Tra la moltitudine di santi che
l’India ha prodotto nell’arco dei secoli, un posto di primo piano spetta
sicuramente all’originalissimo Kabir.
Sebbene sia vissuto intorno al non
lontano XIV secolo, sono pochissime le notizie certe riguardo la sua vita, a parte
il fatto che sia nato e vissuto nella sacra città di Benares.
Perfino la sua nascita è avvolta da un
alone di mistero, in quanto pare sia stato partorito da una donna bramina in
difficoltà, quindi abbandonato nei pressi di una vasca sacra, e successivamente
raccolto da un’umile coppia di tessitori mussulmani senza figli.
Le poche notizie vagamente sicure
sulla sua vita si possono ricavare dalle sue numerose poesie, che lo pongono
tra i maggiori poeti del suo tempo.
Infatti, seppur la definizione di santo
sia di per sé alquanto onorifica ed onnicomprensiva, nel caso di Kabir risulta
quasi riduttiva, data la versatilità del personaggio, che non fu solo un
importante santo, ma anche filosofo, riformatore sociale, yogi, poeta, musico
ed infine tessitore, l’occupazione della sua famiglia.
Il messaggio principale del suo
insegnamento, seppur lui stesso non si sia mai ritenuto un maestro, sta
nell’infinita umanità e nel suo amore verso le persone disagiate, che ne fanno anche
un archetipo dei moderni attivisti per i diritti umani.
Nell’evidenziare la sua importanza
storica bisogna ricordare l’intricatissima situazione politica indiana durante
quel periodo, specialmente a Benares, caratterizzata dall’affermazione
dell’Islam nel subcontinente indiano.
La città di Benares, in quanto
roccaforte dell’induismo, fu spesso soggetta a persecuzioni e distruzioni da
parte dei regnanti mussulmani, ma allo stesso tempo, data la sua importanza, è
sempre stata tenuta d’occhio con un certo riguardo.
Durante il periodo di Kabir, ad
esempio, nonostante la città fosse governata da un reggente mussulmano inviato
dall’Imperatore di Delhi, il Maharaja era un indù e questo creò ulteriori
difficoltà alle persone comuni interessate, più che altro, al quieto vivere.
La pressione e la contorta politica
derivanti dall’essere soggetti quindi ad una doppia autorità religiosa, fu
anche artefice dell’incremento dell’ipocrisia e della superstizione, due mali
contro i quali Kabir dedicò gran parte della sua esistenza e delle sue opere.
Date le sue origini misteriose e la
sua avversione verso le religioni organizzate, risulta quindi difficile
definire Kabir come un santo indù o mussulmano: secondo la leggenda, quando
morì sia gli induisti che i mussulmani reclamarono il suo corpo, i primi per
bruciarlo, i secondi per seppellirlo, ma quando si recarono nella stanza
dov’era conservato, al posto del cadavere trovarono un mazzo di fiori, che fu,
una volta tanto, democraticamente diviso, per permettere a entrambe le comunità
di compiere i riti funebri secondo i propri costumi.
Un’ulteriore riprova dell’universalità
del suo messaggio è evidente anche dalla folta presenza di sue poesie all’interno
del Guru Granth Sahib, la raccolta di testi sacri fondamento della religione
Sikh.
Venendo quindi alla figura di Kabir
come poeta, la prima caratteristica peculiare da evidenziare è che lui
personalmente non scrisse mai nulla, visto che, come affermò in un famoso verso,
non sapeva né leggere né scrivere (letteralmente disse “Queste mani non hanno
mai toccato penna o carta), ma le sue composizioni, sotto forma di discorsi,
canzoni o brevi ritornelli, sono state trascritte dai suoi attivi seguaci.
Durante quel periodo era comune che i
poeti, e gli scrittori in genere, accompagnassero le loro composizioni con la
musica, e solo i più eccelsi venivano poi ammessi alle corti di regnanti e
ricchi personaggi che gli permettevano di vivere esclusivamente di quello e di perfezionarsi.
Data però la sua inveterata avversione
proprio verso ricchi e regnanti, contro i quali sono dirette alcune delle sue
critiche più pungenti, Kabir si limitava a vagare per le strade della città
cantando le sue opere, accompagnandosi col classico e umile strumento chiamato ektara,
un essenziale “violino” munito di una sola corda, da cui il nome (ek, uno,
e tara, corda).
La sua forma di poesia più utilizzata
è sicuramente la doha, una peculiare metrica indiana che prevede
l’utilizzo di due soli versi e richiede quindi una notevole maestria nel poter
veicolare messaggi complessi.
Come esempio riportiamo una famosa
doha che, nonostante i limiti di traduzione, mostra lo stile e la capacità
compositiva di Kabir, nonché la sua profonda conoscenza del rapporto uomo-Dio; riportiamo
anche la traslazione, nella speranza che rimanga il caratteristico ritmo,
scandito dalle virgole.
Dukh me smaran sabh kare, sukh me na
koi,
jo sukh me smaran kare, dukh me na
hoi.
Nelle sofferenze tutti Lo ricordano,
nella felicità nessuno,
ma per coloro che Lo ricordano nella
felicità, non ci saranno più sofferenze.
Alcune delle sue opere, specialmente
quelle più lunghe con tema complicati concetti yoga (che oltretutto non si capisce
assolutamente dove li abbia appresi), sono così enigmatiche e prone a
molteplici interpretazioni, che ancora oggi gli studiosi non riescono a capire
con esattezza cosa Kabir volesse realmente dire.
Va anche segnalata una spiacevolissima
opera di interpolazione delle sue opere, che sono state divulgate spesso con
intenti “politici” e quindi prevedibilmente corrotte: alla sua morte i suoi
discepoli si divisero infatti in due sette, che a lungo rivaleggiarono per
vantare una specie di autorità sull’argomento Kabir.
La fonte più precisa ed imparziale
risulta essere quindi quella proveniente dai testi presenti nella letteratura
sacra Sikh, seppur in questo caso ci sia il problema che le poesie, seppur in
buona fede, sono state trascritte o tradotte in un’altra lingua, il punjabi,
per cui qualcosa di sicuro si è perso o è stato mutato.
Nonostante questo, è possibile
comunque avere un’idea precisa del suo messaggio umanistico, che continua ad
avere validità ancora oggi, e come tale viene, per fortuna, apprezzato
pubblicamente, soprattutto attraverso il teatro e la musica, dove le sue opere sono
una continua fonte ispirazione.
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