Alcuni anni fa, durante una visita in
una bella e fornitissima libreria di Kathmandu, ci imbattemmo in un grande
volume fotografico sulle remote regioni del Tibet.
Tra i tanti scatti di meravigliosi
paesaggi incontaminati e affascinanti momenti di vita d’alta montagna, la
nostra attenzione si soffermò sulla fotografia di una mano, rugosa e annerita,
sul palmo della quale era posato uno strano oggetto, simile a un sottile peperoncino
secco marrone.
Come riportato dall’interessante
capitolo seguente, si tratta invece dello yartsa gunbu, o yarchagumba
(nome scientifico ophiocordyceps sinensis), un particolarissimo fungo
che cresce sopra i 3.500 metri di altitudine, sull’altopiano del Tibet ed i
pascoli d’alta quota dell’Himalaya di Nepal ed India.
In realtà, quello strano oggetto non è
solo il fungo, bensì il risultato della relazione parassitica tra il fungo e la
larva di alcuni lepidotteri.
Queste larve spendono fino a cinque
anni sotto terra in attesa di diventare pupe e durante questo periodo rischiano
di essere attaccate dal fungo, seppur non sia ancora chiaro come questo
avvenga: se tramite l’ingestione di spore del micelio, oppure se esse passino
attraverso i pori utilizzati dalle larve per la respirazione.
Una volta all’interno, l’ophiocordyceps
germina, uccide l’organismo vivente che lo ospita, lo mummifica, quindi cresce
dentro il suo corpo finché non ne esce fuori, in genere dalla testa situata
vicino alla superficie, e dalla quale quindi spunta il fungo.
Il nome scientifico cordyceps sinensis
– utilizzato fino a pochi anni fa e modificato solo recentemente dopo analisi
molecolari che hanno rivelato faccia parte del genere ophiocordyceps – si rifà
alla forma che ricorda la testa (ceps, dal latino capus) di una
clava (cordi, dal greco kordule), sinensis invece vuol
dire cinese, mentre il nome tibetano yartsa gunbu (o yarchagumba) significa
erba in estate, verme d’inverno, dal particolare sviluppo che segue il fungo;
seppur la sequenza in realtà sia invertita, prima è verme poi erba.
I primi cenni scritti del suo utilizzo
in campo medico risalgono a circa il XIV secolo, ma si suppone sia in realtà
ben più antico ed oggiogiorno è considerato uno degli ingredienti più richiesti
nella medicina tradizionale cinese, al punto da essere uno dei più costosi
rimedi naturali.
Secondo i dati forniti dall’articolo
inglese di Wikipedia, può arrivare a costare più di mille dollari al chilo,
sebbene per la produzione di rimedi a livello domestico ne bastino pochi
grammi.
Per la medicina tradizionale cinese
sono innumerevoli le malattie che possono essere curate tramite lo yartsa
gunbu, ma anche la medicina occidentale si sta interessando alle sue numerose,
ma non ancora del tutto esplorate, proprietà terapeutiche.
Un articolo apparso sul The Kathmandu
Post alcuni anni fa, intitolato Sharp decline in Yarcha collection, says report
(Leggera diminuzione nella collezione di Yarcha, afferma un rapporto), ci
informa invece del progressivo declino, non solo nell’area nepalese, ma anche
in India, Tibet e Bhutan.
Nel distretto di Dolpo in Nepal, dove
la produzione è pari al 50% di quella totale del paese, il raccolto annuo è
passato da una media di circa 267 pezzi a persona nel 2006, ai 125 del 2010,
mostrando un declino annuale di circa 30 pezzi a persona.
Sebbene le cause di questa riduzione
non siano ancora state accertate, le più accreditate sono una maggior richiesta
a livello internazionale, nonché un eventualmente ancor più preoccupante
declino, dovuto a globali cambiamenti climatici, dei delicati lepidotteri
correlati al fungo.
Per fortuna, grazie all’importanza
economico-sanitaria, da tempo l’ophiocordyceps sinensis viene prodotto in
laboratorio, sia in vitro che “all’asciutto”, e seppur in entrambi i casi ciò
avvenga senza il supporto della larva del lepidottero, ciò non ne intacca le
proprietà terapeutiche.
Non avendo la possibilità, ed onestamente
neppure un particolare interesse, di visitare le remote regioni nepalesi dove
avviene la raccolta di questo originalissimo fungo, per altro regolata da
rigidissime leggi, ci siamo però prodigati in una piccola, infruttuosa ma
interessante ricerca per poter almeno vederne da vicino un esemplare e
fotografarlo.
Gli elevatissimi prezzi sono invece un
deterrente all’idea di possederne uno, seppur, secondo il libro sul Tibet
citato all’inizio, i prezzi astronomici sembrano riservati ad esemplari perfettamente
integri, mentre quelli rotti, privi di qualche pezzetto, dovrebbero avere dei
prezzi più accessibili, e potrebbero soddisfare comunque ampiamente la nostra
curiosità naturalistica.
Nella città di Kathmandu, sulle ampie
strade nei pressi del grande e popolare Thundikel Park, vicino ad un grande
ospedale pubblico, specialmente durante i giorni di festa è possibile
incontrare degli interessanti personaggi, dai tipici caratteri tibetani
logorati dalla dura vita di montagna, che vendono stranissimi rimedi naturali.
In genere sono seduti per terra, di
fronte al loro “negozio”: un foglio di plastica sopra al quale sono posati
numerosi sacchetti, dove vengono conservate radici, erbe, semi, noci, rametti e
altri oggetti non ben identificati, provenienti dalle foreste himalayane.
Qualche tempo fa, durante uno dei
tanti scioperi generali nella Valle di Kathmandu, incontrammo uno di questi
personaggi, circondato da un gruppetto di persone e allegramente indaffarato a
preparare dei pacchetti ad una coppia di nepalesi di mezza età.
Purtroppo, a causa delle nostre
limitatissime conoscenze della lingua nepalese, ammesso e non concesso che non
parlassero qualche dialetto locale, non riuscimmo a capire quasi nulla di
quello che veniva detto ma, attraverso l’universale linguaggio dei gesti,
ampiamente usato sia dal negoziante che dai clienti, ci sembra di aver intuito
che molte di quelle stranezze servono per preparare tisane, presumibilmente
contro le costipazioni ed i malanni derivanti dalla stagione fredda.
Da uno dei sacchetti tenuti in
disparte, con grande sorpresa della decina di persone presenti, fu estratta
addirittura una zampetta di qualche particolare ungulato e, alla provocazione
di un paio d’astanti che fosse semplicemente di capra, il solerte ed esperto
venditore fece notare la differenza nel numero delle dita, quindi con un
coltello ne tagliò una striscia e la mise nei pacchetti che stava preparando ai
due signori.
Anche se tutta l’operazione di
acquisto e mercanteggio fu alquanto confusa, alla fine ci sembra di aver visto
dare al venditore 450 rupie, circa 4 euro, una somma considerevole per gli
standard di vita nepalesi.
Purtroppo però, tra i numerosi misteriosi
ingredienti, che ebbimo modo di osservare con calma, non ci è sembrato di
vedere qualcosa che potesse assomigliare allo yartsa gunbu; riproveremo in
futuro, magari migliorando la nostra conoscenza della lingua nepali e chiedendo
informazioni ad uno di questi interessanti personaggi.
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