venerdì 6 gennaio 2017

Lo scrittore Premchand ed il racconto Kafan, I parte

Premchand (1880-1936) è stato uno dei primi e più importanti scrittori di prosa in lingua hindi.
La sua vasta produzione letteraria comprende 15 romanzi, circa 250 storie, 5 commedie e 2 saggi, a cui si aggiungono un gran numero di traduzioni di opere di autori stranieri, principalmente inglesi, ma anche francesi ed un’apprezzata raccolta di racconti di Tolstoj.
La caratteristica principale delle opere di Premchand è il realismo, in hindi yatarthvaad, corrente della quale fu il maggior esponente (in maniera piuttosto simile alla figura di Giovanni Verga ed il verismo nella letteratura italiana).
I personaggi di Premchand sono quindi quasi sempre i poveri e gli indigenti, alle prese con i problemi della vita quotidiana, e spesso vittime anche della propria semplicità ed ignoranza.
Di conseguenza, lo stile di Premchand è scorrevole e molto descrittivo, per dare al lettore la possibilità di farsi una propria idea sulle vicende rappresentate.
Raramente si lascia andare a considerazioni personali, che comunque sono sempre molto critiche delle cause della miseria ed indigenza nelle quali versano i suoi personaggi.
Tra le numerose opere, un racconto particolarmente significativo ed emblematico è Kafan, letteralmente Sudario, la storia di due pover’uomini, padre e figlio, alle prese con la morte della moglie di quest’ultimo e del “difficile” compito di procurarsi il denaro per il lungo telo bianco nel quale, secondo la tradizione indù,  vengono avvolti i corpi dei defunti prima di essere bruciati.
Segue libera traduzione divisa in due parti.

Sulla porta della capanna stavano seduti padre e figlio, in silenzio, davanti ad un fuoco quasi spento; all’interno la giovane moglie del figlio, Budhiya, giaceva con le doglie, contorcendosi dal dolore. Di tanto in tanto dalle sue labbra usciva un grido talmente straziante che i due si tenevano il petto come se sentissero anche loro il dolore. Era una fredda notte d’inverno, la natura era silenziosa ed il villaggio era avvolto nell’oscurità.

Ghisu disse “Sembra che non sopravviverà. È tutto il giorno che si sta contorcendo dal dolore. Su, vai a vedere come sta”.
Madhav con tono afflitto rispose “Se deve morire, perché non muore velocemente? Che bisogno c’è che io vada a vedere?”.
“Hai veramente un cuore di pietra! Ti sei goduto la vita con lei per un anno e ora sei così egoista?”.
“Beh, non ce la faccio a vederla soffrire in quel modo!”.

Erano una famiglia di chamaar (la casta dei lavoratori di pelli), noti in tutto il villaggio. Se Ghisu un giorno lavorava, dopo si riposava per tre. Madhav era un tale lavativo che se lavorava mezz’ora, poi passava un’ora a fumare il suo chilum. Per questo nessuno li assumeva. Se in casa c’era anche solo un pugno di farina, evitavano di lavorare. Dopo aver digiunato per un paio di giorni, Ghisu si arrampicava su un albero, rompeva qualche ramo e Madhav andava al mercato a vendere la legna; e fintanto che quei soldi duravano, spendevano il loro tempo gironzolando pigramente. Quando la fame diventava intensa, di nuovo rompevano qualche ramo o cercavano un lavoro. Il lavoro non mancava al villaggio. Era un villaggio di contadini e per un uomo di buona volontà c’erano decine di impieghi, ma la gente chiamava quei due solo quando erano costretti ad accontentarsi di ricevere da due persone il lavoro di una sola.

Se fossero stati degli asceti, non avrebbero avuto bisogno di esercitarsi nell’autocontrollo per raggiungere l’appagamento. Quella era la loro natura. La loro era un vita davvero strana: a parte due o tre contenitori di terracotta, non c’era nessun altro bene in quella casa, coprivano le loro nudità con degli stracci, liberi da interessi mondani, pieni di debiti; subivano abusi e ingiurie, ma senza affliggersi. Erano così poveri che le persone gli prestavano qualcosa sapendo che non c’era nessuna speranza che gli venisse restituita. Quando era la stagione di piselli e patate, andavano a rubarli in qualche campo e li arrostivano, oppure rompevano qualche canna da zucchero e passavano la notte a succhiarli. Ghisu aveva già speso sei anni della sua vita in questo “pio” modo e Madhav, da figlio diligente, stava seguendo le orme del padre, forse rendendo il suo nome ancora più famoso.

Anche questa volta i due erano seduti presso al fuoco, arrostendo le patate che avevano scavato dal campo di qualcuno. La moglie di Ghisu era mancata già da tempo, mentre il matrimonio di Madhav era avvenuto un anno prima. Da quando era arrivata, quella donna aveva posto le fondamenta della civiltà in quella famiglia. Macinando il grano, tagliando l’erba, riusciva ad avere un po’ di farina e riempire lo stomaco di quei due svergognati. Da allora erano diventati ancor più pigri ed indolenti, anzi, stavano quasi iniziando a fare gli spacconi. Se qualcuno li chiamava per lavorare, loro, con splendida indifferenza, chiedevano il doppio della paga. Quella donna oggi sta morendo di parto e quei due forse aspettano che muoia per poter dormire in pace.

Tirando fuori dal fuoco una patata ed iniziando a sbucciarla, Ghisu disse “Vai a vedere in che condizioni è! Altrimenti saremo tormentati dalla chudail, no! (La chudail è il fantasma delle donne che muoiono incinta o durante il parto). E per questo anche lo sciamano vuole una rupia”.
Madhav aveva paura che se fosse andato dentro alla capanna, Ghisu avrebbe finito quasi tutte le patate, quindi rispose “Ho paura ad entrare”.
“Di cosa hai paura? Dopotutto ci sono io qua!”.
“Allora vai tu a vedere, va bene?”.
“Quando morì mia moglie, per tre giorni non mi mossi dal suo fianco. E poi, Budhiya non dovrebbe aver vergogna di fronte a me? Non ho mai visto il suo viso ed ora dovrei vederla nuda?”.
“Sto pensando: se è nato un bambino, cosa succederà? Serviranno zenzero, zucchero, olio... E non c’è assolutamente nulla in casa!”.
“Tutto arriverà. Se Dio dona una figlio, quelle persone che ora non ci stanno dando un soldo, ci chiameranno e ci daranno il necessario. Ho avuto nove figli, in casa non c’è mai stato niente ed è così che mi sono arrangiato ogni volta”.

In una società dove coloro che lavorano giorno e notte e non stanno meglio di questi due; una società in cui, in confronto ai contadini, stanno meglio quelli che li sfruttano; in questo tipo di società, la nascita di questa mentalità non è una sorpresa. Potremmo dire che in confronto ai contadini, Ghisu era più arguto, ed invece di unirsi al gruppo dei sempliciotti contadini, si unì al gruppo degli scaltri manipolatori. Ma lui non era abbastanza pratico ed abile a seguire le usanze di questi ultimi, così se alcuni di loro erano diventati capi e ministri del villaggio, lui veniva additato da tutti i compaesani. Ciononostante si consolava pensando che se si fosse trovato in cattive acque, non era obbligato a svolgere il mestiere spaccaschiena dei contadini, e gli altri non si prendevano troppo vantaggio dalla sua condizione di semplicità e miseria.

Tirando fuori dal fuoco le patate, iniziarono a mangiarle ancora roventi. Non avevano mangiato nulla dal giorno prima ed erano troppo impazienti per aspettare che le patate si raffredassero. Così si bruciarono ripetutamente la bocca. Quando una patata era pelata, l’esterno non sembrava così caldo, ma nel momento in cui vi affondavano i denti, la parte interna rovente gli bruciava la lingua, il palato e la gola. Quindi piuttosto che tenerla in bocca, la mandavano nello stomaco a raffreddarsi. Così ingoiarono tutto velocemente, seppur lo sforzo li fece entrambi lacrimare.

In quel momento, a Ghisu venne in mente la festa di un ricco proprietario di terre, alla quale aveva partecipato venti anni prima. La quantità e la qualità del cibo che gli fu servito furono un evento così memorabile nella sua vita, che ancora ne conservava un vivido ricordo.
Quasi trasognato disse “Non mi dimentichetò mai quella festa. Da quella volta non ho mai mangiato così bene e non sono mai stato così sazio. Le ragazze della casa servivano puri (pagnotte fritte) a tutti, quanti ne volevano! Tutti nel villaggio, grandi e piccoli, mangiarono puri, e di quelli fritti nel ghee (burro chiarificato). E poi c’erano sottaceti, raita (un insalata di yoghurt e verdure fresche), tre tipi di verdure a foglia, un saporito stufato, yoghurt e dolci. Come faccio a raccontarti adesso che prelibatezze c’erano in quel banchetto? Non c’erano limiti: qualunque cosa desiderassi, dovevi solo chiederla e potevi mangiare quanto volevi! La gente mangiava così tanto, che nessuno si ricordò di bere neppure un goccio d’acqua. E continuavano a servirti pasticcini caldi e profumati, e non facevi in tempo a rifiutarne un vassoio, che subito ne arrivava un altro. E quando tutti ebbero finito di mangiare, venne offerto del paan (mistura digestiva). Ma io ero così pieno che non potei neppure consumare il paan, barcollai fuori ed andai a sdraiarmi sotto alla mia coperta. Aveva un cuore grande come l’oceano quel signore!”.

Divertendosi ad ascoltare la storia di questo grande banchetto, Madhav disse “Se solo qualcuno ci offrisse un simile trattamento al giorno d’oggi”.
“Come se ora qualcuno si degnasse di offrire banchetti agli altri. Quelli erano tempi diversi, ora tutti pensano all’economia, non spendono soldi in matrimoni e festival religiosi. A cosa serve risparmiare sui soldi della povera gente? Il risparmiare non manca, ma quando si tratta di spendere, allora pensano all’economia”.
“Tu avrai mangiato almeno venti puri!”.
“Oh, ne avrò mangiati ben più di venti”.
“Io ne avrei mangiati cinquanta!”.
“Neppure io sarei ruiscito a mangiarne cinquanta ed ero grande e grosso. Tu non sei neppure la metà di quello che ero io”.
Dopo mangiato, bevvero un po’ d’acqua, si coprirono con i loro lunghi (lungo drappo di solito usato per coprire le gambe), si rannicchiarono e si addormentarono di fianco al fuoco, raggomitolati come fossero due giganteschi serpenti.

Dentro alla capanna, intanto, Budhiya continuava a lamentarsi.

Nessun commento:

Posta un commento