martedì 9 febbraio 2016

Pooja

Il termine hindi pooja, come da definizione del dizionario hindi-inglese della Oxford University, significa venerazione, adorazione verso una divinità.
Quello che però il dizionario non può riportare sono le numerose accezioni che tale parola assume nella variegata religione indù.
In particolare, il termine pooja serve a descrivere le offerte che vengono porte alle divinità, sia attraverso le cerimonie officiate da sacerdoti, sia le preghiere dei singoli devoti.
Ad esempio, le cerimonie di apertura e chiusura dei tempi, celebrate da sacerdoti al mattino e alla sera, vengono chiamate pooja e consistono di solito in offerte di fuoco alla divinità (come nella nota arti pooja), accompagnate da scampanellii, recitazioni di mantra e preghiere.
Allo stesso modo vengono chiamate pooja le offerte che i singoli devoti portano al tempio e sulle quali concentreremo la nostra attenzione.
Andare al tempio a “fare pooja” vuol dire  presentare alla divinità delle offerte che vengono santificate dal dio di turno, il quale ne trattiene una parte mentre il rimanente viene restituito al devoto.
Il materiale di tali offerte, sebbene possa comprendere i più disparati articoli, è composto di solito da 5 oggetti che rappresentano gli elementi: terra, acqua, fuoco, aria ed atere.
La pooja più semplice e comune, praticata ogni giorno da migliaia di indù, prevede l’offerta di pasta di sandalo, per rappresentare la terra, del cibo per l’acqua, una fiamma per il fuoco, incenso per l’aria ed infine fiori, che rappresentano l’etere.
Questi articoli vengono venduti, in composizioni già pronte, su bancarelle, sempre presenti davanti ai templi, ma possono anche essere confezionate sul momento dal negoziante o portate da casa dal devoto stesso.
In genere gli articoli sono posti dentro ad una foglia o piccoli cestini ma, per le offerte più elaborate, si utilizzano anche dei grandi piatti di metallo.
Una volta di fronte alla divinità il pacchetto delle offerte viene porto al sacerdote che si premura di prelevare alcuni articoli; quindi il devoto rivolge il suo saluto alla divinità, terminato il quale riprende quello che è avanzato dalla sua offerta.
Di solito i fiori e il cibo, i quali, essendo resi sacri dalla divinità, serviranno i primi, per decorare e santificare l’altare domestico, il secondo verrà invece consumato e diviso con i propri cari.
Chiaramente è buona norma accompagnare l’offerta con un po’ di denaro, 5 o 10 rupie, per il sacerdote.
Oltre ai numerosi articoli sostitutivi ai 5 classici di cui abbiamo accennato, molto comune è anche l’offerta di una noce di cocco.
Analizzandone l’aspetto, la noce di cocco, con la sua forma sferica, i tre “occhi” e il liquido al suo interno, rappresenta la testa umana che il devoto offre metaforicamente in sacrificio alla proprio divinità.
Di solito viene spaccata e divisa con la divinità ma talvolta viene solo presentata ai piedi della statua e restituita intera.
Nel caso di piccoli templi sprovvisti di sacerdote (o semplicemente nel caso il sacerdote di turno sia momentaneamente assente) il devoto compie più o meno le stesse operazioni ma per conto proprio.
Seppur di primo acchito le pooje indù possano sembrare una superstiziosa offerta a statue e pietre, bisogna ricordare che, nonostante l’induismo venga considerato una religione politeista, in realtà le divinità non sono venerate in quanto tali ma come rappresentanti di aspetti particolari del Dio Assoluto, il Brahman, l’Atman.

Essendo Egli senza forma e notoriamente difficile per gli esseri umani da comprendere e adorare, si volge quindi l’attenzione sulle divinità, che pur essendo entità astratte, hanno una qualche forma, qualche attributo specifico, che aiutano il devoto a comprenderne le qualità.

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