bruciati dal fuoco della pira, in maniera simile a quello che avviene nella cultura cristiana dove le bare dei bambini sono bianche.
Di solito, una volta portati al ghat crematorio, vengono legati a delle grandi lastre di pietra, issati su una barca, quindi, giunti nel mezzo del fiume, vengono lasciati scivolare nell’acqua.
Per lo stesso motivo anche le donne incinta non vengono cremate, poiché portano in grembo una creatura pura.
La terza categoria di persone per cui non è prevista la tipica cremazione indù è quella degli asceti, in quanto si considera che questi siano già morti quando hanno fatto il voto di lasciare la vita mondana per andare alla ricerca di Dio.

Una volta accertato clinicamente il decesso, viene convocato il bramino di famiglia che inizia a soprassedere alle successive operazioni ritualistiche.
Prima di tutto il corpo viene spogliato, lavato ed avvolto in teli bianchi, essendo il bianco, per gli indù, il colore legato al lutto.
Come eccezione, le donne sposate il cui marito è ancora in vita vengono avvolte in tessuti rossi, il colore per eccellenza del vincolo matrimoniale.
Quindi il corpo viene legato ad una rudimentale barella di bambù, simile ad una corta scala a pioli, e portato al campo crematorio.
Seppur sia chiaramente consentito il trasporto con mezzi a motore, nei tratti percorsi a piedi, soprattutto l’ultimo fino all’area delle cremazioni, è tradizione che uno dei componenti del corteo reciti continuamente una breve frase che viene ripetuta dagli altri “Sri Rama nam, satya hai” (Il nome di Rama è la verità).
In questo caso però, con Rama non viene intesa la divinità settima incarnazione di Vishnu, bensì il Dio Assoluto, l’Uno, dando alla frase un senso, se non addirittura ironico, senz’altro consolatorio: non addoloriamoci delle nostre miserie mortali, il nome di Dio è l’unica cosa vera e certa.
Altro particolare: il corteo ed il gruppo di parenti e conoscenti che partecipano al funerale sono tutti rigorosamente maschi, in quanto si teme che le donne possano piangere, fatto considerato di estremo malaugurio per il defunto.

Giunti al ghat crematorio, il corpo viene immerso nel fiume, ancora attaccato alla barella di bambù, quindi lasciato a sgocciolare per qualche minuto sulla riva, mentre nel frattempo il parente più prossimo al deceduto, colui che eseguirà il rituale, si spoglia dei vestiti, compie alcune abluzioni, viene avvolto in teli bianchi e rasato.
Gli altri parenti terminano invece le contrattazioni con gli addetti alle cremazioni, i quali iniziano a preparare la pira, seguendo un metodo piuttosto semplice ed efficente: prima, con i pezzi di legno più grandi, formano due “binari” lunghi circa un paio di metri e distanti uno, quindi aggiungono il resto della legna alternandola perpendicolarmente e parallelamente.
Preparata la pira, il cadavere, slegato dalla portantina, vi viene appoggiato sopra, quindi si procede a versare le offerte.
Principalmente queste sono composte da: legno di sandalo, sotto forma di polvere, trucioli e cilindretti; ghee, burro chiarificato; e polvere di kapoor, canfora.
A parte l’aspetto religioso-ritualistico, questo passaggio, come la cremazione stessa, ha anche notevoli funzioni pratiche visto che i tre suddetti ingredienti sono utili sia per dare alla pira un aroma gradevole sia per favorire la combustione.

La fase dell’accensione della pira è piuttosto importante e non semplicissima, sia per la giustificabile inesperienza di colui che la esegue, sia per eventuali difficoltà climatico-ambientali.
Uno degli addetti si reca presso un tempio, situato poco lontano, dove è conservato un fuoco sacro sempre acceso, e dal quale, con dei pezzi di legno, preleva un tizzone che porta presso alla pira.
Qui, il parente preposto al rituale tiene in mano un fascio di paglia nel quale viene messo il tizzone, quindi inizia a compiere tre deambulazioni della pira, in rigoroso senso orario, al termine della quali introdurrà il fascio di paglia, a quel punto in fiamme, nell’apertura situata ai piedi della pira.
Quindi viene aggiunta altra paglia e con un minimo di attenzione da parte di addetti e familiari la pira inizia a prendere fuoco.

Di solito il tempo necessario è di circa due-tre ore, in base a vari fattori: la quantità di legna, il vento, l’umidità e non ultimo la cura degli addetti, che quando sono ben remuniti partecipano attivamente utilizzando i lunghi pali di bambù che formavano la portantina sulla quale era stato trasportato il cadavere.
Poco prima che il corpo venga completamente carbonizzato, il parente preposto, con l’aiuto di uno degli addetti, prende due pezzetti di legno, di solito i “pioli” della barella, preleva un pezzo di ossa rimaste, quasi sempre del bacino che sono le più spesse, quindi si avvicina alla riva del fiume e getta il tutto nell’acqua.
Come ultimo passaggio bisogna spegnere la pira, utilizzando una giara di terracotta che viene passata attraverso una piccola catena umana dal fiume alla pira, dove, il parente preposto al rito versa l’acqua su quanto è rimasto della pira facendola passare sulla sua mano destra.
Una volta che il fuoco è spento, si posiziona con le spalle alla pira ed al fiume, gli viene data un’ultima giara piena d’acqua, che si porta sopra alla spalla e quindi la lascia cadere all’indietro, solitamente facendola spaccare.

Ora il rituale è definitivamente concluso, senza voltarsi indietro, il parente preposto si allontana in fretta seguito da tutti gli altri.

sabato 28 maggio 2016

Il confine indo-pakistano

In verde l'area occupata dal Pakistan, in arancione quella
indiana, a bande diagonali quella cinese
Una delle cause dei pessimi rapporti diplomatici tra India e Pakistan è la non ancor ben definita questione dei confini terrestri.
In particolare, com’è noto, la regione montana del Kashmir offre vari punti di contenzioso tra le due orgogliose nazioni, con l’area meridionale occupata dall’India e rivendicata dal Pakistan e l’area settentrionale occupata invece dal Pakistan e rivendicata dall’India (senza contare una piccola parte cinese rivendicata dagli indiani).
L’International Border (IB) venne tracciato dagli inglesi nell’Agosto del 1947 e chiamato Radcliffe Line, in onore di Sir Cyril Radcliffe, il capo della commissione preposta ai confini, quindi venne rettificato nel 1949 dall’ONU dopo la Guerra Indo-Pakistana del 1947.

Per gran parte dei suoi 2.900 chilometri, grossomodo dal Mar Arabico all’area del Punjab, il confine Indo-Pakistano, sebbene fonte di qualche occasionale disputa, non presenta particolari problemi ed è accettato non solo dai due stati interessati ma anche dalla comunità internazionale.
Più a nord, partendo dalla città di Jammu, iniziano invece le rivendicazioni, solo parzialmente mitigate dal Patto di Shimla del 1972, con la demarcazione della Line of Control (LOC) che divide di fatto l’Azad Kashmir pakistano dallo stato indiano Jammu and Kashmir.

Il confine marittimo sul Mar Arabico è piuttosto ben definito, seppur talvolta capiti che i pescatori di entrambi i paesi, più o meno inavvertitamente, finiscano per oltrepassare i limiti e vengano catturati dagli opposti eserciti.
Di solito comunque le questioni vengono risolte abbastanza amichevolmente con piccole amnistie o veri e proprio scambi di prigionieri.

Sulla terraferma la demarcazione del confine è più problematica, non tanto per cause politiche, bensì orografiche, date dalla particolare conformazione ed inospitalità delle zone attraversate.
Politicamente, sebbene l’area sia stata materia di contenzioso durante la Guerra Indo-Pakistana del 1965, la questione è stata risolta quasi definitivamente nel 1968, grazie ad un tribunale inglese stabilito all’uopo dall’allora Primo Ministro Harold Wilson, che concesse il 10% al Pakistan ed il restante 90% all’India.
Ed escludendo l’Incidente dell’Atlantique dell’Agosto 1999, in cui una aereo dell’esercito pakistano venne abbattuto da un caccia indiano per aver sconfinato nel cielo dell’India, grossomodo non ha più creato grandi problemi.

Geograficamente invece, il Rann of Kutch si presenta come una vasta regione paludosa stagionale che durante i mesi dei monsoni si trasforma in un gigantesco acquitrino salmastro.
Trovandosi anche presso il delta dell’Indo (che comunque scorre in territorio pakistano), l’area subisce spesso notevoli inondazioni dai suoi effluenti, a cui vanno aggiunti i non rari terremoti (in particolare nel 1819, 1956 e 2001) che mutano i corsi dei fiumi spostandoli anche di alcuni chilometri.

Allontanandosi dal mare, il terreno attraversato dall’IB (International Border) si trasforma in un vero e proprio deserto di sabbia, il Thar, che prosegue verso nord fino all’area geografica del Punjab (più o meno equamente divisa tra Pakistan e India), molto fertile grazie alla presenza di numerosi corsi d’acqua originati dalle non lontane montagne: il nome stesso Punjab signufica letteralmente Le cinque acque, cioè I cinque fiumi.
Qui il confine Indo-Pakistano è ben marcato, grazie anche alla presenza del Wagah Border (noto per le bellicose cerimonie di chiusura che attirano un surreale tifo da stadio), attualmente il posto di confine più frequentato e storicamente porta d’accesso occidentale alla penisola indiana.

La spinosa questione del Kashmir sorse all’indomani della dipartita degli inglesi dal subcontinente indiano e fu causata dalla particolare situazione socio-religiosa dell’area.
Seppur la maggior parte della popolazione fosse, e sia tuttora, mussulmana, che avrebbe dato diritto di occupazione al Pakistan, il Maharajà era un indù che decise di cedere il proprio regno all’India, ponendo quindi le basi per un’infinità di dispute tra i due stati, esacerbati anche dai numerosi e bellicosi movimenti indipendentisti, spesso appoggiati dal Pakistan che non perde occasione per seminare zizzania in territorio indiano.
Il culmine venne raggiunto tra Maggio e Luglio del 1999 con la Guerra di Kargil, causata da una forte infiltrazione in territorio indiano di militanti kashmiri, sostenuti dall’esercito pakistano.
La tempestiva ed energica reazione indiana, appoggiata anche dalla comunità internazionale (con il presidente americano Bill Clinton che chiese espressamente alla controparte pakistana di interrompere l’attacco) permise una veloce risoluzione del conflitto rioccupando i propri territori ed espellendo gli invasori.
Il coinvolgimento del governo e dell’esercito pakistano, anche questo provato tempestivamente dall’intelligence indiana, pare sia stato causato dall’intenzione di poter utilizzare eventuali guadagni territoriali come “merce di scambio” per potersi riappropriare degli avamposti situati sul Ghiacciaio di Siachen, che l’India aveva conquistato nel non lontano 1984.
Il differente trattamento della comunità internazionale in questi due episodi è dato dal fatto che nel caso del Ghiacciaio di Siachen, l’India aveva conquistato territori che non erano chiaramente marcati, mentre l’invasione pakistana di Kargil aveva superato confini ben definiti.

La questione del Ghiacciaio di Siachen è comunque emblematica della complessità della situazione e famosa per alcuni record ben poco edificanti.
Innanzitutto si tratta del campo di battaglia alla maggior altitudine, circa 6.000 m s.l.m., ed è noto per essere uno dei luoghi più pericolosi al mondo, non tanto per gli sporadici conflitti, quanto per la durezza del clima che tra freddo, altitudine, tempeste e valanghe causa ben più decessi delle operazioni belliche (esperti di balistica mettono anche in dubbio la reale efficacia, a quelle altitudini, delle armi di fuoco).
L’area del contenzioso si aggira intorno ai 2.500 km2 e si tratta di un grande ghiacciaio situato nelle remote montagne del Karakorum Orientale, presso il punto in cui si incontrano i confini tra Pakistan, India e Cina.
Inizialmente, e giustamente, data l’inaccessibilità dell’area il confine non era molto ben definito ma non sembrava presentare particolari controversie ed era accettata la divisione dell’ONU del 1949, nonché la sua rettificazione in seguito al conflitto Indo-Pakistano del 1971 ed il successivo Patto di Shimla del 1972.

Fondamentalmente la situazione era la seguente: l’esercito pakistano arroccato sul versante occidentale e l’esercito indiano su quello orientale, in mezzo si trovava il ghiacciaio, in una non ben definita “terra di nessuno”.
Con l’inasprirsi delle relazioni tra i due paesi, dal 1977 alcuni militari indiani iniziarono ad esplorare meglio la zona, spinti anche dal fatto che il Pakistan, sul suo versante, stava iniziando ad aprire le porte alle esplorazioni internazionali, come per legittimare la propria occupazione.
Nel 1981, una volta acquisita una certa conoscenza dell’area, l’esercito indiano iniziò a preparare un attacco, dapprima previsto dalla controparte pakistana che si era accorta delle attività sospette del nemico, pare addirittura per aver trovato i resti di un pacchetto di sigarette indiane (se gli indiani non l’hanno capito così che non si butta la spazzatura per terra, non lo capiranno mai).
Purtroppo però anche l’esercito pakistano fece un grossolano errore, cioè si rifornì di materiale bellico speciale per il freddo estremo dalla stessa ditta londinese di cui si serviva l’esercito indiano, il quale, venutone a conoscenza, ordinò quindi il doppio del materiale per preparare il maggior numero possibile di soldati.
E nell’Aprile del 1984, con l’Operazione Meghdoot (Il messaggero delle nuvole), l’India avanzò il proprio confine fino ad occupare due importanti passi di montagna il Sia La ed il Bilafond La (e successivamente anche il terzo ed ultimo, il Gyong La), che permettevano una posizione dominante sul ghiacciaio.

Durante i successivi tre anni, l’esercito pakistano concentrò i suoi sforzi nel cercare di impossessarsi dei picchi che si trovavano al di sopra dei passi controllati dagli indiani, in particolare il Qaid Post situato proprio sopra al Bilafond La.
Nei mesi di Giugno-Luglio del 1987 però, l’India lanciò l’ardita Operazione Rajiv, con la quale riuscì a conquistare il Qaid Post, ribattezzato in seguito Bana Post in onore del comandante Subedar Bana Singh, uno dei responsabili della riuscita operazione.
Il successivo tentativo a Settembre dello stesso anno di riprenderne possesso da parte dell’esercito pakistano fu invece sventato grazie al fatto che l’India, insospettita da strani movimenti oltre confine, ebbe modo di anticipare l’operazione Qaidat, guidata dal Generale Musharraf (futuro Presidente del Pakistan), con l’operazione Vajrashakti.

Successivamente il Pakistan ha riprovato più volte a riconquistare il terreno perso (circa 2.500 km2), nel 1990,1995, 1996 e perfino nel 1999, senza però riuscire nel suo intento.
Al momento la situazione è piuttosto definita dalla Actual Ground Position Line, una linea di circa 110 km che rappresenta il nuovo confine sul ghiacciaio.
Oltre a questo, vi sono altre cause contingenti grazie alle quali da molti anni non si verificano particolari incidenti: intanto un temporaneo armistizio attivo dal 2003, quindi un auspicato maggior disinteresse delle due parti, nonché la situazione di stallo bellico.

L’India infatti, preso possesso e controllo dell’intero ghiacciaio, non ha nessun interesse particolare a lasciare i suoi dominanti avamposti per scendere verso il lato opposto della valle ed il Pakistan non è in grado di risalire e riprendersi le sue postazioni.

venerdì 27 maggio 2016

Parabola di Purnananda e Sarvananda

I nove corpi celesti induisti con il Sole al centro
Sarvananda era il figlio dell’astrologo di corte del Re del Tripura, nella zona nord-orientale dell’India.
L’astrologo riuscì ad avere un figlio soltanto dopo lunghi anni di austerità dedicate a Shiva e il figlio che nacque, Sarvananda, in qualche modo era un’incarnazione di Shiva, seppur il padre lo realizzò solo in tarda età.
Un giorno, quando Sarvananda era ancora ragazzo, il padre lo portò a corte per mostrarlo al Re, sperando di ottenere qualche ricompensa per la sua precocità.
In quel periodo a corte vi era un’assemblea di astrologi che discutevano sui giorni lunari, affermando che quel giorno era luna nuova.
Quando però gli astrologi chiesero il parere di Sarvananda, egli disse che era un giorno di luna piena.
Questo suscitò gli sghignazzi del gruppo di astrologi e gli procurò uno schiaffo da parte del padre imbarazzato, preoccupato di come salvare la faccia da questa brutta figura (e dimenticando che il figlio era un dono di Shiva).
Il ragazzo si arrabbiò e corse a casa, dove lo accolse l’anziano servitore Purnananda che gli asciugò le lacrime e lo consolò un poco.
Quindi mandò Sarvananda nella giungla con un coltello a raccogliere foglie di palma sulle quali Purnananda avrebbe poi copiato parte di alcuni testi di astrologia da insegnare al ragazzo.
Sarvananda si arrampicò su una palma e scaricò la sua rabbia tagliando foglie di palma.
Nel frattempo la Natura aveva mandato un siddha, un essere etereo di altissimo ordine, a prendersi cura di Sarvananda (Madre Natura ama Shiva, quindi è abbastanza normale che voglia aiutare Sarvananda).
Questo siddha assunse il corpo fisico di un asceta, creò un cobra illusorio e lo fece salire sull’abero sul quale stava Sarvananda.
Quando il ragazzo vide il serpente, focalizzò tutta la sua collera si di lui “Così tu vorresti mordermi? Va bene, ma prima ti faccio a pezzetti, cosa ne dici?’, e così dicendo tagliò il serpente in due sbattendolo contro una foglia di palma affilata e lo gettò ai piedi dell’albero.
Il siddha era seduto proprio là sotto e quando sentì cadere sui suoi capelli il sangue e i pezzi del cobra morto urlò “Ehi, cosa succede? Vieni subito giù!”.
Sarvananda scese timoroso pensando di essere sgridato o picchiato, ma il siddha si strofinò semplicemente i capelli e disse “So tutto, ragazzo mio, e sono qui per aiutarti”.
Usando il sangue del serpente, scrisse in dettaglio il tipo di Shava Sadhana (rituale nel quale si utilizza un cadavere) che avrebbe compiaciuto Madre Kali se fosse stato propriamente eseguito.
Quindi Sarvananda tornò da Purnananda e gli raccontò l’accaduto.
L’anziano allora lesse i dettagli e gli disse “Questo rituale deve essere fatto in una notte di luna nuova, che è stanotte. Andiamo allo smashan (campo crematorio), mi uccidi, siedi sul mio cadavere e compi il rituale. Quando Kali verrà da te e ti chiederà cosa desideri, tu chiedile di farmi resuscitare e fare quello che dico”.
Giunti allo smashan, Sarvananda tagliò la gola a Purnananda, sedette sul suo cadavere ed iniziò a ripetere il mantra che gli era stato insegnato.
Dopo alcune ripetizioni Kali apparve, chiese al ragazzo cosa desiderasse e lui Le rispose come Purnananda lo aveva istruito.
Kali quindi resuscitò Purnananda e chiese “Che cosa volete voi due?”.
Purnananda rispose “”Tutti i cosiddetti grandi astrologi hanno preso in giro il mio ragazzo perché ha detto che questa notte era luna piena: mantieni l’onore del mio ragazzo”.

Kali sorrise e dall’unghia del suo dito mignolo emerse una palla di luce così luminosa che per migliaia di chilometri sembrava una luna piena; e quando gli astrologhi di corte la videro, rimasero stupefatti.

giovedì 26 maggio 2016

La canzone sacra Kuch pal ki zindgani

Tra i vari tipi di canti devozionali indù, riscuotono da tempo molto successo i bhajan (http://informazioniindiaenepal.blogspot.com/2016/02/musica-sacra-bhajan.html) dedicati all’aspetto di Dio senza forma, secondo la corrente spirituale del nirguna bhakti, cioè appunto la devozione (bhakti) verso Dio senza forma (da nir, preposizione negativa, senza, e guna, letteralmente qualità).
Da questo ne deriva che, nonostante si tratti indubbiamente di una tradizione induista, di solito non viene citata nessuna particolare divinità e Dio stesso viene nominato solo raramente.
A questa corrente di pensiero faceva parte, ad esempio, il grande santo e poeta indiano Kabir (http://informazioniindiaenepal.blogspot.com/2016/02/il-santo-kabir_22.html), i cui insegnamenti possono essere facilmente riconoscibili tra le righe dei testi delle canzoni sacre del nirguna bhakti.
Come esempio riportiamo un brano piuttosto famoso, il cui tema è la transitorietà della vita e l’effimerità delle attività umane, come si dedurrà ampiamente dal testo.
Il considerare la morte come una parte della vita è sicuramente uno dei doni più grandi della spiritualità asiatica, che in India raggiunge i suoi massimi livelli, tanto che se ne parla spesso, come ad esempio in questa canzone, se non proprio con gioia, almeno col sorriso ed ironia.

La musica ed il video sono un ottimo esempio della moderna ondata di bhajan, che stanno da tempo riscuotendo un enorme successo commerciale e se musicalmente la qualità può essere soddisfacente, un po’ ripetitiva ma “ricca” ed allegra, cinematograficamente è piuttosto bassa, ma non priva di interessanti spunti socio-culturali.
La regia di questi video non richiede particolari capacità e grossomodo è passabile, sebbene sia essenzialmente un semplice montaggio di immagini abbastanza statiche.
L’interprete principale è un personaggio piuttosto noto, avendo prestato la sua immagine a numerosi produzioni di questo  tipo, e fondamentalmente se la cava abbastanza bene, col suo viso allegro e l’elegante gestualità un po’ “alla Mago Silvan”, ma le comparse lasciano parecchio a desiderare, con movenze ed espressioni spesso al limite del ridicolo.

L’unico aspetto davvero piacevole è quello scenografico, escludendo chiaramente gli “effetti speciali” kitsch con le immagini delle divinità che appaiono qua e là.
Il video infatti è stato girato nei pressi della sacra città di Haridwar dove il Gange abbandona le colline himalayane per iniziare il suo lungo e placido percorso verso il mare.
Segue il testo traslitterato e traduzione in italiano:

Kuch pal kii zindgaanii                      La nostra vita è fatta di pochi attimi
Kuch pal kii zindgaanii                           La nostra vita è fatta di pochi attimi
Ek roz sab ko jaanaa                              Un giorno tutti se ne andranno
Parson kii tuu kyion socen                   Perché pensi al futuro? (letteralmente parson significa dopodomani)
Palkaa nahiin tikaanaa (2 volte)             Neppure un momento è garantito
Kuch pal kii zindgaanii                           La nostra vita è fatta di pochi attimi
                                                              
Mal-mal ke tune apne                             Dopo aver massaggiato il tuo corpo con oli
Tanko jo hè nikaaraa                              Lo hai reso molto splendente
Itron kii khushbuuon se                          E grazie al buon profumo dell’attar (essenza tipica araba)
Maheke shariir saaraa (2 volte)               Il tuo corpo ora ha un buon odore
Kaayaa ye khaak hoghii                          Questo corpo sarà distrutto
Ye baat na bhuulaanaa                           Non dimenticare questa cosa
Parson kii tuu kyion socen                      Perché pensi al futuro?
Palkaa nahiin tikaanaa                            Neppure un momento è garantito
                                                              
Kuch pal kii zindgaanii                           La nostra vita è fatta di pochi attimi
Ek roz sab ko jaanaa                              Un giorno tutti se ne andranno
Parson kii tuu kyion socen                      Perché pensi al futuro?
Palkaa nahiin tikaanaa                            Neppure un momento è garantito
Kuch pal kii zindgaanii                           La nostra vita è fatta di pochi attimi
                                                              
Man hè Hari kaa darpan                         L’anima è lo specchio di Dio
Man me ise basaa le                                Fa che Egli viva nel tuo cuore
Karke tuu karm acche                            Compiendo buone azioni
Kuch punya dhan kamaale (2 volte)       Guadagnerai delle virtù
Kar dhan òr kar dharm tuu                     Fa donazioni e pratiche religiose
Prabhu ko agar hè paanaa                       Se vuoi incontrare Dio
Parson kii tuu kyion socen                      Perché pensi al futuro?
Palkaa nahiin tikaanaa                            Neppure un momento è garantito
                                                              
Kuch pal kii zindgaanii                           La nostra vita è fatta di pochi attimi
Ek roz sab ko jaanaa                              Un giorno tutti se ne andranno
Parson kii tuu kyion socen                      Perché pensi al futuro?
Palkaa nahiin tikaanaa                            Neppure un momento è garantito
Kuch pal kii zindgaanii                           La nostra vita è fatta di pochi attimi
                                                              
Aaeghii wo gharii gab                             Arriverà quel tempo
Koii bhii na saath hogaa                         In cui nessuno sarà con te
Karmon kaa tere saare                            E tutti i tuoi karma (in questo caso, meriti e peccati)
Ek-ek hisaab hogaa                                Verranno contati uno ad uno
Ye soch le abhii tuu                                Ora tu pensa a questo
Phir wakt ye na aanaa                             Il tempo non torna indietro
Parson kii tuu kyion socen                      Perché pensi al futuro?
Palkaa nahiin tikaanaa                            Neppure un momento è garantito
                                                              
Kuch pal kii zindgaanii                           La nostra vita è fatta di pochi attimi
Ek roz sab ko jaanaa                              Un giorno tutti se ne andranno
Parson kii tuu kyion socen                      Perché pensi al futuro?
Palkaa nahiin tikaanaa                            Neppure un momento è garantito
Kuch pal kii zindgaanii                           La nostra vita è fatta di pochi attimi
                                                              
Koii nahiin hè teraa                                Nessuno è tuo
Kyon kartaa meraa-meraa                       Perché tutto questo “mio-mio”
Bhul jaae niind jab bhii                           Quando dimentichi il sogno
Samjho wahii saveraa                             Capisci che è mattino
Har bhor kii karan sang                          Ogni giorno con i primi raggi dell’alba
Hari ka bhajan tuu gaanaa                      Canta i bhajan di Hari (Dio)
Parson kii tuu kyion socen                      Perché pensi al futuro?
Palkaa nahiin tikaanaa                            Neppure un momento è garantito
                                                              
Kuch pal kii zindgaanii                           La nostra vita è fatta di pochi attimi
Ek roz sab ko jaanaa                              Un giorno tutti se ne andranno
Parson kii tuu kyion socen                      Perché pensi al futuro?
Palkaa nahiin tikaanaa                            Neppure un momento è garantito
Kuch pal kii zindgaanii                           La nostra vita è fatta di pochi attimi

Di seguito lasciamo il link al video ufficiale su youtube:


mercoledì 25 maggio 2016

Il film Sholay

Sholay (letteralmente “Fiamme”) è un film indiano del 1975, considerato da molti critici la miglior pellicola bollywoodiana di tutti i tempi, rappresentando a lungo il modello per i successivi film d’azione indiani.
I tre attori principali, Amitabh Bachchan, Dharmendra ed Hemma Malini, non solo ma anche grazie a questo film, sono diventati tra le più grandi star del cinema indiano.
Amitabh Bachchan è ancora oggi considerato l’attore più carismatico ed amato di Bollywood, nonostante abbia ormai passato i 70 anni (per ulteriori dettagli rimandiamo ad un post a lui dedicato http://informazioniindiaenepal.blogspot.in/2016/05/lattore-indiano-amitabh-bachchan.html).
Dharmendra, come Bachchan anche lui noto per il suo piacevole aspetto, dopo essere stato il primattore in decine di film “super-hit”, si sta ora dedicando, con buoni risultati, a lanciare figli, figlie e nipoti con una propria casa di produzione, ed è anche attivo in politica tanto che nel 2004 è stato eletto in Parlamento.
Hemma Malini, grazie al suo ruolo in Sholay della ragazza di paese tutta curve e carattere, è diventata una specie di madrina di tutte le successive eroine.
Viene anche considerata un’ottima ballerina di danza tradizionale Bharatanatyam, che ha spesso eseguito nei film e che ancora oggi recita saltuariamente insieme alle figlie per promuovere campagne di beneficienza. Anche lei ha avuto alcuni ruoli politici.

Quando si parla di attori è naturale fare un po’ di gossip e bisogna notare che durante la realizzazione di Sholay, Dharmendra ed Hemma Malini iniziarono una relazione che li portò a sposarsi nel 1980.
Questo nonostante Dharmendra fosse già sposato e siccome la prima moglie non concesse il divorzio, l’attore ed Hemma Malini si convertirono all’Islam per legalizzare la bigamia.
Secondo le rigide tradizioni culturali indiane, un comportamento del genere sarebbe a dir poco deprecabile, perfino al giorno d’oggi, ma, trattandosi di due superstar, la vicenda non creò eccessivi scalpori.
Ultimo particolare romantico, la ragazza per la quale si invaghisce platonicamente Jai, il personaggio interpretato da Amitabh Bachchan, è la vera moglie dell’attore, essendosi sposati due anni prima delle riprese di questo film.

La trama di Sholay è semplice ma ben architettata, le vicende avvincenti e l’atmosfera generale molto azzeccata, chiaramente ispirata a quella dei classici western, tanto da essere considerato il capostipite del sottogenere chiamato “Curry Western”, dal più noto “Spaghetti Western” italiano.
Ovviamente un confronto con i film di Sergio Leone sarebbe quasi impietoso ma lo svolgimento del tema western in un contesto indiano è piuttosto interessante, come pure la scenografia, ambientata nell’aspra regione collinare di Ramanagara nello stato del Karnataka, particolarmente consona con il genere del film.
Infine, per quanto riguarda la musica, tutti i brani hanno avuto un ottimo successo e molti sono ancora oggi oggetto di continui remake.
I testi sono stati scritti da Anand Bakshi e le musiche composte da R.D. Burman, il quale ha anche interpretato due brani, mentre gli altri sono stati eseguiti dal noto cantante Kishore Kumar e dall’ancor più famosa Lata Mangeshkar.
Segue un breve riassunto.

Nel piccolo villaggio di Ramgarh, l’ex-poliziotto Thakur Singh (Sanjay Kumar) ingaggia due piccoli ma coraggiosi ladri, Jai e Veeru (Amitabh Bachchan e Dharmendra), per cercare di catturare il noto criminale Gabbar Singh (Amjad Khan).
Per rivincita personale e convincere i due ladri, Thakur Singh offre a Jai e Veeru, oltre alla ricompensa ufficiale, una grossa somma di denaro chiedendogli però di consegnarglielo vivo.
Quando la banda di Gabbar Singh piomba sul paese per le consuete estorsioni, Jai e Veeru riescono a respingerli e addirittura mettono in un angolo il capo, ma Thakur Singh, che avrebbe la possibilità di aiutarli raccogliendo da terra un fucile, inaspettatamente non interviene permettendo a Gabbar Singh di scappare.
Delusi dall’attegiamento del loro mandante, Jai e Veeru decidono di lasciare il paese, cambiando idea solo quando Thakur Singh gli mostra il motivo per cui non li aveva aiutati: facendo cadere dalle spalle il grande scialle che aveva vestito fino a quel momento, si scopre che è senza braccia, amputate selvaggiamente alcuni anni prima da Gabbar Singh.

Convinti quindi a vendicare l’onta subita dall’ex-poliziotto, Jai e Veeru decidono di rimanere, spinti anche da alcuni interessi personali: Jai verso Radha (Jaya Bhaduri), la schiva figlia vedova di Thakur Singh e Veeru verso la straripante ed avvenente Basanti (Hemma Malini), guidatrice di tonga (tradizionale carro trainato da cavalli) del paese.
Dopo varie schermaglie tra i due coraggiosi ladri e la banda di banditi, Veeru e Basanti vengono catturati e torturati da Gabbar Singh, finché Jai interviene ed i tre riescono a scappare dal rifugio dei criminali.
Nella successiva sparatoria però, Jai e Veeru terminano le munizioni, quindi Jai, scoprendo di essere ferito, convince Veeru a tornare in paese a prenderle, mentre lui utilizza l’ultimo proiettile per detonare una carica di dinamite situata presso il ponte su quale si stava svolgendo la sparatoria.
Purtroppo così facendo Jai si ferisce ulteriormente per morire poco dopo tra le braccia di Veeru rientrato per portargli soccorso.
Molto toccante e ben congegnata è la scena in cui Veeru si accorge che Jai si era volutamente sacrificato.
Durante tutto il film, quando i due amici si trovano in dubbio su che decisione prendere risolvono la questione lanciando una moneta e lo stesso fanno quando devono decidere chi dei due rimane a combattere e rallentare i banditi e chi torna in paese a fare rifornimento di munizioni: Jai sceglie testa, lancia la moneta e viene appunto testa.
Ma poco dopo che questi muore, Veeru si accorge che la moneta di Jai aveva due teste.
Inferocito, Veeru attacca da solo i banditi rimasti, riducendo lo stesso Gabbar Singh in fin di vita, e proprio mentre gli sta per dare il colpo di grazia, all’improvviso compare Thakur Singh che gli ricorda il patto di consegnarglielo vivo.
Quindi, utilizzando degli spuntoni costruiti sulla suola delle scarpe, l’ex-poliziotto amputa le mani di Gabbar Singh e sarebbe quasi sul punto di ucciderlo se non fosse per l’intervento della polizia che arresta il bandito.

Dopo i funerali di Jai, Thakur Singh e la figlia Radha riprendono la loro semplice e triste vita, mentre Veeru lascia Ramgarh e trova Basanti ad aspettarlo sul treno.