Il termine hindi pooja, come da definizione del dizionario hindi-inglese della
Oxford University, significa venerazione, adorazione verso una divinità.
Quello che però il dizionario non può
riportare sono le numerose accezioni che tale parola assume nella variegata
religione indù.
In particolare, il termine pooja serve
a descrivere le offerte che vengono porte alle divinità, sia attraverso le cerimonie
officiate da sacerdoti, sia le preghiere dei singoli devoti.
Ad esempio, le cerimonie di apertura e
chiusura dei tempi, celebrate da sacerdoti al mattino e alla sera, vengono
chiamate pooja e consistono di solito in offerte di fuoco alla divinità (come
nella nota arti pooja), accompagnate da scampanellii, recitazioni di
mantra e preghiere.
Allo stesso modo vengono chiamate
pooja le offerte che i singoli devoti portano al tempio e sulle quali
concentreremo la nostra attenzione.
Andare al tempio a “fare pooja” vuol
dire presentare alla divinità delle
offerte che vengono santificate dal dio di turno, il quale ne trattiene una
parte mentre il rimanente viene restituito al devoto.
Il materiale di tali offerte, sebbene
possa comprendere i più disparati articoli, è composto di solito da 5 oggetti
che rappresentano gli elementi: terra, acqua, fuoco, aria ed atere.
La pooja più semplice e comune,
praticata ogni giorno da migliaia di indù, prevede l’offerta di pasta di
sandalo, per rappresentare la terra, del cibo per l’acqua, una fiamma per il fuoco,
incenso per l’aria ed infine fiori, che rappresentano l’etere.
Questi articoli vengono venduti, in
composizioni già pronte, su bancarelle, sempre presenti davanti ai templi, ma
possono anche essere confezionate sul momento dal negoziante o portate da casa
dal devoto stesso.
In genere gli articoli sono posti
dentro ad una foglia o piccoli cestini ma, per le offerte più elaborate, si
utilizzano anche dei grandi piatti di metallo.
Una volta di fronte alla divinità il pacchetto
delle offerte viene porto al sacerdote che si premura di prelevare alcuni
articoli; quindi il devoto rivolge il suo saluto alla divinità, terminato il
quale riprende quello che è avanzato dalla sua offerta.
Di solito i fiori e il cibo, i quali,
essendo resi sacri dalla divinità, serviranno i primi, per decorare e santificare
l’altare domestico, il secondo verrà invece consumato e diviso con i propri
cari.
Chiaramente è buona norma accompagnare
l’offerta con un po’ di denaro, 5 o 10 rupie, per il sacerdote.
Oltre ai numerosi articoli sostitutivi
ai 5 classici di cui abbiamo accennato, molto comune è anche l’offerta di una
noce di cocco.
Analizzandone l’aspetto, la noce di
cocco, con la sua forma sferica, i tre “occhi” e il liquido al suo interno,
rappresenta la testa umana che il devoto offre metaforicamente in sacrificio
alla proprio divinità.
Di solito viene spaccata e divisa con
la divinità ma talvolta viene solo presentata ai piedi della statua e restituita
intera.
Nel caso di piccoli templi sprovvisti
di sacerdote (o semplicemente nel caso il sacerdote di turno sia
momentaneamente assente) il devoto compie più o meno le stesse operazioni ma
per conto proprio.
Seppur di primo acchito le pooje indù
possano sembrare una superstiziosa offerta a statue e pietre, bisogna ricordare
che, nonostante l’induismo venga considerato una religione politeista, in
realtà le divinità non sono venerate in quanto tali ma come rappresentanti di
aspetti particolari del Dio Assoluto, il Brahman, l’Atman.
Essendo Egli senza forma e
notoriamente difficile per gli esseri umani da comprendere e adorare, si volge
quindi l’attenzione sulle divinità, che pur essendo entità astratte, hanno una
qualche forma, qualche attributo specifico, che aiutano il devoto a
comprenderne le qualità.
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