martedì 31 gennaio 2017

Il giornalista-scrittore Khushwant Singh, III parte, umorismo

L’ultima sezione del libro di Khushwant Singh “Not a nice man to know” (http://informazioniindiaenepal.blogspot.in/2017/01/il-giornalista-scrittore-khushwant.html) è dedicata alle barzellette, precedute da un breve saggio dell’autore sull’umorismo, scritto nel 1992 ed intitolato What’s so funny? (Cosa c’è di così divertente?).
Libera traduzione, cui segue una delle barzellette; altre verranno pubblicate in un successivo post.

Inventare barzellette non è una questione da ridere. È un lavoro serio che richiede conoscenza, intuito ed esperienza su cosa farà ridere le persone e cosa invece no. Prima di tutto dobbiamo scoprire perché le persone ridono. Per alcuni, la vista di una persona con un grande naso, il labbro leporino, le balbuzie, un’enorme pancia, una zoppia è abbastanza per farli ridere. Altri vogliono più azione, come uno che scivola su una buccia di banana, per avere la stessa reazione. Non bisogna avere senso dell’umorismo per ridere di queste cose, ma al contrario ne rivelano una totale mancanza.

Ci sono molte cose che fanno ridere diversamente le persone. Ma cercare di analizzare le risate è come sezionare una rana: potrai osservarne le interiora e tutto quello che si trova nel suo corpo, ma ucciderai la rana. Dovresti invece cercare di accettare le risate come un fenomeno che rilascia la tensione e ti fa sentire più leggero e contento. Persone di età diverse reagiscono in maniera diversa in differenti situazioni. Un bambino ride quando vede qualcuno cadere dalle scale, mentre un adulto sarà dispiaciuto perché gli è successa una cosa simile e sa quanto sia doloroso. Anche tra gli adulti comunque gli stimoli che scatenano una risata sono sono diversi da nazione a nazione. Sebbene gli europei abbiano un gran numero di barzellette sugli ebrei, gli scozzesi, gli irlandesi, i polacchi, sono considerate di cattivo gusto. Al contrario in India, molte delle nostre barzellette sono dirette a certe comunità e prendiamo in giro i marwari (gruppo etnico rajasthano), i bania (una casta di mercanti del nord dell’India), i parsi, i sikh, ma sono tutte largamente basate su stereotipi e non hanno alcuna base reale. Gli europei si lasciano andare al black-humour con barzellette sui funerali e sulla morte, in India le consideriamo di cattivo gusto. Sebbene, condividiamo lo stesso interesse nelle barzellette sulle nostre suocere e le nostre mogli; fare del cognato il bersaglio di barzellette, poi, è una specialità tipica indiana.

Questo mostra che tutti siamo appassionati all'umorismo. E più si cerca di sopprimerlo, più si manifesta. Se vieti ad una persona di ridere, riderà ancora di più. Per questo le barzellette su Hitler, Stalin, il fascismo, il comunismo fiorirono in Russia e Germania. Quando il Generale Zia-ul Haq impose la dittatura militare in Pakistan, venne in gran parte ridicolizzato nel suo paese. Come in India, quando Indira Gandhi instaurò il regime dell’Emergenza e divenne l’obiettivo dell’umorismo per aver soppresso la libertà di parola.

Ridere degli altri è molto più facile che ridere di se stessi. Solo persone con una notevole sicurezza di sé si possono permette di ridere delle proprie debolezze. C’è stato un tempo, prima dell’Operazione Blue Star (l’invio dell’esercito nel tempio più sacro per i sikh per debellare un gruppo di terroristi) che i sikh si vantavano, giustamente, di creare le più belle barzellette sui sikh. Ma da allora hanno sviluppato un atteggiamento negativo e si offendono per le barzellette indirizzate a loro. In ogni caso, le barzellette sui sikh continuano a fiorire. Un’altra comunità che eccelle nel prendersi gioco di se stessa è quella dei parsi. Ci sono molte barzellette sui parsi, ma andrebbero recitate in lingua parsi del Gujarat. Non conosco nessun’altra comunità indiana che sia così sicura di sé da prendersi in giro da sola.

Non molte persone sono a conoscenza del fatto che l’India ha una lunga tradizione di umorismo fin dai tempi di Kalidas (poeta sanscrito del V secolo). Ogni generazione ha prodotto grandi umoristi, come Birbal, Tenali Raman e Gopal Bhat, senza contare i numerosi bhand (menestrelli) che hanno mantenuto viva questa tradizione attraverso i secoli.

Io ho i miei obiettivi cui mirare. Oltre i potenti e quelli che pensano sempre di avere ragione, trovo estremamente ridicole le persone che si vantano di conoscere gente importante; non credo esista un solo indiano che non si auto elogi e non si vanti di conoscere qualcuno. Questa malattia affligge i nostri politici che non perdono occasione per accennare a quanto siano vicini al Primo Ministro, al Capo dei Ministri o ad altre alte cariche. In più, i nostri politici sono dei bigotti conta frottole che dichiarano il loro sacrificio per il paese e la loro dedizione al servizio della società. Non è molto difficile sgonfiare la loro autostima con mirate punzecchiature. Considero l’autoincensarsi una forma di volgarità particolarmente comune tra i miei connazionali, che introducono invariabilmente con frasi tipo “sebbene non debba essere io a dirlo, ma...”.

L’umorismo dell’uomo comune è di un’ordine inferiore rispetto a quello delle persone sofisticate. Le persone acculturate reagiranno ad allusioni letterarie, giochi di parole e barzellette su poeti, scrittori, compositori e pittori, che non significano nulla per la media delle persone. Il pubblico dei cinema, ad esempio, si diverte con le più generiche tipologie: un semplice riferimento ad una moglie come il Ministro del Interni, farà scoppiare dalle risate un’audience indiana. Ogni situazione in cui una donna caparbia e determinata viene umiliata, li farà sbellicare. La nostra gente deve essere educata per capire e divertirsi con un umorismo più sottile.

Le più sofisticate riviste di umorismo sono Punch (settimanale inglese purtroppo chiuso nel 2002) e The New Yorker (pubblicata dal 1925), perché non sono solo comiche, ma hanno una forma molto sottile e ricercata di spirito, ironia, sarcasmo, che solleticano la fantasia. Ogni tanto le loro vignette sono così sottili che ci vuole un po’ di tempo per capirne il vero significato.

Non sono molti i giochi scritti e stampati che fanno esplodere dalle risate, il massimo che possono provocare è un sorriso pensieroso. Per l’esplosione di risate, le battute devono essere recitate da qualcuno che conosca l’arte di raccontare barzellette. Per fortuna questo tipo di persone si trovano in ogni classe sociale e ad ogni festa. Anche a me viene spesso chiesto di raccontare alcune delle mia barzellette preferite. Personalmente non ho una lista delle migliori, ma ce ne sono una dozzina che racconto spesso per migliorarle dopo ogni volta che le ripeto. Purtroppo la maggior parte non sono pubblicabili perché sono sconce e basate sul sesso.

Ad ogni modo, eccovene alcune dalla mia collezione, che ho scelto insieme alla mia nipotina...

Una ricca signora aveva quattro figli molto brillanti e non faceva altro che vantarsi dei loro risultati scolastici, sicura che da grandi sarebbero diventati delle importanti personalità. Io, ironicamente, le chiesi se aveva mai sentito parlare dello slogan sulla pianificazione familiare “Hum do, hamari do” (Noi siamo due, i nostri sono due, per porre un limite all’eccessivo numero di nascite), e lei mi rispose altezzosamente “Sì, ma quello è per le persone comuni, non per quelli come noi che hanno figli altamente intelligenti e si possono permettere di dargli la migliore istruzione”.
“In questo caso, non potreste farne cinque di più e dare all’India altri Nau Ratan?” (letteralmente Le Nove Gemme, riferito ai famosi nove eccellenti consiglieri di cui si era circondato l’imperatore Akbar)
La signora ignorò il mio sarcasmo e mi rispose “No, no! Ho appena letto un libro sulle statistiche della popolazione mondiale che dice che ogni cinque bambini che nascono al mondo uno è cinese!”.

lunedì 30 gennaio 2017

Il giornalista-scrittore Khushwant Singh, II parte

Not a nice man to know (Non una bella persona da conoscere) è il titolo di un libro del giornalista-scrittore indiano Khushwant Singh, pubblicato nel 1993.
Come intuibile anche dal sottotitolo The best of Khushwant Singh, si tratta di una raccolta di alcuni dei suoi scritti più significativi, divisi in: rubriche editoriali, articoli, traduzioni, opere di saggistica, fiction, una commedia teatrale ed una serie di barzellette.
Il titolo prende spunto dall’ultima frase del primo testo presente nel libro, un editoriale in cui Khushwant Singh scrive di se stesso, con particolare onestà e schiettezza.
Segue libera taduzione.

Seein oneself (Guardare se stessi)
Gli dei, nella loro saggezza, non mi hanno garantito il dono di vedermi come gli altri vedono me. Avranno pensato che sapere cosa gli altri pensano di me avrebbe potuto portarmi a tendenze suicide, così hanno deciso di lasciarmi a cuocere nella mia autostima. Ora sono davanti al difficile compito di scrivere su me stesso.

È un incarico davvero spaventoso. Avete mai provato a guardarvi dritto negli occhi davanti allo specchio? Provateci e capirete cosa intendo. Dopo pochi secondi inizierete a spostare lo sguardo dagli occhi a qualche altro punto, come le donne quando si truccano e gli uomini quando si radono. Guardare nella profndità dei propri occhi rivela la nuda verità. E la nuda verità circa se stessi può essere molto sgradevole.

Lo so di essere un uomo brutto. Però la bruttezza fisica non mi ha mai impedito di approcciare le più belle donne che ho incontrato. Sono convinto che solo delle ninfomani testevuote siano in cerca di bellissimi gigolò. Non gli interessano le persone come me; e a me non interessano quelle come loro. Non sono preoccupato per il mio aspetto esteriore, il mio turbante disordinato, la mia barba incolta o il mio sguardo vitreo (una volta mi dissero che miei occhi sono quelli di un perfido libidinoso), ma per ciò che si trova al di là dell’aspetto fisico, il vero me, composto da emozioni conflittuali, amore e odio, una generale irritabilità, l’occasionale equilibrio, le irose denuncie e la tolleranza verso il punto di vista degli altri, la rigida aderenza ai regimi che mi sono imposto e l’adattabilità alle comodità degli altri. Ed altri ancora. È sulla base di queste qualità che considero la stima di me stesso.

Prima di tutto dovrei occuparmi della questione che spesso la gente mi chiede “Cosa pensi di te stesso come scrittore?”. Senza voler mostrare falsa modestia, lasciatemi dire, onestamente, che non mi considero molto in alto. So distinguere un buon scritto da uno non così buono, le prime scelte da quelli passabili. So che tra gli scrittori indiani o nati in India, Nirad Chaudhuri, V.S. Naipaul, Salman Rushdie, Amitav Gosh e Vikram Seth padroneggiano la lingua inglese meglio di me. So anche che posso, e l’ho fatto, scrivere bene come molti altri, R.K. Narayan, Mulk Raj Anand, Manohar Mangolkar, Ruth Jhabvala, Nayrantara Sahgal o Anita Desai. In più, al contrario della maggior parte degli appertenenti a queste due categorie, non ho mai rivendicato di essere un grande scrittore. Credo che auto elogiarsi sia la più grande forma di volgarità. Quasi tutti gli scrittori indiani che ho incontrato sono propensi a lodare i propri risultati; questo è qualcosa che non ho mai fatto. Nemmeno richiesto qualche premio o riconoscimento, e nemmeno divulgato false storie sull’essere considerato per il Premio Nobel per la letteratura. La lista di prominenti indiani che hanno sparso questa fandonia su se stessi è impressionante: Vatsayan (Agyeya), G.V. Desani, Dr. Gopal Singh Dardi (ex-governatore di Goa), Kamla Das e molti altri.

Sono una persona gradevole? Non ne sono sicuro. Non ho molti amici perché non dò molto spazio all’amicizia. Ho scoperto che gli amici, seppur bravi e sinceri, richiedono più tempo di quello che sono disposto a dedicargli. Mi annoio piuttosto facilmente in compagnia delle persone e preferisco leggere un libro od ascoltare musica piuttosto che parlare a lungo con qualcuno. Ho avuto alcuni amici molto vicini durante la mia vita e mi vergogno di ammettere che quando qualcuno di loro si è allontanato da me, invece di essere scontento, mi sono sentito sollevato. E quando qualcuno è morto, ho amato il loro ricordo più della loro compagnia quando erano vivi.

Ho sempre avuto lo stesso atteggiamento verso le donne che mi sono piaciute o ho amato; non ci metto molto a diventare emotivo con le donne. Spesso, al primo incontro, pensavo di aver trovato la mia Elena, ma nessuna di quelle infatuazioni è durata a lungo. Qualche volta, il tradimento della fiducia mi ha ferito profondamente, ma niente ha lasciato cicatrici indelebili nella mia psiche. L’unica lezione che ho imparato è che appena senti che l’altro si sta raffreddando, devi essere tu a lasciare. Lasciare le persone da quasi un senso di trionfo, mentre essere lasciati è una sconfitta che ferisce profondamente l’ego. Non ho il dono di essere amichevole, né di amare o essere amato.

La mia passione più grande è l’odio. Fortunatamente non è mai stato diretto verso gruppi specifici, ma solo contro certe tipologie di persone. Odio con una passione indegna per chiunque gli piaccia descriversi come civilizzato. Faccio del mio meglio per ignorarli, ma sono come il male a un dente che periodicamente mi spinge a cercarlo con la lingua per assicurarmi che faccia ancora male. Il mio odio va al di là delle persone che odio, me la prendo anche con quelli che diventano i loro amici; l’amico del mio nemico diventa mio nemico.
Fortunatamente non odio molte persone, posso contarle sulla punta delle dita di una mano sola, non più di 4-5, e se raccontassi perché le odio, forse sareste daccordo con me che meritano odio e disprezzo.
Odio quelli che vantano amicizie altolocate, che si auto elogiano, gli arroganti, i bugiardi; c’è qualcosa di sbagliato nell’odiare questo tipo di persone? Le gente mi chiede “Ma perché non li lasci stare? Perché non ignori la loro esistenza?”. No, questo è qualcosa che non posso fare. Non posso resistere alla tentazione di prendere in giro chi si vanta di conoscere persone importanti, di dire in faccia ad un bugiardo che è un bugiardo e adoro maltrattare gli arroganti. Ho avuto spesso dei problemi per la mia incapacità di resistere a schernire questo tipo di persone. E siccome la maggior parte di questi passa da un successo all’altro, diventano ministri, governatori e ricevono riconoscimenti che non gli spettano, la mia rabbia spesso esplode e li denuncio anche nei miei scritti. In passato sono stato trascinato in tribunale e di fronte al Consiglio della Stampa, che è una gran perdita di tempo e di soldi. Penso che mi procurerò delle statue di cera dei miei odiati preferiti e sfogherò il mio malumore infilando degli aghi sulle loro effigi; possano le mosche di un migliaio di cammelli infestare le loro ascelle!

Non sono una brava persona da conoscere.

domenica 29 gennaio 2017

Il giornalista-scrittore Khushwant Singh

Khushwantsingh.jpgKhushwant Singh (1915-2014) è stato un politico, giornalista e scrittore indiano, noto per la sua cultura, sagacia e sfrontatezza.
Nato in un’agiata famiglia sikh nella cittadina punjabi di Hadali, attualmente in Pakistan, ricevette un’ottima educazione, dapprima presso istituti indiani, quindi al King’s College di Londra, dove si laureò in legge.
Per circa 8 anni, fino al 1947, fece l’avvocato presso la Corte di Lahore, per 4 anni lavorò all’estero per il governo indiano a Ottawa e Londra, quindi nel 1951 entrò a far parte della All India Radio in qualità di giornalista.
Dal 1954 al 1956 Khushwant Singh lavorò a Parigi, al Dipartimento delle Comunicazioni di Massa dell’UNESCO, quindi rientrò in India per iniziare la sua lunga carriera di editore e fondatore di riviste e giornali.
Dal 1980 al 1986 fu anche membro del Rajya Sabha, la Camera Alta del Parlamento indiano, per il Partito del Congresso, di cui rimarrà sostenitore per tutta la vita.

In qualità di scrittore, Khushwant Singh pubblicò più di una trentina di libri, in lingua inglese, tra cui romanzi, saggi storici e raccolte di articoli, oltre ad una decina di libri di racconti.
Tra i romanzi meritano una citazione: “Train to Pakistan” del 1956, romanzo storico dove vengono descritti, con estrema lucidità, i drammatici avvenimenti susseguenti l’Indipendenza dell’India; “Delhi: a novel” del 1990, un altro romanzo storico dove, tra sbalzi temporali, viene descritta la storia della capitale indiana; in “The Company of Women” del 1999, attraverso le vicende del protagonista, vengono descritte le complicate relazioni uomo-donna; “Truth, Love and a Little Malice”, pubblicato nel 2002, è un’autobiografia, con la quale Singh offre alcuni interessanti dettagli dei suoi rapporti con i politici.

Per quanto riguarda i saggi storici, Khushwant Singh scrisse una monumentale opera sul sikhismo, intitolata “A History of the Sikhs”, iniziata nel 1953 ma continuamente ampliata ed aggiornata fino al 2006, e si tratta indubbiamente del miglior testo sulla storia di questa particolare religione del subcontinente indiano.

Tra le raccolte di articoli spiccano invece: “More Maliciuos Gossip” del 1989, “Sex, Scotch and Scholarship” del 1992, “Not a nice man to know” del 1993, “Big Book of Malice” del 2000 e “With Malice towards One and All”, dove sono raccolti gli articoli che Singh ha pubblicato, settimanalmente nel corso degli anni, nell’omonima colonna editoriale sui maggiori quotidiani indiani.

Oltre a questo, Khushwant Singh si è reso famoso anche per numerosi scritti umoristici, soprattutto articoli, ma anche barzellette, grazie ad uno stile dissacrante ed alla sua nota spregiudicatezza in materia di sesso, consumo di alcohol e religione (si considerava agnostico), argomenti tabù nella società indiana.
Molte barzellette hanno come protagonisti i sikh, chiamati colloquialmente sardar o sardarji, che vengono presi bonariamente in giro per la loro ingenuità e credulità, alla stregua dei Carabinieri nelle barzellette italiane.
Piccolo esempio.

Due giovani sardarji, studenti dell’Istituto di Tecnologia di Kanpur, stavano parlando degli astronauti americani e uno disse all’altro “Non è una grande impresa andare sulla luna, chiunque può farlo. Ma noi siamo sikh, andremo direttamente sul sole!”.
L’altro rispose “Ma veramente se arriviamo a meno di 13 milioni di miglia dal sole ci scioglieremo”.
“E allora? Ci andremo di notte!”.

sabato 28 gennaio 2017

Il racconto Apni apni bimari

Questo racconto si intitola Apni apni bimari, che si potrebbe liberamente tradurre “A ciascuno la sua malattia”.
L’autore Harishankar Parsai, con la sua consueta ed apprezzabile ironia, coglie spunto da alcune semplici situazioni della sua vita, per mostrare la pochezza di pensiero di certe persone e la natura egoistica dell’essere umano.

Ero andato da lui a chiedere una donazione.
Lui studiava me ed io cercavo di capire lui.
Le persone esperte nel dare e nel chiedere donazioni riescono a riconoscersi dall’odore.
Quello di chi chiede vuol dire “Questo me la darà o no?”.
Anche chi deve fare la donazione riconosce l’altro dall’odore che dice “Questo mi lascerà in pace anche se non gli do nulla?”.
Mentre io ero lì seduo, avevo capito benissimo che non mi avrebbe dato niente.
E forse lui aveva capito che avrei lasciato perdere.
Nonostante questo, tutti e due interpretavamo il nostro ruolo.
Dopo averlo pregato lui mi disse “Tu insisti molto per una donazione, ma io sto morendo a causa delle tasse”.
Io pensavo a come fa questo ad essere malato di tasse? Ci sono molte malattie, pneumonia, colera, cancro, che uccidono le persone, ma cos’è questa malattia delle tasse che lo sta uccidendo?
Lui è felice ed in ottima salute; questa malattia porta buon umore? Che strana malattia!
Anche i dottori e gli scienziati non hanno nessuna cura.
In questo paese alcune persone muoiono per le tasse, altre muoiono di fame.
La caratteristica della malattia delle tasse è questa, che chi se la prende si lamenta che sta morendo , mentre chi non ce l’ha si lamenta di non averla.
Un sacco di persone ambiscono a morire a causa della malattia delle tasse, invece magari muoiono di pneumonia...
Confesso che avevo compassione per lui.
Pensavo che gli avrei potuto chiedere di darmi la sua malattia insieme alle sue proprietà, ma non credo l’avrebbe fatto.
Questa è proprio una malattia terribile, chi se la prende se ne innamora.
Vedendolo triste, mi chiedevo perché lo fosse.
Ognuno è triste per i propri motivi: lui perché sta morendo per le tasse, altri perché non hanno proprietà e non possono avere la fortuna di essere uccisi dalle tasse.
Io invece sono triste perché non ho ottenuto neppure 50 rupie di donazione...

Un giorno è venuto a trovarmi un signore, che diceva che stava morendo della malattia della disonestà.
Lavora per un’associazione che porta il nome di Gandhi ed ha trascorso un’ora a raccontarmi quanta disonestà ci sia in quell’associazione.
“Fin da ragazzo mi sono impegnato in quel posto ed avevo grandi speranze, ora cosa mi tocca vedere!”
Gli dissi “Fratello, quelli che si impegnano in gioventù, stanno tutti piangendo. Perché sei andato lì portandoti dietro i tuoi principii”.
Avevo capito il suo problema: per il suo attaccamento a Gandhi non poteva essere disonesto ed era malato della disonestà degli altri.
Ma se il nome dell’associazione fosse stato un altro, si sarebbe comportato esattamente come gli altri.
Così Gandhi gli ha distrutto la vita.

Un giorno ero seduto con alcuni parenti ed ero preoccupato perché dovevo pagare 40 rupie di bolletta dell’elettricità e non avevo soldi.
Mentre pensavo a come risolvere la questione, uno dei parenti inziò a lamentarsi perché aveva pianificato di costruire una casa con 8 stanze ed ora che ne aveva terminate 6, non aveva più soldi per le ultime 2.
Era davvero depresso e non faceva altro che descrivere la sua tristezza.
Ma, francamente, non ero per nulla impressionato, sebbene la sua tristezza fosse così grande che non poteva essere contenuta neppure in 6 stanze...
Avrei dovuto avere compassione per lui, ma nella mia mente c’era solo la mia bolletta di 40 rupie.

Un altro parente vende libri. L’anno scorso ne aveva venduti 50 mila a varie librerie, quest’anno 40 mila.
Diceva “Che grande problema! Ho venduto solo 40 mila libri quest’anno. Come farò ad andare avanti?”.
Voleva farmi intristire ma non ce la faceva.
Mi era ritornato in mente quel desiderio di farmi dare le sue proprietà e la malattia delle tasse, e morire di quella.

Ma sicuramente non accetterà, non mollerà né le proprietà né la malattia; ed io morirò di qualche piccolo e comune malanno...

venerdì 27 gennaio 2017

Il tè in India

File:Loose leaf darjeeling tea twinings.jpg
Foglie di tè di Darjeeling
La coltivazione del tè in India venne iniziata dagli inglesi nei primi anni dell’800, con lo scopo di rompere il monopolio della Cina.
Vennero quindi creati degli incentivi per favorire la diffusione delle coltivazioni di tè, principalmente negli stati del nord-est, come l’Assam, dal clima particolarmente favorevole, ed a metà del XIX secolo l’India era diventato il maggior produttore mondiale.
Considerato inizialmente un raffinato gusto dei colonizzatori, grazie ad una massiccia campagna pubblicitaria britannica, intorno ai primi anni del ‘900 il tè iniziò ad essere abbondantemente consumato da tutti gli indiani, anche per il fatto che l’acqua deve essere bollita, rendendola una bevanda sicura dal punto di vista igienico-sanitario.
Negli ultimi anni, con l’aumento della disponibilità dei terreni adatti, la Cina ha superato la produzione indiana, che comunque rimane al secondo posto, mentre per quanto riguarda il consumo, l’India è al primo posto, seppur il consumo pro-capite annuale, per questioni economiche, non sia molto elevato.

Come anticipato, le aree migliori per la coltivazione del tè sono le colline del nord-est del paese, con la zona di Darjeeling, cittadina di montagna dello stato del Bengala Occidentale al confine col Nepal, noto centro di produzione di un’ottima qualità di tè nero, come il vicino stato dell’Assam.
Vaste coltivazioni si trovano comunque anche in altri stati del nord dell’India, come l’Himachal Pradesh, mentre a sud la produzione di tè è concentrata in Karnataka, Kerala e Tamil Nadu.
Le qualità più apprezzate sono il tè di Darjeeling e dell’Assam, il Kangra Tea, dell’omonima area collinare dell’Himachal Pradesh, ed il Nilgiri Tea, delle omonime colline del Tamil Nadu, tutti tè scuri e molto aromatici.
La produzione di tè verde è in India molto limitata, meno del 10% del totale, anche perché il 70% del tè indiano viene consumato all’interno del paese sotto forma di chai (del quale vedremo tra poco), dove viene utilizzato preferibilmente tè nero.

Una tazza di chai
Per quanto riguarda il consumo, la bevanda nazionale indiana è appunto il chai, detto anche masala tea, un decotto a base di acqua, latte, zucchero e tè, cui viene aggiunta una mistura di spezie tipiche del subcontinente, in particolare zenzero e cardamomo, ma anche cannella, chiodi di garofano, noce moscata e pepe nero.
Il risultato è una bevanda molto saporita, seppur il gusto del tè venga in gran parte coperto da quello di latte e spezie.
Le caratteristiche di un buon chai, reperibile pressoché ovunque in migliaia di minuscoli “chai shop” sparsi letteralmente ovunque, stanno chiaramente in un saggio bilanciamento delle spezie, che prima dell’uso vengono leggermente schiacciate con un pestello per liberarne l’aroma, nell’utilizzo di latte fresco, generalmente di bufala, e nella giusta quantità di zucchero.

Essendo quest’ultimo ingrediente quello che richiede il maggior sforzo economico, i chai di strada tendono ad essere meno dolci di quelli preparati in casa o nei ristoranti, che spesso però risultano iperzuccherini e probabilmente sono tra le cause dei diffusi obesità e diabete.

giovedì 26 gennaio 2017

La cucina indo-cinese

Preparazione casalinga di paneer-mushroom chilli (ricotta e funghi in salsa piccante)
Le origini della cucina cinese in India si possono far risalire alle prime comunità di immigranti provenienti dalla Cina stabilitesi, intorno ai primi decenni del 1800, nelle grandi città portuali come Mumbai, Chennai e Kolkata.
In particolare quest’ultima, grazie alla vicinanza geografica, ha attirato il maggior numero di lavoratori cinesi, che hanno fondato l’unica vera Chinatown del subcontinente, dove ancora oggi vivono stabilmente 2.000 cinesi, circa la metà del totale dell’intero paese.
Inizialmente i ristoranti cercavano di proporre piatti originali della Cina ai nostalgici immigranti, ma col tempo si è venuta a creare un’interessante cucina indo-cinese, che prevede l’adattamento di tecniche di cottura ed ingredienti cinesi ai gusti indiani.
Chiaramente viene fatto anche uso di ingredienti locali, rendendo quindi questo tipo di cucina ben distinto da quello originale della Cina dal quale prende spunto.

Sicuramente il piatto più diffuso sono i chowmein, noodles (spaghetti di riso), saltati in salsa di soia con verdure tagliate alla julienne (verza, carota, peperoni e daikon), aglio, zenzero e peperoncino, cui si possono aggiungere uova, ricotta o pollo.
Il loro successo è dato dalla praticità e dall’essere un piatto piuttosto economico, disponibile sia su bancarelle, che nei ristoranti, dal più infimo a quelli degli alberghi a cinque stelle, cui aggiungere intere sezioni di spaghetti di riso sugli scaffali dei negozi di alimentari, per prepararli tra le mura domestiche.

Venendo invece ai piatti tipici della cucina indo-cinese, accenneremo brevemente a tre tipologie di condimenti, piuttosto diffuse ed apprezzate nei ristoranti da medio livello in su.
Sicuramente i posti migliori sono i locali specializzati in cucina cinese, ma spesso sono ben preparati anche nei ristoranti tipici indiani, nell’onnipresente sezione del cibo cinese.
Si tratta dei piatti: chilli, schezwan e manchurian, cui si aggiunge il nome dell’ingrediente principale: verdura oppure ricotta, funghi, pollo, montone, pesce o gamberi.

Chilli letteralmente significa peperoncino, da cui è facile desumere che si tratti di un condimento particolarmente piccante.
Con una probabile origine nella regione dell’Hunan, la cui cucina è nota per l’abbondante uso di peperoncino, prevede un intingolo a base di salsa di soia, amido di mais, aglio, zenzero e tanto chilli, nel quale vengono saltate cipolla, erba cipollina, pomodoro e peperone tagliati a bocconcini, ai quali poi aggiungere l’ingrediente principale preferito (pollo, ricotta, funghi o patate, precedentemente cotti o scottati).
Oltre ai ristoranti, è un piatto molto facile da preparare anche tra le mura domestiche, magari aiutandosi con delle buste di polvere già pronta da mischiare con acqua per creare la salsina.

I piatti schezwan traggono origine dalla cucina della regione del Sichuan, seppur, come nello spelling del nome, il legame sia ormai molto lontano.
Talvolta tra gli ingredienti figura anche il famoso e distintivo pepe di Sichuan (che in realtà non è una pianta di pepe), ma di base la salsina della cucina indo-cinese è composta essenzialmente da peperoncino rosso, pomodoro, cipolla ed aglio.
La salsa Sichuan può essere preparata artigianalmente o comprata già pronta, rendendo in questo caso la preparazione del piatto estremamente facile e veloce.
Come la precedente tipologia chilli, anche i piatti schezwan possono essere accompagnati da riso o pane, in base alla consistenza del condimento: più liquido è preferibile il riso, più asciutto il pane.

I piatti della tipologia manchurian hanno ben poco a che vedere con il cibo proveniente dalla regione cinese della Manciuria, ma si tratta probabilmente del più riusciuto incontro tra la culinaria cinese e l’indiana.
L’origine viene fatta risalire al noto cuoco indiano d’origine cinese Nelson Wang, il quale intorno al 1975, iniziò un piatto con base il tipico soffritto indiano di aglio, zenzero e peperoncino, al quale aggiunse, invece del masala (mistura) di spezie, la salsa di soia.
In realtà questo accorgimento era già utilizzato nella cucina indo-cinese e ciò che rende questo piatto più gustoso e distinto dai precedenti, oltre al particolarmente abbondante uso di aglio, è che l’ingrediente principale viene prima pastellato e fritto, e solo successivamente aggiunto all’intingolo di salsa di soia.
Le versioni più popolari sono a base di pollo, ricotta e cavolfiore, oppure il popolarissimo veg-manchurian, dove le verdure vengono tagliate a pezzettini e mischiate insieme ad un po’ di farina per farne delle piccole polpette.
Come per i piatti chilli, anche i manchurian possono essere cucinati tra le mura domestiche, grazie a delle pratiche buste di polvere aromatizzata.
L’accompagnamento dipende di nuovo dalla consistenza dell’intingolo: riso se liquido, pane se asciutto, ma chiaramente non si tratta di regole precise e dipendono dai gusti personali.

mercoledì 25 gennaio 2017

Il racconto Suar

Suar, letteralmente maiale, è un racconto di Harishankar Parsai dove viene mostrato, con leggero umorismo, l’attitudine spocchiosa ed ipocrita delle classi medio-alte.
In particolare vengono illustrati gli obsoleti costumi relativi al matrimonio, con il personaggio narrante, Parsai stesso, che funge da intermediario per combinare il matrimonio tra i figli di due suoi conoscenti.

Qualche giorno fa ho portato il signor Chaubey a casa del signor Pandey.
Il motivo era discutere del matrimonio tra il figlio di Chaubey e la figlia di Pandey.
Eravamo seduti nella veranda della casa. La ragazza aveva servito il thé e se ne era andata. Così Chaubey aveva potuto vederla.
La casa era quella ancestrale di Pandey, situata in un vecchio quartiere, un quartiere sporco. Dalla veranda si potevano vedere i cumuli di spazzatura, mentre lì vicino circolavano file di maiali.
Chaubey stava guardando tutto questo e gli stava venendo nausea.
Disse in inglese “Orribile! Come circolano i maiali vicino alla casa!”
Io volevo dire ancora due-tre cose, ma ce ne andammo.

Dopo qualche giorno incontrai di nuovo Chaubey.
Questi mi disse “Amico, la ragazza va bene, ma la casa di Pandey si trova in una zona sporchissima. Ci sono i maiali che girano intorno. Orribile!”.
Io gli dissi “Ma a te cosa interessa di quella casa? Dopo il matrimonio la ragazza verrà in casa tua, no?”.
Chaubey mi rispose “Mio figlio ogni tanto dovrà andare a casa dei suoceri! Non avrò anch’io una relazione con loro? La cosa che odio più di tutto sono quei maiali. Odio quei maiali! (Ripetuto in inglese). Se penso a quella casa, ancora adesso mi viene nausea”.
“Pensaci bene, la ragazza è a posto e anche la famiglia è ok”.
“Su questo sono d’accordo. Ma dovrò andare con la processione di mio figlio davanti alla sua porta e se mi venisse il voltastomaco? Quei maiali! (Di nuovo in sprezzante inglese) Non li posso proprio tollerare”.
“In ogni caso – gli dissi – il signor Pandey ti darà parecchio”. (Intendendo la dote che la famiglia della donna paga a quella del marito)
Lui mi rispose “Cosa darà? Giusto quelle 15-20 mila rupie”.
“Eh no... Mi ha detto che te ne darà 50 mila. Gioielli a parte. D’altronde ha solo una figlia”.
Chaubey iniziò a pensare. Aveva bisogno di un po’ di tempo nel passare dai maiali alle rupie.
Quindi chiacchierammo ancora un po’ e alla fine mi disse “Se tu fai così tanta pressione e sei così sicuro, allora va bene, fissa il matrimonio”.

Il giorno stabilito Chaubey, arrivando in pompa magna con la processione del figlio, si presentò sulla porta di casa di Pandey.
Proprio sull’uscio, Pandey gli diede 15 mila rupie, quindi Chaubey si andò a sedere sotto il tendone e si mise ad osservare i rituali del matrimonio; intanto aspettava che arrivasse il vassoio con le altre 35 mila rupie.
Ma proprio in quel momento entrò un maialino.
Due-tre persone cercarono di mandarlo via con dei piccoli bastoni, ma il maialino girava all’impazzata senza riuscire a trovare un via di fuga.
All’improvviso si diresse verso Chaubey, con le persone dietro che lo inseguivano.
Ma Chaubey disse “Lasciatelo stare. I maialini sono bellissimi. Molto dolci (in inglese)!”, e iniziò ad accarezzare il maialino, che gli stava accanto tranquillo.

Sorpreso da questo cambiamento nel suo atteggiamento, mi accorsi che in realtà Chaubey era solo molto felice perché stava arrivando il vassoio con le 35 mila rupie...

martedì 24 gennaio 2017

Ipotesi sulla vita di Gesù in India

Cristo crucificado.jpg
Gesù in India? è il titolo di un saggio del sociologo Manuel Olivares, pubblicato nel 2015, dove vengono analizzate le più importanti fonti che ipotizzano una o addirittura due visite di Gesù Cristo nel subcontinente indiano.
Purtroppo non esistono prove certe, come evidenziato anche dall’opportuno punto interrogativo nel titolo del libro, ma grazie all’approfondita ricerca dell’autore è comunque possibile estrarre da questo testo numerose informazioni per farsi un’idea più precisa sulla questione.
Chiaramente, per chi volesse approfondire l’argomento, consigliamo di procurarsi il libro (per ulteriori dettagli rimandiamo al link della pagina Facebook https://www.facebook.com/JesusChristinIndia/?ref=ts&fref=ts), mentre in questo post ci limiteremo a descrivere le linee generali, secondo la nostra personale comprensione.

Come poc’anzi accennato, le ipotesi riguardano ben due visite di Gesù in India, la prima durante i cosiddetti anni perduti, che non vengono descritti nei vangeli canonici, la seconda dopo essere sopravvissuto alla crocifissione.

La prima ipotesi, abbastanza plausibile a livello pratico, considera che Gesù si sia unito a delle carovane di mercanti e si sia diretto in oriente, lungo un percorso alquanto battuto che sarà poi storicamente definito la Via della Seta.
La distanza d’altronde non era incolmable e circa diciotto anni, tra i 13 ed i 30, sarebbero stati più che sufficienti per un uomo giovane ed in buona salute, per andare dalla Palestina all’India e ritorno.

Seguendo un possibile percorso geografico, Gesù entrò in India da nord, scese nel subcontinente, dove venne in contatto prima con monaci jainisti, quindi con l’induismo ed infine, tornando indietro passando dal Nepal, con il buddismo.
Secondo gli studi del professore indiano Hassnain Maria Fida, sostenitore di questa teoria, addirittura, prima di tornare in Palestina, Gesù visitò brevemente anche la Gran Bretagna, per entrare in contatto con l’allora diffuso druidismo.

L’ipotesi che Cristo abbia quindi trascorso gli anni più importanti della sua crescita pellegrinando nel subcontinente indiano, ed altrove, per conoscere le più diverse tradizioni religiose e spirituali, è sicuramente suggestiva, e volendo appropriata, ma manca di fonti attendibili a suffragarla.
A quanto pare infatti le uniche prove sarebbero da cercare in alcuni introvabili manoscritti in lingua pali, custoditi in remoti monasteri buddisti, o la citazione in un testo induista della già oscura setta dei Nath.
Tenendo presente che il dibattito venne aperto verso la fine dell’ottocento ed abbia affascinato numerosi ricercatori, è possibile che non siano ancora stati trovati i numerosi testi della supposta ricca documentazione in lingua pali?
Senza dimenticare che per ovvi problemi linguistici, i nomi che Gesù avrebbe assunto in queste tradizioni, sono collegabili foneticamente ma non necessariamente anche dal punto di vista etimologico (problema che si potrebbe porre pure con le fonti islamiche di cui vedremo più avanti).
Anche il più moderno filone di matrice induista sembra essenzialmente riprendere le stesse misteriose fonti, con lo scopo di trovare, un po’ forzatamente, un’origine indiana agli insegnamenti cristiani.
Il mistico Swami Abhedananda, il politico e storico Jawahralal Nehru, ed il Premio Nobel per l’economia e scrittore Amartya Sen, che hanno espresso la propria favorevole opinione in proposito, nonostante l’indubbia autorità, si rifanno a fonti che non sono confermate, e di certo non lo saranno solo continuando a citarle come probabili.

Come ultima nota, purtroppo di nuovo contro a questa pur attraente teoria, com’è possibile che a Gesù stesso non sia mai capitato di fare alcun cenno o riferimento a ciò che aveva appreso durante i suoi lunghi anni in oriente?
Se avesse davvero imparato i Veda, i canoni Pali, le scritture Jaina, possibile che non gli sia mai scappato, neppure per errore, un nome di qualcuno o qualcosa che avesse chiare origini indiane?


La seconda ipotesi, che vede Gesù sopravvivere alla crocefissione e dirigersi in India a trascorrere il resto della sua vita, pare ancora più ardita ma non meno affascinante ed apparentemente suffragata da qualche prova vagamente attendibile.

Una, ad esempio, è un testo pubblicato a Lipsia nel 1849 intitolato “La crocifissione secondo un testimone oculare”, un documento antichissimo in cui un esseno contemporaneo di Gesù afferma che il Cristo venne deposto dalla croce ancora in vita, affidato alle cure di Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo, due esseni, che lo curarono ed aiutarono a riprendersi.
Quindi, salutati i discepoli, insieme a Maria, tornò in India a trascorrere gli ultimi anni della sua vita, per alcuni una cinquantina in tutto, per altri addirittura fino all’eta di 120 anni.
Fin dalla sua apparizione, questo testo fece molta impressione negli ambienti ecclesiastici, ma non ebbe una grande risonanza visto che non vi era nessun interesse teologico a sostenere questa tesi, che sminuiva la dimensione sensazionalistico-miracolistica della storia “ufficiale” di Gesù, visto che in questo modo non risorse ma semplicemente sopravvisse alla crocefissione.

Un’altra fonte piuttosto autorevole ed attendibile sulle quali è basata questa teoria è il Corano.
Quello che troviamo particolarmente intrigante nelle ipotesi che si possono raggiungere attraverso i testi islamici è che questi, al contrario di quelli indiani, non sembrano avere particolari interessi, se non prettamente teologici, a sostenere che Gesù sopravvisse la crocifissione e finì la sua vita in India.
Stando alla Sura 4, versetti 157-158, non è vero che Gesù, il Messia, venne ucciso, ma venne fatto in modo che così sembrasse, quando in realtà venne assunto in cielo da Allah con tutto il corpo, creando quindi i presupposti per la sua seconda venuta, almeno stando all’escatologia islamica.

Oltre a queste fonti scritte, affascinante è anche la tradizione secondo la quale, nella città indiana di Shrinagar, nello stato del Jammu e Kashmir, tra i vicoli della città vecchia esiste un’antica tomba dedicata ad un santo mussulmano chiamato Yuzasaf, nome persiano di Gesù.
In passato era stato ipotizzato un tentativo di studiare scientificamente la tomba per poter trovare qualche prova concreta, almeno dell’antichità, ma purtroppo, a causa della situazione politica estremamente volatile della città, non sono mai stati portati a termine.
Bisogna anche notare che da parte delle autorità mussulmane non c’è nessun particolare interesse ad approfondire la questione, visto che teologicamente, secondo il Corano, Gesù venne assunto in cielo da Allah, né tantomeno a fare di quel piccolo santuario di Shrinagar, chiamato Roza Bal, un centro di pellegrinaggio cristiano.

Un’ultima interessante questione sulla possibilità che Gesù sia sopravvissuto alla crocifissione proviene da alcune teorie che riguardano la sindone, la cui attendibilità è però influenzata dall’ancora dubbia autenticità del sudario conservato a Torino.

In ogni caso, a prescindere dalla più o meno plausibile attendibilità delle fonti, come accennato in apertura di articolo, lo studio della questione di Gesù in India, oltre all’indiscussa ed accattivante esoticità, permette di fare la conoscenza con tradizioni poco conosciute ma molto antiche, bagaglio culturale di aree del mondo dove la storia dell’uomo ha vissuto alcune delle vicende più importanti.

Il testo Gesù in India? risulta quindi anche un ottimo mezzo per risalire alle fonti di queste tradizioni, citate lungo tutto il testo e raccolte nell’utilissima bibliografia, che contiene riferimenti a pressoché tutto il materiale reperibile sull’argomento.

lunedì 23 gennaio 2017

L'improvvisa eliminazione delle banconote da 500 e 1.000 rupie, III parte

Passati circa due mesi e mezzo dall’improvvisa manovra del governo indiano di demonetizzare le banconote da 500 e 1.000 rupie (che costituivano più dell’80% del contante), i disagi per la gente comune sembrano essere terminati e forse addirittura si inizia a vederne qualche beneficio.

Già prima di Natale era stata in parte risolta la carenza delle nuove banconote da 500 e 2.000 rupie, e le susseguenti file davanti ai bancomat, con le 4 zecche nazionali che stampavano a pieno regime ed i mezzi dell’esercito a disposizione per distribuirle in ogni angolo del paese.
Questo ha permesso, già dai primi giorni del 2017, di alzare il limite massimo prelevabile dagli sportelli automatici, da 2.000 rupie (circa 27-28 euro) a 4.000, riducendo quindi drasticamente code e tempi di attesa.
Nei giorni scorsi è stato ulteriormente alzato a 10.000, che era già il limite massimo consentito dai bancomat per le operazioni in banche diverse dalla propria.
Bisogna quindi riconoscere che, nonostante i disagi iniziali causati dal ritardo nella stampa delle banconote sostitutive, tutto sommato l’operazione è stata gestita nei limiti previsti dal governo che aveva chiesto pazienza per i primi 50 giorni ed in effetti, dopo meno di due mesi, i problemi sono terminati.
Dobbiamo anche sottolineare che già da qualche tempo, con l’introduzione e diffusione delle utilissime monete da 10 rupie, il cronico problema indiano della carenza di contante per i resti è sempre meno grave, con ovvi vantaggi per tutti.

Seppur sia ancora presto per poter stabilire l’effettivo successo politico e finanziario di questa manovra, sembra che si stiano iniziando a vedere i primi benefici, su tutti il drastico ed apprezzatissimo calo dei prezzi, soprattutto di frutta e verdura.
È vero che nel subcontinente l’inverno sia notoriamente la stagione migliore, per costi e qualità, ma da alcune settimane i prezzi sono ritornati indietro di almeno 10 anni.
Questa sembra essere una delle conseguenze della demonetizzazione, che ha forzato gli indiani a svuotare le riserve personali e rimettere in circolazione enormi quantità di denaro che venivano invece custodite gelosamente.
Gli indiani infatti, a ragion veduta, sono tendenzialmente molto accorti nelle spese ed estremamente abili nel risparmiare, ma purtroppo questo risulta contrario ai principi dell’imperante capitalismo.
A causa di una certa ignoranza e una forte diffidenza, spesso infatti i soldi venivano nascosti piuttosto che depositati in banca, rendendoli quindi completamente improduttivi.

Anche per quanto riguarda la lotta alla corruzione, seppur bisognerà aspettare ancora qualche tempo per poterne vedere i maggiori risultati, sembra che questa manovra abbia già portato qualche frutto, con numerosi casi in cui i proprietari di ingenti somme illegali sono stati costretti a buttare via il loro capitale ormai privo di valore.
Numerosi sono stati i casi di ritrovamenti di mucchi di denaro demonetizzato bruciati, buttati nei fiumi oppure semplicemente abbandonati, a sacchi, in banche ed uffici statali.
Ad esempio pare che i terroristi Naxaliti maoisti siano stati colpiti duramente da questa manovra essendo in possesso di moltissimo denaro illegale che non sono riusciti a convertire nei nuovi tagli.
Purtroppo il contante costituisce meno del 10% dei beni usati nella corruzione, quindi il problema è tutt’altro che risolto, ma indubbiamente ha creato e sta creando numerosi grattacapi a chi ha ammassato denaro di dubbia provenienza.

Bisogna anche notare che, seppur il sogno di un’India “cashless” dove tutte le transazioni finanziarie avvengono via carte o sistemi di pagamento elettronici sia al momento utopico, questa manovra si sta rivelando anche un effettivo passo avanti verso un migliore ed effettivo sistema di raccolta tasse.
In India infatti sono ancora pressoché assenti i concetti di scontrino e ricevuta fiscale, rendendo la dichiarazione dei redditi una farsa affidata alla, solitamente scarsa, onestà dei singoli individui.
Con un incremento di transazioni elettroniche, verificabili tramite ricevute e scontrini bancari, l’insolvenza delle tasse dovrebbe crollare, facendo quindi diminuire anche il costo della vita.

Ultima considerazione positiva, durante questo periodo il valore internazionale della rupia è rimasto sostanzialmente invariato, mentre sarebbe stato lecito aspettarsi un vistoso calo, e seppur ci sfuggano i precisi motivi finanziari, ciò dimostra che la demonetizzazione abbia influito ben poco sulla crescita economica del paese.

E seppur la comunità finanziaria mondiale abbia manifestato numerosi dubbi sull’effettiva utilità della demonetizzazione, si è trattato di un’operazione interna all’India, che non ha creato quasi nessun problema nei traffici internazionali.

domenica 22 gennaio 2017

Breve cenno al dio Ganesha

Gajanan20120901 182954.jpgGanesha è il figlio di Shiva e Parvati ed una delle divinità indù più amate, simbolo di prosperità e saggezza.
La sua caratteristica fisica più evidente è l’avere la testa di un elefante, a causa di un noto episodio mitologico, narrato con diverse sfumature in numerosi testi.
Semplificando, un giorno Parvati, durante un’assenza di Shiva, decise di fare un bagno in un laghetto e per avere un po’ di intimità, dalla polvere di curcuma che usava per lavarsi, creò un ragazzo che mise a farle la guardia.
Quando Shiva tornò, non riconobbe il “figlio” in questo strano ragazzo, e siccome non lo faceva passare, intavolò con lui una discussione, che terminò tagliando la testa al povero Ganesha.
Quando Parvati venne a sapere dell’accaduto, ordinò a Shiva di riportarlo in vita, ma questo fu possibile solo a patto di mettere sul collo di Ganesha la testa del primo animale rivolto verso nord che Shiva avesse incontrato; ed il caso volle che fu un elefante.

Da questo deriva la relazione tra Ganesha e la prosperità essendo l’elefante considerato fin dall’antichità simbolo di abbondanza e ricchezza.
In questo aspetto viene spesso raffigurato insieme a Lakshmi, anche lei dea della prosperità, e le loro immagini si trovano spesso sia in India che in Nepal, all’ingresso di negozi ed attività commerciali, sotto alla scritta sanscrita Shubh Labh, letteralmente Buon Profitto.
Non è un caso che l’area dove il culto verso Ganesha è particolarmente sentito è quella di Bombay, capitale economica dell’India.

La proverbiale saggezza di Ganesha deriva invece dall’essere stato lo scriba del poema Mahabharata, dettatogli dal rishi Vyasa, e per questo motivo spesso viene raffigurato con un libro in mano.
Sempre legato a questo aspetto di scriba, altra caratteristica fisica evidente è l’avere una zanna spezzata, in quanto la piuma che stava usando si ruppe e per non interrompere il lavoro, si staccò una zanna e la usò per scrivere.

Tra le altre qualità che gli vengono attribuite, Ganesha viene considerato colui che rimuove gli ostacoli, capacità che condivide con il dio scimmia Hanuman, seppur vi sia una certa differenza, in quanto Ganesha viene invocato prima di intraprendere un’attività per evitare che si verifichino problemi, ma se ciò avviene, allora si invoca Hanuman.
Per questo motivo Ganesha viene considerato il Signore del Buon Inizio ed a lui sono spesso dedicati i versi introduttivi di preghiere e canti.

Come molte divinità indù, Ganesha possiede un veicolo animale, un topo, che rappresenta l’ego umano che Ganesha tiene perfettamente sotto controllo.

Seppur non esistano pellegrinaggi specifici in suo onore, sparsi nel subcontinente indiano sono molto numerosi i templi dedicati a Ganesha.
Come già accennato, l’area di Bombay e lo stato del Maharashtra sono considerati una roccaforte del culto di Ganesha ed è in queste zone che viene celebrata con particolare fervore la festa principale del dio, Ganesha Chaturthi, che cade tra Agosto e Settembre e dura ben dieci giorni.

In Nepal, si segnalano 4 templi dedicati a Vinayak, altro nome di Ganesha, situati nei punti cardinali della Valle di Kathmandu.

sabato 21 gennaio 2017

I siti indiani protetti dall'UNESCO, VI parte

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Il Chhatrapati Shivaji Terminus di Mumbai
Questi ultimi 3 siti indiani protetti dall’UNESCO sono accomunati da almeno tre fattori: prima di tutto sono i più recenti storicamente; secondo, dall’essere monumenti viventi, visto che svolgono ancora oggi le funzioni per le quali sono stati costruiti; terzo, pur trovandosi in territorio indiano sono stati creati da stranieri.
Si tratta del terminal ferroviario Chhatrapati Shivaji (precedentemente Victoria Terminus) di Mumbai, di un gruppo di 3 treni “giocattolo” (a scartamento ridotto) che portano in località di villeggiatura, e gli edifici costruiti dall’architetto Le Corbusier nella città di Chandigarh.

Il Chhatrapati Shivaji Maharaj Terminus è una stazione ferroviaria di Mumbai costruita nel 1887 per commemorare il Giubileo d’Oro della regina Vittoria (da cui il nome originale Victoria Terminus), in stile neogotico vittoriano ed italiano, con elementi moghul.
La sua costruzione richiese quindi un doppio sforzo, ingegneristico, per il grande e complesso sistema di snodo ferroviario, ed artistico, per produrre un’opera di buon gusto.
Il risultato è positivo sotto entrambi i punti di vista: la stazione è ancora oggi perfettamente funzionale e sede delle ferrovie indiane del centro del paese, mentre l’edificio in sé viene costantemente ammirato ed apprezzato, fino a diventare uno dei monumenti simbolo della città.

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Una delle curve a spirale della Darjeeeling Himalayan Railway
Sempre grazie all’ingegno degli inglesi, oltre all’estesa rete ferroviaria nazionale a scartamento standard (1.435 mm), in India sono presenti alcune tratte a scartamento ridotto, per raggiungere stazioni collinari di villeggiatura.
Di queste, 3 sono state raggruppate nel sito UNESCO chiamato Mountain Railways of India: la Darjeeling Himalayan Railway, inaugurata nel 1881, la Nilgiri Mountain Railway, completata nel 1908, e la Kalka-Shimla Railway, operativa dal 1910.
Oltre all’ammirabile capacità ingegneristica nella realizzazione, notevoli sono anche i paesaggi collinari che vengono attraversati, da cui deriva la forzata scelta di utilizzare scartamenti ridotti per permettere ai treni un’insospettata agilità per arrampicarsi lungo le colline.

La Darjjeling Himalayan Railway copre un percorso di 88 km, dalla città di Siliguri fino a Darjeeling, sulle montagne dello stato indiano del Bengala Occidentale, passando quindi da 100 e ben 2.200 metri di altitudine.
Lo scartamento è decisamente ridotto, soli 610 mm, a causa della notevole ripidità del percorso, lungo il quale sono presenti numerose curve a spirale (di cui 3 attraversate ancora oggi), nonché 4 regressi, in cui il treno inverte la direzione di marcia per superare curve troppo strette.

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Fotografia dei primi del '900 della Nilgiri Mountain Railway
La Nilgiri Mountain Railway si trova nello stato indiano del Tamil Nadu e collega la città di Coimbatore a circa 400 m s.l.m., con la stazione collinare di Udhagamandalam a 2.200 metri di altitudine.
Il percorso di 46 km sfrutta un binario a scartamento metrico ed è composto da più di un centinaio di curve, 16 tunnel e ben 250 ponti.
Per ovviare alle notevoli pendenze, la Nilgiri Mountain Railway usa un sistema a cremagliera, unico nel subcontinente indiano.

La Kalka-Shimla Railway collega la città di Kalka, nello stato dell’Haryana a circa 650 m s.l.m., con Shimla (http://informazioniindiaenepal.blogspot.it/2016/09/la-citta-di-shimla.html), in passato capitale estiva del governo inglese in India, situata sulle colline dell’Himachal Pradesh a circa 2.000  metri di altitudine.
Lungo il suo percorso di 96 km, la ferrovia a scartamento ridotto (762 mm) attraversa al momento 102 tunnel, supera più di 800 ponti e compie ben 919 curve, di cui la più stretta con un’angolatura di appena 48 gradi.

Riconoscendo la scarsa efficienza dei sistemi a scartamento ridotto, le ferrovie indiane da alcuni anni hanno iniziato il Project Unigauge, per uniformare lo scartamento di tutti i binari indiani, attualmente diviso in 4 misure.
Questo progetto però chiaramente non comprende le 3 ferrovie del sito UNESCO appena descritte, alle quali si aggiungono la Matheran Hill Railway lunga 20 km, nello stato del Maharashtra, e la Kangra Valley Railway di 164 km, in Himachal Pradesh, per salvaguardarne l’originalità e poterle in futuro inserire tra i monumenti protetti.

L’ultimo sito indiano sotto la protezione dell’UNESCO, riconosciuto nel Luglio 2016, è dedicato al lavoro dell’architetto svizzero-francese Le Corbusier, per il suo contributo al modernismo, e si tratta in totale di 17 opere sparse in 7 paesi: Argentina, Belgio, Francia, Germania, Giappone, India e Svizzera.
In India Le Corbusier fu molto attivo in due città, Ahmedabad, con 5 edifici costruiti secondo suoi progetti, ma soprattutto la città di Chandigarh (http://informazioniindiaenepal.blogspot.in/2016/10/la-citta-di-chandigarh.html), la cui costruzione gli venne affidata dal primo ministro Nehru nel 1950.
Oltre alla funzionale planimetria, Le Corbusier fornì la città di numerosi edifici e monumenti, tra i quali spicca il Chandigarh Capitol Complex, un complesso che ospita 3 grandi palazzi, 3 monumenti ed un piccolo lago.
I 3 edifici principali, che fanno parte del sito UNESCO, sono: il Palazzo dell’Assemblea, il Secretariat e l’Alta Corte degli stati del Punjab e dell’Haryana, di cui Chandigarh è capitale.

Tutti questi 3 grandi palazzi sono costruiti seguendo i principi del modernismo e seppur il risultato sia quindi piuttosto freddo, si possono sicuramente apprezzare le innovative soluzioni stilistiche nonché la funzionalità, essendo ancora oggi sede di importanti uffici governativi.