Tra i numerosi sovrani che storicamente
hanno regnato su vasti territori del subcontinente indiano, un posto di primo
piano spetta all’imperatore buddista Ashoka (304-232 a.C.), terzo discendente
della dinastia Maurya.
Il suo impero in realtà si estendeva ben
oltre i confini attuali dell’India, dall’Afghanistan fino al Bangladesh, Nepal
compreso, escludendo solo la punta più meridionale della penisola indiana.
Pur essendo il più giovane dei figli
maschi dell’imperatore Maurya Bindusara, Ashoka, poco prima della morte del
malfermo padre, attaccò la capitale dell’impero, Pataliputra (attuale Patan
nello stato del Bihar), uccidendo tutti i fratelli e reclamando il titolo di Imperatore
Maurya.
Continuando con una politica
aggressiva, Ashoka in poco tempo estese i suoi domini fino a scontrarsi con il piccolo
ma potente regno Kalinga, nell’attuale stato dell’Orissa.
Nel 264 a.C., dopo una lunga e
sanguinosa guerra dalla quale Ashoka uscì vincitore, proprio camminando tra i cadaveri
e i feriti del campo dell’ultima decisiva battaglia, fu preso da un enorme
senso di colpa che lo portò a convertirsi al buddismo ed a praticare la nobile
virtù della non-violenza.
Dedicò quindi il resto della sua vita
alla diffusione del buddismo, da lui chiamato la religione del dharma (l’etica
morale insegnata dal Buddha) ed alla protezione di tutti i suoi sudditi,
compresi gli animali.
Le fonti delle notizie sull’operato di
Ashoka sono essenzialmente due: la prima è composta da alcune cronache antiche,
due indiane del II secolo in sanscrito e due provenienti dallo Sri Lanka in
lingua pali, le quali però, essendo di matrice buddista, tendono ad essere
elogiativi sia dell’imperatore che del buddismo, senza contare che sono intrisi
di episodi mitologici e leggende.
La seconda fonte, decisamente più
attendibile, ci proviene dall’imperatore Ashoka stesso, famoso per aver fatto
scolpire su rocce e colonne, sparse per l’impero, delle inscrizioni note
oggigiorno come gli Editti di Ashoka.
I temi di questi editti sono piuttosto
ricorrenti: la conversione di Ashoka al buddismo, la descrizione dei suoi
sforzi per diffonderlo, precetti morali e religiosi, ed i suoi programmi per il
benessere della società e degli animali.
Seppur pare fossero originariamente più
di un centinaio, al giorno d’oggi sono stati riconosciuti 33 siti dove si
trovano questi editti, che hanno chiaramente una notevole importanza sotto vari
punti di vista: storico, religioso, artistico, sociale, nonché linguistico.
Storicamente la loro presenza aiuta a
capire con precisione quale fosse l’estensione e l’effettiva influenza dell’impero
Maurya.
Sono anche tra i documenti scritti più
antichi del subcontinente, in quanto per lungo tempo, fino a non molti secoli
fa, venivano scritti su cortecce, foglie di palma o di banano, ed altri materiali
deperibili.
L’importanza religiosa è data dal
fatto che Ashoka, come già accennato, si servì di questi editti per diffondere
i precetti buddisti e, anche grazie ad alcuni monaci, riuscì ad esportarli nel
vicino mondo ellenico, soprattutto ad Alessandria d’Egitto.
Pare addirittura che la comunità
pre-cristiana dei terapeuti abbia tratto le proprie caratteristiche ascetiche e
monastiche dal contatto con monaci buddisti.
La moderna e non ancora provata teoria
che vede il cristianesimo come uno sviluppo più o meno diretto del buddismo
vede proprio in questi emissari di Ashoka il primo possibile punto di contatto
(il Buddha d’altronde visse circa tre secoli prima di Ashoka, quindi è
difficile che vi siano stati collegamenti precedenti).
È possibile anche vi sia stato un
contatto, più o meno diretto, con gli esseni dell’area del Mar Morto.
Secondo le fonti buddiste, altri
popoli dell’area ellenica furono infatti influenzati e in parte convertiti a
idee della religione del dharma grazie all’operato di Ashoka seppur,
confrontando queste informazioni con quelle delle fonti elleniche, l’influenza
pare sia stata decisamente minore.
Senza andare così lontano, Ashoka fu
il responsabile diretto della propagazione del buddismo in Nepal, dove visitò
la Valle di Kathmandu, senza scrivere editti ma facendo costruire quattro stupa
attorno alla città di Patan visibili ancora oggi.
I suoi figli, invece, furono inviati
in Sri Lanka, dove godono tuttora di notevole rispetto, ai limiti della
devozione, proprio per aver introdotto il buddismo sull’isola.
Artisticamente gli editti in sé non
hanno grande valore ma l’hanno invece le colonne che venivavo erette nei pressi
delle rocce che ospitavano le inscrizioni, decorate spesso con elaborati
capitelli a tema faunistico.
Al giorno d’oggi ne sono rimaste 19, in
vario stato di conservazione: alcune ancora intatte nel luogo originale dove furono
erette più di duemila anni fa, altre, distrutte da varie calamità, sono
conservate a pezzi all’interno di musei.
Alte in media tra i 12 e i 15 metri, ogni
colonna veniva scolpita da un unico gigantesco blocco di pietra arenaria nelle
miniere di Chunar, un cittadina sul Gange nei pressi di Varanasi, nota
storicamente per aver fornito materiale di ottima qualità anche per numerosi
forti e palazzi indiani.
La più nota è sicuramente la colonna
che Ashoka fece erigere a Sarnath, a pochi chilometri da Varanasi, considerato
il luogo dove il Buddha promulgò il primo sermone dopo l’illuminazione.
Sebbene in realtà della colonna in sé
non è rimasto che qualche frammento, si è conservato, quasi intero, lo stupendo
capitello che rappresenta quattro leoni “schiena contro schiena”, di cui quindi
solo tre sono visibili frontalmente, che oggi è utilizzato come elegante
simbolo ufficiale del governo indiano.
In origine sopra ai leoni era situata
un grande ruota a 24 raggi, conosciuta come la ruota di Ashoka, che oggi è
raffigurata al centro della bandiera indiana prendendo spunto da quella più
piccola scolpita nella fascia sotto ai leoni, tra i bassorilievi di un cavallo
e un toro.
Dal punto di vista sociale gli editti
mostrano l’effettivo interesse di Ashoka nel promuovere il benessere dei suoi
sudditi, nonché nella protezione degli animali.
In una delle inscrizioni più famose,
Ashoka riporta la lista di ben 24 animali che furono dichiarati protetti e
promulga il divieto di castrare i galli, come quello di nutrire un animale con
un altro animale.
Egli in realtà non vietò del tutto le macellazioni
ma solo quelle gratuite, come ad esempio quelle per sacrifici religiosi, al
tempo molto diffusi, e si sforzò di stabilire il numero preciso degli animali e
delle specie che potevano essere macellati per il consumo umano.
Non si può fare a meno di notare che
nonostante siano passati più di duemila anni, l’uomo moderno non sembra aver messo
in pratica, né tantomeno migliorato, le semplici e intelligenti idee di Ashoka.
Chiaramente questi antichissimi editti
a tema faunistico sono considerati il primo esempio nella storia di
legislazione per la protezione degli animali.
Infine bisogna segnalare l’enorme
importanza linguistica degli editti di Ashoka, spesso bilingui, che permettono
quindi anche facili confronti.
La maggior parte sono in una delle
lingue pracrite, un gruppo di idiomi provenienti dalle antiche lingue
indo-ariane e di solito scritte in caratteri brahmi, dai quali si svilupparono
in seguito alcune scritture tipiche del subcontinente, come il devnagari,
usato per hindi, nepali, marathi e
sanscrito, la scrittura gurumukhi, usata per la lingua punjabi, e la scrittura
tibetana.
Nelle zone orientali la lingua più
utilizzata negli editti è il magadhi, idioma ufficiale dell’impero di Ashoka,
mentre nei territori occidentali la lingua è il gandhari, l’idioma pracrita
utilizzato dalla cultura Gandhara, e i caratteri usati sono quelli kharoshti,
che in quelle zone servivano anche per l’antico sanscrito.
Negli editti
trovati in Afghanistan e Kandahar, le scritte sono in greco ed aramaico,
mostrando chiaramente quanto fossero seri gli intenti di Ashoka di diffondere
le sue idee buddiste.
In alcuni casi, le rocce fatte scolpire da
Ashoka sono state utilizzate da successivi regnanti, come è successo agli editti
di Junagarh, in Gujarat.
Nel 150 d.C. fu l’imperatore
Rudraman I, della dinastia Shaka, ad aggiungere delle inscrizioni in sanscrito,
quindi nel 450 d.C. fu la volta dell’ultimo grande imperatore della dinastia
Gupta, Skandagupta, a far inscrivere alcune righe, sempre in sanscrito.
Un altro caso
simile si è verificato sulla colonna di Ashoka, conservata dentro al grande
Forte di Akbar ad Allahabad, in Uttar Pradesh, che purtroppo non è visitabile
perché al momento è occupato dall’Esercito Indiano.
Le inscrizioni di
Ashoka sono in lingua magadhi e scrittura brahmi, mentre alcune più recenti
sono attribuite a Samudragupta, delle dinastia Gupta, che regnò tra il 335 e il
375 d.C..
Anche la forma di
scrittura utilizzata è chiamata gupta, derivante dalla brahmi.
Più recentemente,
fu l’imperatore Moghul Jehangir, figlio di Akbar, ad aggiungere delle eleganti
inscrizioni in lingua persiana.
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