mercoledì 31 agosto 2016

Storia su Anasuya

Anasuya (il cui significato è assenza di invidia) era la moglie di rishi Atri (per dettagli sui rishi rimandiamo all’introduzione di un’altra storia che li vede protagonisti http://informazioniindiaenepal.blogspot.it/2016/03/storia-su-rishi-vyasa-e-sua-moglie-aruni.html) ed era così chiamata poiché in lei non vi era alcuna traccia di invidia; mentre, al contrario, tutti erano invidiosi di lei.
Perfino Sarasvati, Lakshmi e Parvati, le mogli della trinità Brahma, Vishnu e Shiva, divennero invidiose di Anasuya ed un giorno architettarono un piano per disturbare la sua penitenza, così che non venisse presa ad esempio come moglie ideale.
Chiamarono quindi i loro mariti e gli ordinarono di andare a disturbare Anasuya.
Le tre divinità, anche se governano il mondo, chiaramente non avevano nessun diritto di interferire con il gioco di un rishi, ma dovettero ubbidire alle proprie mogli.
Si presentarono in incognito a casa di Anasuya mentre il marito Atri era fuori e lei, dopo averli fatti entrare, con i dovuti onori dedicati agli ospiti, chiese loro cosa volessero da mangiare.
I tre risposero che poteva offrirgli qualsiasi cosa, ma solo una volta che si fosse denudata, questo era il loro desiderio.
Anasuya allora decise di dargli una lezione.
Si recò presso la giara d’acqua del marito, ne prese un poco e la spruzzò sulle tre divinità che all’istante furono trasformati in infanti.
Quindi si denudò e facendo questo si spogliò dei tre rivestimenti del corpo umano, detti guna: rajas (attività), personificato in Brahma, sattva (purezza), identificato con Vishnu e tamas (ignoranza), cioè Shiva.
Rimuovendo questi rivestimenti andò al di là delle loro limitazioni, quindi una volta spogliata prese ciascuno dei tre bambini e li allattò.
In questo modo adempì alla meschina richiesta delle tre divinità ma senza essere messa in imbarazzo.
Quando Rishi Atri tornò a casa e vide cosa stava succedendo fu così felice che iniziò a piangere
Le mogli della Trinità invece, aspettavano il ritorno dei loro mariti per poter festeggiare con loro  la notizia che Anasuya era stata svergognata e avrebbero aspettato per milioni di anni, se non fosse stato per il mistico agitatore Narada.
Egli infatti si presentò alle tre dee e disse loro dove avrebbero potuto trovare i loro mariti; non solo, gli consigliò anche di andarli a prendere di persona perché loro non sarebbero stati in grado di tornare a casa, visto che erano trasformati in infanti.
Precipitatesi a casa di Rishi Atri, le tre dee scoprirono che le parole di Narada erano vere e chiesero ad Anasuya di restituire loro i mariti.
Anasuya rispose di riprenderseli, ma esse non furono in grado di riconoscerli poiché vedevano i loro mariti come rappresentazioni dei guna rajas, sattva e tamas, ma in quanto bambini in quel momento non possedevano nessuna di queste qualità.
Quindi Anasuya, che rappresenta l’ego purificato, ridiscese nel piano dei guna e restituì i tre bambini alle rispettive mogli.
Quindi ridiede a Brahma, Vishnu e Shiva la loro forma originale e i tre, visibilmente imbarazzati, benedirono la donna che avrebbe partorito un grande figlio.

Dalla benedizione di Brahma nacque Soma, la Luna, da quella di Vishnu nacque Dattatreya, l’immortale guru di Shiva e da Shiva, Rishi Durvasas, considerato un’incarnazione di Shiva stesso.

lunedì 29 agosto 2016

Akbar, Birbal e la giustizia

BirbalUn giorno l’imperatore Akbar chiese al suo fido consigliere Birbal cosa avrebbe scelto tra la giustizia ed una moneta d’oro.
“La moneta d’oro”, rispose Birbal.
Akbar fu molto sorpreso “Preferiresti una moneta d’oro alla giustizia?”, chiese incredulo.
“Sì!”, rispose Birbal.
Sentendo questo, anche gli altri cortigiani furono molto colpiti dall’improvvisa stupidità di Birbal; per anni avevano cercato, senza successo, di discreditarlo agli occhi dell’imperatore ed ora si era comportato da solo in modo così idiota. Non poterono credere alle loro orecchie!
“Mi sarei stupito perfino se il più basso dei miei servi avesse detto una cosa del genere,” continuò l’Imperatore “ma sentirlo dire da te, è davvero scioccante e triste. Non sapevo che fossi così materialista”.
“Uno chiede quello che non ha, Sua Maestà!”, disse Birbal con calma “Voi stesso potete notare come in questo Vostro paese la giustizia sia disponibile a tutti, quindi, siccome posso già avere giustizia e sono sempre senza soldi, così ho scelto per avere la moneta d’oro!”.

Akbar fu talmente compiaciuto dalla sua risposta che diede a Birbal non una moneta d’oro ma mille.

mercoledì 24 agosto 2016

Le Das Mahavidya, I parte

Le Das Mahavidya sono un gruppo di dieci divinità femminili indù che vengono considerate, come dall’etimologia del nome, “Le Dieci (das) Dee della Grande Saggezza (maha grande, vidya saggezza)”.
Sebbene alcune di queste divinità abbiano origini molto antiche, il concetto delle Das Mahavidya è relativamente recente e legato al periodo della nascita e sviluppo della corrente dello shaktismo, culto di divinità femminili, intorno al X-XII secolo.
Di questo periodo sono i primi testi sacri dove viene esaltato l’aspetto divino femminile come origine di ogni esistenza e nei quali vengono descritte le Das Mahavidya come le dieci forme di conoscenza attraverso le quali è possibile ottenere la conoscenza universale.

Oltre a far parte della corrente dello shaktismo, le dee di questo gruppo sono adorate dai praticanti tantrici, la cui filosofia si differenzia dalle correnti ortodosse, come ad esempio la diffusa vedanta, per l’accettazione della vita umana come reale e non solo illusoria.
Questo ha portato il tantrismo a considerare qualunque esperienza come spunto spirituale per espandere la propria conoscenza, a prescindere dall’eventuale purezza od impurità, altro concetto opposto al culto induista tradizionale che stressa particolarmente proprio su questo punto.
Anzi, per il tantra, più spaventosa e sconvolgente è l’esperienza, maggiore è la conoscenza che se ne  può trarre.
Per questo motivo le divinità tantriche hanno spesso un aspetto considerato terrifico: tra le Das Mahavidya ben 6 hanno caratteristiche che, ad un superficiale esame, potrebbero essere definite addirittura infauste.

Secondo la mitologia shakta, sono almeno due le versioni principali sull’origine delle Das Mahavidya, che compaiono in alcuni testi sacri considerati fondamenali per lo shaktismo.
Nello Shakta Maha-Bhagavata Purana, scritto intorno al X secolo, la loro apparizione deriva dal noto episodio riguardante la morte di Sati, la prima moglie di Shiva (per ulteriori dettagli http://informazioniindiaenepal.blogspot.it/2016/02/sati.html).
Quando Sati chiese a Shiva di partecipare ad un grande rituale che aveva organizzato il padre di lei ma senza invitare la coppia, egli dapprima rifiutò e per convincerlo Sati si trasformò nelle Das Mahavidya che circondarono Shiva da tutti i lati (gli otto punti cardinali più “sopra” e “sotto”), al ché questi, spaventato e sorpreso, diede il suo consenso.
Nel Devi Bhagavata Purana del XII secolo, le Das Mahavidya nascono invece dal corpo di Shakambari, una forma della dea Durga, che le generò durante una cruenta battaglia contro un esercito di demoni.
Prima di iniziare una breve descrizione degli aspetti più rappresentativi di queste dieci dee, lasciamo la lista dei nomi: Kali, Tara, Tripura Sundari (o Shodashi), Bhuvaneshvari, Bhairavi, Chinnamasta, Dhumavati, Baglamukhi, Matangi e Kamala.

Kali è la prima e più importante tra le dieci Das Mahavidya, tanto che è infatti l’unica che possiede un proprio culto anche al di fuori di questo gruppo.
Iconograficamente è rappresentata da una giovane donna seminuda, con la pelle scura, i capelli arruffati, la lingua estesa all’infuori, una gonna di braccia umana, una collana di teste e quattro braccia di cui almeno due reggono un’arma, una spada o un coltello ricurvo, e un teschio, mentre le altre due formano l’abhaya ed il varada mudra (posizioni delle mani che rappresentano il primo il coraggio, il secondo la benedizione della dea).
Date queste caratteristiche, Kali è considerata una divinità terrifica, seppur i suoi devoti apprezzino anche i suoi tratti più benevoli.
L’origine e l’importanza di Kali va ben oltre alla tradizione delle Das Mahavidya, nota ma pur sempre secondaria, ed è venerata da secoli come l’aspetto femminile divino più potente dell’induismo insieme a Durga, con la quale condivide un gran numero di attributi e qualità.
Per una effettiva descrizione dell’aspetto spirituale di Kali, lasciamo una breve citazione di uno dei suoi più grandi devoti, il santo Sri Ramakrishna:
Kali non è altro che Brahman. Ciò che viene chiamato Brahman in realtà è Kali.
Lei è l’energia primordiale: quando questa energia è inattiva, la chiamo Brahman, quando crea, conserva e distrugge, la chiamo Shakti o Kali.
Brahman e Kali non sono diversi, sono come il fuoco ed il potere di bruciare: quando si pensa al fuoco, si pensa anche alla sua capacità di bruciare.
Se si riconosce Kali, bisogna anche riconoscere Brahman, in quanto Brahman ed il suo potere sono la stessa cosa e quello che io chiamo Shakti o Kali è il Brahman.

La dea Tara ha origini buddiste e venne presumibilmente introdotta nell’induismo attraverso i numerosi e prolifici contatti tra la filosofia tantrica buddista del Tibet e quella tantrica induista dell’India del nord, in particolare dell’area del Bengala.
Iconograficamente assomiglia molto a Kali, dalla quale si differenzia per alcuni piccoli dettagli: Kali ha quasi sempre la lingua protesa all’infuori, Tara veste sempre una pelle di animale (tigre o leopardo) e spesso tiene tra le mani delle forbici, con le quali recide i nostri attaccamenti alla vita fisica, rappresentati nell’induismo dai tre guna, i tre componenti di ogni materia, rajas, attività, sattva, purezza, tamas, oscurità.
L’etimologia del nome significa Colei che permette di attraversare il fiume dell’esistenza, dalla radice sanscrita tar, da cui il verbo hindi tarna, attraversare ed il suo causativo, tarana, far attraversare.

Radice verbale dalla quale deriva anche il termine hindi terna, nuotare, e come per attraversare un fiume a nuoto bisogna spogliarsi dei vestiti, allo stesso modo per attraversare il fiume dell’esistenza e giungere sulle sponde divine bisogna spogliarsi dei tre guna.

lunedì 22 agosto 2016

Il carattere del santo Eknath

Eknath Maharaj (già citato in una parabola sulla devozione al proprio guru http://informazioniindiaenepal.blogspot.it/2016/07/breve-storia-sul-santo-eknath.html)
fu un grande santo e poeta, originario dello stato indiano del Maharashtra, vissuto intorno al XVI secolo.
Compose versi sia in marathi che in sanscrito e fu un grande esponente della filosofia del Bhagwat Dharma.
In essa vengono spiegati tutti gli aspetti di Dio: manifesto e non-manifesto, con forma e senza forma, Colui con tutti gli attributi e Colui senza attributi, l’uno senza secondo.
Era quindi solito accettare chiunque come discepolo, comprese le donne ed i fuoricasta, e ciò gli attirò il biasimo dei bramini ortodossi.
A proposito di questo, abbiamo trovato una breve ma significativa storia, seppur probabilmente apocrifa, che mostra anche il gentile ed elevato carattere di Eknath.

Un giorno Eknath, dopo aver fatto il bagno rituale nel fiume, passò di fianco ad un bramino, il quale, per mostrargli il proprio disappunto per insegnare spiritualità a donne e fuoricasta, gli sputò.
Eknath non disse nulla, si voltò e tornò al fiume a lavarsi.
Terminato, passò di fianco al bramino, questi di nuovo gli sputò e lui, senza dire nulla, tornò indietro a lavarsi.
Questo accadde per molte volte ancora finché il bramino realizzò la grandezza d’animo di Eknath, si prostrò ai suoi piedi piangendo e gli chiese perdono.

Eknath lo guardò sorpreso e gli disse “Perdono per che cosa? Anzi, io devo ringraziarti, è grazie a te che ho avuto la possibilità di bagnarmi ripetutamente nelle acque di questo sacro fiume!”.

sabato 20 agosto 2016

Akbar, Birbal, il vero ed il falso

Un giorno l’imperatore Akbar chiese ai cortigiani se sapessero dirgli la differenza tra il vero ed il falso in tre parole o meno.
I cortigiani si guardarono l’un l’altro sorpresi.
“Cosa dici tu Birbal?”, chiese Akbar, “Sono stupito dal tuo silenzio”.
“Sto zitto perché voglio dare agli altri una possibilità di rispondere”, disse Birbal.
“Ma nessuno sa la risposta, quindi vai avanti, dimmi la differenza tra la verità ed il falso”.
Birbal rispose semplicemente “Quattro dita”.
“Quattro dita?”, chiese Akbar perplesso.
“Sì, Sua Maestà. Quello che vediamo con i nostri occhi è la verità, quello che sentiamo soltanto con le orecchie è il falso”.
“Questo è vero”, disse Akbar, “ma cosa intendi per quattro dita?”.

Birbal sorridendo rispose “È la distanza tra un occhio ed un orecchio!”.

giovedì 18 agosto 2016

I baoli (pozzi a gradini), I parte

Il Chand Baori nei pressi di Jaipur
I baoli (anche baori) sono dei pozzi a gradini tipici del subcontinente indiano, piuttosto diffusi nell’India del nord ed in alcune aree desertiche del Pakistan, composti da specchi d’acqua ai quali si accede attraverso delle rampe di scale.
Nati con lo scopo pratico di conservare la preziosa acqua piovana e renderla facilmente raggiungibile dagli abitanti locali, spesso sono stati costruiti in stili architettonici molto ricercati ed elaborati, e non sono pochi quelli che possono essere definiti vere e proprie opere d’arte.
La loro manutenzione, spesso molto difficile, era solitamente affidata ai ricchi regnanti che li facevano edificare, ma purtroppo col passare del tempo molti sono caduti in disuso e solo alcuni successivamente furono salvati come veri e propri monumenti.

Storicamente è abbastanza accertato che si siano originati nell’arido stato indiano del Gujarat intorno al VII secolo d.C., espandendosi poi piuttosto velocemente anche nel vicino e desertico Rajasthan, e raggiungendo la massima diffusione tra l’XI ed il XVI secolo.
Gli stati indiani dove si trovano la maggior parte degli esempi, oltre ai due appena citati, sono il Madhya Pradesh, il Maharashtra, il Karnataka e la capitale Delhi.
Tra i baoli meglio conservati e di maggior pregio artistico si possono citare: l’Agrasen ki Baoli ed il Rajon ki Baoli, entrambi a Delhi; il Chand Baori di Abhaneri, presso Jaipur; il Rani ki vav di Patan, in Gujarat (monumento protetto dall’UNESCO); il Dada Hari Stepwell e l’Adalaj Stepwell, il primo nella grande città gujarati di Ahmedabad, il secondo nei suoi pressi.
I primi tre sono descritti in questo post, gli altri tre nella II parte.

L’origine dell’Agrasen ki Baoli non è chiara, ma si potrebbe ragionevolmente assumere che venne costruito attorno il XIV secolo da parte della comunità Agrawal, ampliando un antico pozzo preesistente.
La struttura molto semplice di questo baoli è composta da una scalinata di un centinaio di gradini, ai lati della quale si aprono tre piani di nicchie ad arco.
Dietro alla facciata, adornata di nuovo con pregevoli archi, si trova il grande e profondo pozzo.
La favorevole posizione geografica, pressoché al centro di Delhi, vicino alla nota Connaught Place, renderebbe la sua già interessante e piacevole visita anche molto comoda, ma spesso il monumento non è aperto al pubblico per motivi di sicurezza, ad esempio dopo copiosi monsoni, o necessarie manutenzioni.

Il Rajon ki Baoli si trova alla periferia sud di Delhi, all’interno del Mehrauli Archeological Park, non molto lontano dall’ancor più pregevole sito archeologico del Qutab Minar (http://informazioniindiaenepal.blogspot.it/2016/08/la-citta-di-delhi-iii-parte.html).
Il parco di Mehrauli, dal nome dell’area, ospita un centinaio di monumenti di una certa importanza storica, tra cui ad esempio i bastioni dell’antico Lal Kot, un forte costruito dalla dinastia Tomar nel IX-X secolo; oppure la tomba di Balban, un potente sultano di Delhi della dinastia dei Mamelucchi, costruita nel 1287 in perfetto stile indo-islamico, i resti della quale rappresentano il primo esempio di vero arco nella penisola indiana.
Il Rajon ki Baoli ha una struttura rettangolare molto simile al pozzo di Agrasen situato in centro città e venne costruito intorno al 1516 da Daulat Khan, il governatore di Lahore per l’ultimo sovrano della dinastia Lodi.
Oltre a questo baoli, il parco di Mehrauli ne ospita altri due, meno elaborati e più piccoli ma pur sempre abbastanza impressionanti per dimensioni.
L’Anangtal Baoli è il più antico, quindi anche il peggio conservato, e venne fatto costruire della dinastia Tomar intorno all’XI secolo, mentre il Gandhak ki Baoli è un opera della dinastia dei Mamelucchi edificata nel XIII secolo.
Particolarità di quest’ultimo è l’ospitare acqua sulfurea, dal non piacevolissimo odore e dalla quale è derivato il nome (gandha significa sporco), ma si crede abbia anche proprietà benefiche.

Il Chand Baori è uno dei più antichi e noti tra i pozzi a gradini rimasti in India e seppur la struttura quadrata sia piuttosto semplice, l’ampiezza e la profondità lo rendono molto scenografico.
Costruito intorno all’VIII-IX secolo da parte dell’omonimo Chanda re di una dinastia locale, risulta particolarmente ampio e profondo per cercare di raccogliere la maggior quantità d’acqua in un’area molto arida.
I 13 livelli della struttura quadrata sono collegati da migliaia di stretti gradini che permettono di scendere fino al piano più basso, creando anche un effetto estetico molto piacevole.
Uno dei lati di questo baoli è ulteriormente abbellito dalla presenza del tempio di Harshat Mata (divinità femminile della gioia e la felicità) i cui archi decorativi si affacciano quasi a strapiombo sul fondo del pozzo.
Come accadeva anche in molti dei più grandi baoli, le parti più basse venivano spesso utilizzate dagli abitanti locali anche per scampare agli impietosi raggi solari e cercare un po’ di refrigerio, grazie ad ambienti decisamente più freschi che in superficie.

Uno dei padiglioni meglio conservati pare che fosse riservato al piacere delle famiglie regnanti.

mercoledì 17 agosto 2016

Breve parabola sul karma

Il metodo migliore per gestire le reazioni karmiche è attraverso stratagemmi ed astuzie, non la bruta forza.
Non bisogna cercare di forzare le questioni, ma negoziare pazientemente la propria strada mentre si scivola e si sguscia per districarsi.
Una breve e semplice storia mostra come sottomettersi agli eventi sia più utile che cercare di imporre la propria volontà.

Un uomo possedeva un vecchio paio di sandali che erano stati riparati così tante volte che non c’era un solo punto in cui non ci fosse una toppa.
Un giorno decise che era giunto il momento di liberarsi di quei sandali, così, dopo esserseli tolti prima di entrare in un tempio, quando uscì non li riprese e li lasciò lì, pensando che a sera qualche pover’uomo li avrebbe presi.
Ma dopo pochi passi, un negoziante gli corse dietro, glieli restituì e gli disse “Ha dimenticato i suoi sandali! Ma dove ha la testa?”.
Così l’uomo tornò a casa, dove decise che il metodo migliore per liberarsi dei vecchi sandali era quello di gettarli dalla finestra.
In quel momento però, stava passando un bambino che fu colpito e si mise a piangere.
La madre iniziò ad urlare, l’uomo uscì per porgere le proprie scuse, ma fu insultato dalla folla che si era raccolta nel frattempo e schiaffeggiato dalla furiosa madre.
Quando tutto fu finito, l’uomo si sedette e iniziò a pensare “Tutto quello che volevo era liberarmi di questi sandali e come risultato sono stato insultato e picchiato. Cosa dovrei fare?”.
All’improvviso i sandali iniziarono a parlare “Perché ti stai agitando tanto? Lo sappiamo che siamo stati riparati così tante volte che ormai rimangono quasi solo toppe. Ma tutto quello che tu devi fare è rimuovere le toppe, attaccare della buona pelle e due nuove suole, e torneremo come nuovi”.

E questo fu esattamente quello che l’uomo fece.

martedì 16 agosto 2016

Akbar, Birbal ed il giardiniere leale

Akbar the Great Mogul, 1542-1605 (1917) (14586703359).jpgUn giorno l’imperatore Akbar, mentre camminava nel suo giardino, inciampò su una roccia e si fece una brutta ferita all’alluce di un piede.
Essendo già di cattivo umore per altri motivi, Akbar si arrabbiò a tal punto che ordinò di catturare e mettere a morte il giardiniere responsabile.
Il giorno dopo, quando gli venne chiesto quale fosse il suo ultimo desiderio prima di essere impiccato, il giardiniere chiese di poter conferire con l’imperatore.
Garantitogli, questi si avvicinò al trono, si raschiò la gola molto rumorosamente e sputò ai piedi di Akbar.
L’imperatore, che si aspettava una supplichevole richiesta di grazia, fu molto sorpreso e chiese al giardiniere il motivo di tale comportamento.
Questi aveva agito su consiglio di Birbal, che avanzò per prendere la parola e difendere il giardiniere “Sua Maestà, in tutto il Vostro regno non c’è nessuno più leale di questo sfortunato uomo. Temendo che la gente avrebbe potuto dire che Voi lo avevate condannato a morte per un’inezia, ha deciso di darVi una vera ragione per impiccarlo!”.

Ridendo, Akbar si accorse che stava commettendo una grande ingiustizia e lasciò andare il giardiniere. 

lunedì 15 agosto 2016

Luoghi sacri buddisti, IX parte: Sanchi

A visitor's overview photo of Great Stupa of Sanchi, 1937.jpgIl piccolo ed apparentemente anonimo paese di Sanchi si trova nello stato indiano del Madhya Pradesh a circa 50 chilometri dalla grande città di Bhopal.
La sua relativa notorietà è dovuta alla presenza di una modesta collina sulla quale sono situati alcuni antichi stupa e santuari buddisti di notevole importanza e pregio artistico, tanto da far parte, fin dal 1989, dei monumenti protetti dall’UNESCO.
La particolarità delle più antiche decorazioni di Sanchi è l’essere uno dei migliori esempi, tra i pochi rimasti, d’arte buddista aniconica, uno stile in cui il Buddha non veniva rappresentato come un essere umano, bensì attraverso simboli, quali: un trono vuoto, un albero di Bodhi, un cavallo senza cavaliere, l’impronta del suo piede, uno stupa e la ruota del dharma (etica) buddista, un cerchio con 24 raggi.
La scarsità dei reperti di questa tipologia d’arte religiosa, soprattutto sotto forma di bassorilievi scolpiti su roccia, è dovuta al fatto che terminò intorno al I secolo d.C., dopo il quale il Buddha iniziò ad essere rappresentato in forma umana.

Storicamente, l’importanza di Sanchi nella religione buddista non è legata alla vita del Buddha, il quale infatti non visitò mai questo sito piuttosto lontano dalle aree dove trascorse la sua esistenza, bensì al grande imperatore Ashoka (http://informazioniindiaenepal.blogspot.it/2016/02/limperatore-ashoka.html), legato a questo luogo per esservi nata la moglie ed avervi celebrato il loro matrimonio (circa nel III secolo a.C.).
Successivamente anche altre dinastie buddiste aggiunsero il proprio contributo artistico, con gli ultimi edifici religiosi costruiti fino a circa il XII secolo, dopo il quale Sanchi venne dimenticata a causa del decadimento del buddismo che venne gradualmente riassorbito nell’induismo.
Oggigiorno sulla collina di Sanchi si possono ammirare alcuni antichissimi stupa fatti erigere dall’imperatore Ashoka ed altri resti di santuari, templi e monasteri, fatti erigere anche da successivi regnanti di religione buddista.

Il Grande Stupa di Ashoka è la più antica struttura in pietra dell’India e deve la sua notevole importanza artistica alla cinta di mura che scorre attorno alla semisfera, con quattro portali meravigliosamente scolpiti.
L’originale stupa, di minori dimensioni, venne eretto intorno al III secolo a.C., su indicazioni dell’imperatrice, ma venne successivamente ampliato dai regnanti della dinastia Shunga che, attorno al I secolo d.C., aggiunsero la decorata ringhiera in pietra, aperta presso i quattro punti cardinali.
Nonostante abbiano subito alcuni danni, i torana, i bassorilievi situati sopra a queste entrate, sono considerati i più antichi e squisiti esempi d’arte buddista del subcontinente indiano, che traggono ispirazione in gran parte dai Jataka, testi indiani che descrivono le vite passate del Buddha.
Ad esempio, sul torana dell’entrata settentrionale, probabilmente quello meglio conservato, si può notare la squisita scultura di una scimmia che offre una ciotola di miele al Buddha, rappresentato aniconicamente come un albero di Bodhi
Oppure si può segnalare il torana della porta meridionale, che pare essere il più antico ed è decorato, oltre che con episodi della nascita del Buddha, dagli eventi della vita dell’imperatore Ashoka che lo portarono a convertirsi al buddismo.

Oltre al Grande Stupa, degli otto che furono fatti edificare da Ashoka nel III secolo a.C. ne rimangono solo due, chiamati per convenzione archeologica stupa numero 2 e numero 3.
Lo stupa n. 2 è protetto da un’alta ringhiera in pietra piuttosto massiccia e sobria nelle decorazioni; la parte superiore della semisfera è appiattita e priva della parte sommitale con il tipico chhatra (ombrello), probabilmente danneggiata dal tempo o trafugata da ladri di reperti.
Il numero 3 invece si trova su una base rialzata e vi si accede tramite una breve scala doppia, molto decorata, come pure la balaustra in pietra che vi scorre attorno.
Sulla cima si trova una piccola struttura quadrata ed il classico parasole; degno di nota è anche il torana sopra all’entrata principale.

Tra le altre costruzioni che costellano la collina di Sanchi, degni di nota sono i cosiddetti tempio n. 17 e 18, i cui colonnati ricordano sorprendentemete gli edifici greci classici e furono costruiti nel VII secolo, come il tempio 31, che nonostante l’anonima forma quadrata in mattoni, ospita al suo interno una scultura del Buddha particolarmente pregevole.
I monasteri n. 45 e 47, situati sull’estremità orientale del colle, appartengono all’ultima fase artistica di Sanchi e presentano oltre alla tipica pianta con cortile centrale, alcuni elementi architettonici induisti.

Infine, un cenno meritano le colonne, o quel poco che ne è rimasto, sparse in tutta l’area archeologica di Sanchi.

La più importante è sicuramente la colonna n. 10, fatta erigere dall’imperatore Ashoka, e seppur oggi sia possibile osservare solo il basamento, nel piccolo museo situato in paese, è possibile ammirare il meraviglioso capitello, simile al più noto trovato presso il sito buddista di Sarnath (http://informazioniindiaenepal.blogspot.it/2016/07/luoghi-sacri-buddisti-iii-parte-sarnath.html).

domenica 14 agosto 2016

Luoghi sacri buddisti, VIII parte: Vaishali

Vaishali remainings.JPGVaishali fu un’antica città, situata nell’attuale stato indiano del Bihar, oggigiorno trasformata in un interessante sito archeologico.
L’importanza storica di Vaishali è notevole: fin dall’antichità fu la capitale di una delle mahajanapada (un gruppo di repubbliche oligarchiche) che regnarono nel nord dell’India tra il VI ed il IV secolo a.C.; sempre in questo florido periodo, per l’esattezza nel 599 a.C., diede i natali a Mahavira, 24esimo ed ultimo profeta jaina, nonché fondatore della religione stessa; infine assunse una notevole posizione nel buddismo, grazie alle numerose e significative visite del Buddha.
In particolare, Vaishali è il luogo dove il Buddha si ritirò a meditare subito dopo aver lasciato il suo palazzo reale di Kapilavastu e dove trascorse spesso del tempo dopo l’illuminazione.
Pare anche che qui avvenne il miracolo della scimmia che si presentò al Buddha con una ciotola di miele come offerta ed infine vi tenne il suo ultimo sermone prima di recarsi nella non lontana Kushinagar per morire.

Come accaduto in tutti i luoghi di culto buddisti del subcontinente indiano (http://informazioniindiaenepal.blogspot.it/search/label/Luoghi%20sacri%20buddisti), col passare del tempo Vaishali perse la sua importanza fino ad un completo declino, da circa l’VIII-IX secolo e ad oggi sembra pressoché “inghiottita” nell’arretratezza dell’immensa pianura gangetica.
Nonostante questo si sono conservate poche ma significative testimonianze del suo ricco passato, di notevole importanza storico-artistica.
I resti più notevoli del sito archeologico si trovano essenzialmente nei pressi di una grande vasca in mattoni chiamata Coronation Tank, poiché con la sacra acqua in essa contenuta venivano “battezzati” storicamente i sovrani di Vaishali quando assumevano il potere.

Sulle sue sponde si trova l’area del Kutagarasala Vihar, un monastero spesso frequentato dal Buddha, dove oggigiorno spiccano: l’Ananda Stupa, un enorme semisfera di pietra, dedicato ad Ananda, uno dei principali discepoli dell’Illuminato; ed una delle antichissime colonne di Ashoka (http://informazioniindiaenepal.blogspot.it/2016/02/limperatore-ashoka.html), che si distingue per essere una delle pochissime rimaste nel proprio luogo d’origine e, soprattutto, completamente conservata.
Nonostante siano passati circa 2.300 anni dalla sua costruzione, la colonna di Ashoka di Vaishali presenta ancora l’originale e pregevole capitello, sulla cui cima si trova la scultura di un leone asiatico posizionato sopra ad una base scolpita a forma di fiore di loto rovesciato.

Qualche centinaio di metri dalla Coronation Tank, sotto ad una semplice ma molto utile tettoia circolare, sono conservate le fondamenta dell’antico Relic’s Stupa (lo Stupa delle Reliquie), fatto edificare dalla potente dinastia Licchavi (la più potente tra quelle che formavano la repubblica di cui Vaishali era la capitale tra il VI e IV secolo a.C.) per proteggere un ottavo delle reliquie del Buddha.

Tornando geograficamente presso la grande vasca sacra ma storicamente ai giorni nostri, un’ultima attrazione di Vaishali è il bianco e vistoso Shanti Stupa, uno dei numerosi fatti costruire dalla setta buddista giapponese Nipponzan-Myohoji (per ulteriori dettagli http://informazioniindiaenepal.blogspot.it/2016/08/luoghi-sacri-buddisti-vi-parte-rajgir.html).

Rispetto alla maggior parte di questi edifici, dall’apprezzabile messaggio di pace (shanti) ma di scarso valore religioso, lo Shanti Stupa di Vaishali gode, o almeno dovrebbe godere, di una certa rilevanza visto che ospita due piccole parti delle reliquie del Buddha: una porzione venne posizionata nelle fondamenta, un’altra nel chhatra, la torre-ombrello che si trova sulla cima dello stupa.

sabato 13 agosto 2016

Parabole Ante mati sa gatih

Ante mati sa gatih è un’espressione sanscrita che significa: qualsiasi cosa tu stia pensando appena prima di morire determinerà la tua prossima rinascita.
In realtà questa è solo la causa accidentale, in quanto le rinascite dipendono da molti fattori più complessi, su tutti il bilanciamento dei karma positivi e negativi, come dimostrato dalle tre storielle che seguono.

Vi era una vecchia veramente pia, che adorava regolarmente Dio, ogni giorno, per parecchie ore e, in effetti, non faceva quasi altro.
Negli ultimi anni di vita diventò cieca e doveva muoversi a tastoni, ma questo rese la sua adorazione ancora più perfetta giacché, insieme con la vista, perse tutte le poche distrazioni che aveva verso il mondo materiale.
Ovviamete era vegetariana e mangiava pochissimo.
Un giorno, mentre preparava da mangiare, mise accidentalmente il piede su un topolino, che morì con unno squittio.
Siccome aveva un cuore tenero, immediatamente pensò: “Cos’è successo? Ho ucciso un topolino?”, e con questo pensiero nella mente, all’improvviso, morì.
Ante mati sa gatih, il suo ultimo pensiero prima della morte fu per il topo morto e perciò dovette rinascere come topo.
Quindi, a causa dell’eterna lotta per il cibo, tornarono in lei cupidigia e collera, e ritornò in basso per la spirale del samsara (il ciclo delle rinascite).

Se è vero che perfino il più piccolo attaccamento al materiale può riportarci dentro alla ruota del samsara, è anche altrettanto vero che il più piccolo attaccamento a Dio può salvarci.
Vi era un uomo di nome Ajamila che nella sua vita era stato un criminale ed aveva compiuto molte azioni efferate.
Mentre stava per morire, questi non riusciva a far altro che chiamare suo figlio Narayana, che era poco lontano nei campi.
Narayana è anche uno dei nomi di Vishnu, La Consevazione, Colui che protegge i mondi, così al momento della morte il nome di Narayana era sulle labbra di Ajamila.
Appena esalato l’ultimo respiro, arrivarono due demoni per trascinare la sua anima all’inferno, dove avrebbe espiato alcuni dei suoi terribili karma, ma un angelo li fermò e disse loro “Come vi permettete di portar via quest’uomo? Non sapete che è morto con il nome di Narayana sulle labbra?”.
I demoni si fecero una risata “Sicuro, chiamava suo figlio. È questa la sua devozione?”.
“Il fatto è che egli ha ricordato Narayana, che esiste in ogni essere umano, egli viene con me!”, disse l’angelo, ed Ajamila entrò in cielo.
Naturalmente quest’uomo doveva aver fatto tantissime austerità nelle vite passate per avere una tale opportunità (mentre al contrario la pia vecchia aveva accumulato numerosi peccati), ma questo dimostra, oltre all’inesorabilità del karma, la potenza del nome di Dio.

C’era una volta un guru che sedeva sotto un albero con il suo discepolo prediletto.
Mentre stava riposando, il guru vide un mango che cresceva su un ramo molto vicino al terreno e pensò “Quanto mi piacerebbe avere quel mango!”, e proprio appena chiese al discepolo di prenderlo per lui, morì.
Il discepolo era sconvolto “Il mio amato maestro è andato, ora chi si prenderà cura di me e mi istruirà come faceva lui?”.
Poi d’un tratto gli venne in mente ante mati sa gatih, qualsiasi cosa tu stia pensando appena prima di morire determinerà la tua prossima rinascita, e poiché il suo guru gli aveva chiesto un mango mentre moriva, allora doveva trovarsi da qualche parte nella zona, per cercare di ottenere il mango ed appagare quell’ultimo desiderio.
Così il ragazzo prese il mango e, non sapendo cosa cercare, lo ispezionò attentamente.
Vi trovò una formica che vi camminava sopra ed osservandola gli venne in mente un altro pensiero “Il mio maestro potrebbe essere in questo insetto”, prese la formica tra il pollice e l’indice e la schiacciò.
Immediatamente il suo guru tornò in vita “Grazie, mio caro ragazzo, per quello che hai fatto per me! Ero davvero intrappolato in quella formica, desideroso di assaggiare il mango. Mi hai salvato dal brancolare nell’oscurità di maya (il velo illusorio) per molte rinascite”.

Benedì il ragazzo trasferendogli tutta la sua conoscenza e scomparve.

venerdì 12 agosto 2016

Le monete indiane: III parte

Venendo alla moneta da 5 rupie, bisogna subito notare la sua particolare forma, che ricorda il pound inglese, cioè non molto grande ma spessa, ed una piacevole scalanatura centrale munita di decorazioni.
La prima serie, che viene stampata ancora oggi, prevede un grosso numero 5 al centro, con la scritta rupia in hindi sopra e in inglese sotto, afficancata da due piacevoli composizioni floreali; mentre sull’altro lato propone il solito capitello di Ashoka.
Nel 2007 con l’introduzione della “serie della mano”, ci si aspettava quindi una moneta da 5 rupie con la mano aperta a mostrare tutte le dita, invece la nuova serie prevede solo un 5 sopra ad alcune onde che occupano la parte bassa della moneta e dovrebbero simboleggiare la moderna connettività e l’informazione tecnologica.

Nel 2009 invece fu introdotta una serie la cui particolarità è il materiale, cioè l’ottone, che dona quindi alla moneta un piacevole colore dorato.
Purtroppo però, nonostante i disegni siano in tutto per tutto uguali alla serie comune, lo spessore è quello delle normali monete, invece dell’elaborata e spessa scanalutara stile pound inglese.

Venendo alle serie celebrative: nel 1994 fu emessa una moneta, piuttosto diffusa, per celebrare i 75 anni dell’ILO, Organizzazione Internazionale del Lavoro, agenzia dell’ONU; mentre nel 1995 fu la volta dei 50 anni delle Nazioni Unite, dove compare il numero 50 e il simbolo dell’ONU.
Sempre nel 1995 caddero i 50 della FAO, celebrati con una serie di monete da 5 rupie dove viene rappresentato appunto il simbolo della FAO.

L’anno successivo, 1996, fu la volta di una campagna a favore della salute delle madri, e sulla moneta è raffigurata una donna con in braccio un bambino dentro ad un triangolo con la punta rivolta verso il basso; sotto di essa la scritta: Mother’s health is child’s health (La salute della madre è la salute del bambino).

Nel 2001 furono festeggiati i 2600 anni della nascita di Mahavir, l’ultimo tirthankar (profeta) della religione jaina e sulla moneta celebrativa da 5 rupie compare il simbolo del jainismo, una svastica con sotto una mano aperta.

Nel 2005 furono celebrati i 75 anni della Marcia del Sale promossa da Gandhi, diventata simbolo della lotta non-violenta contro la dominazione britannica.

Inoltre possediamo una moneta da 5 rupie piuttosto recente, dedicata a Jagat Guru Sree Narayana Gurudev, considerato non solo un grande santo ma anche un riformatore sociale.
Le dimensioni sono leggermente ridotte, soprattutto lo spessore, seppur mantenga la tipica scanalatura del modello base, e il peso è diminuito di ben 3 grammi da 9 a 6.
La data di emissione, misteriosamente, non compare sulla moneta, ma con una breve ricerca internet abbiamo
scoperto essere il 2006.

Infine, molto recente, 2011, è la bella moneta da 5 rupie in ottone, dedicata ai 150 della nascita di Rabindranath Tagore, rappresentato su un lato della moneta.

Da circa una decina d’anni, nelle più grandi città, stanno iniziando a circolare delle utili e vistose monete bimetalliche del valore di ben 10 rupie.
Stando all’interessante voce di Wikipedia inglese sulle moderne monete indiane, la loro storia, seppur breve è alquanto articolata.
Nel 2005 vennero infatti emessi i primi esemplari, dal tema “Unity in Diversity” (Unità nelle differenze), il quale design però ricordava fin troppo una croce e per evitare controversie religiose il loro conio venne interrotto.
Operazione piuttosto semplice visto che oltretutto queste monete erano state emesse solo da una delle quattro zecche indiane, per la precisione quella di Noida, vicino Delhi.
Pochi anni dopo, la Banca Statale Indiana comunicò che le monete bimetalliche da 10 rupie avranno due temi: oltre alla interrotta serie “Unity in diversity”, venne aggiunta la “Connectivity and information technology”, emessa nel 2008.
In questa serie il disegno prevedeva, oltre ad un lato con il classico capitello di Ashoka, il numero 10 con sopra 15 spessi e corti raggi, ma anche in questo caso le monete venivano coniate solo dalla zecca di Noida, quindi la loro circolazione risultò sempre scarsa.
Finalmente, nel 2011, iniziarono ad essere coniate in tutte e quattro le zecche, con leggeri cambiamenti: i raggi furono ridotti a 10 e venne introdotto il nuovo simbolo della rupia.

Ultimissima curiosità numismatica sulle monete indiane, riguarda il piccolo simbolo che compare spesso proprio sotto alla cifra dell’anno di emissione.
Questo serve a segnalare quale zecca ha emesso il pezzo, in quanto, come accennato poco fa, l’India possiede ben 4 zecche: a Mumbai, Kolkata, Hyderabad e Noida.

Mumbai è rappresentata da un piccolo rombo, Kolkata dall’assenza di qualsivoglia simbolo, Hyderabad da una stella e Noida da un punto, sebbene esistano anche altri simboli, purtroppo difficilissimi da identificare a causa delle ridottissime dimensioni.

giovedì 11 agosto 2016

Luoghi sacri buddisti, VII parte: Sankassa

Tibetan - Buddha Shakyamuni with "Jataka" Tales - Walters 35140.jpgSankassa, identificata oggi con un omonimo ed anonimo paesino sperduto nella vasta campagna gangetica centro-settentrionale, fu un’antica città indiana, che raggiunse il suo massimo splendore intorno al VI-V secolo a.C., durante la vita del Buddha.
In origine comunque Sankassa fu induista, come suffragato anche da alcune citazioni nel poema epico Ramayana, dove viene descritta la sconfitta di un malefico re di Sankasya (uno degli antichi nomi simili con i quali era conosciuta la città) da parte di Janaka, padre di Sita e re del vicino Regno di Mithila.

Secondo fonti buddiste qui il Buddha ritornò sulla terra dopo essere andato nel Tavatimsa (un dei paradisi buddisti) per predicare a sua madre Maya Devi l’Abhidhamma Pitaka, una serie di insegnamenti che diverranno la terza ed ultima parte del Canone Pali, le scritture sulle quali si basa il buddismo theravada.
Dopo la morte del Buddha, Sankassa iniziò uno sviluppo legato alla diffusione dei suoi insegnamenti, tanto da prendere parte ad alcuni avvenimenti concernenti la cosiddetta Controversia di Vajjiputta, nome dato al Secondo Concilio Buddista.
Ma soprattutto, un paio di secoli più tardi, il grande imperatore Ashoka (http://informazioniindiaenepal.blogspot.it/2016/02/limperatore-ashoka.html) decise di promuovere la città come luogo di pellegrinaggio, costruendo templi e monasteri ed installandovi una delle sue famose colonne.
Purtroppo, a causa degli avvenimenti storici successivi, in particolare il declino del buddismo a favore dell’induismo, Sankassa ha lentamente perso ogni importanza e ad oggi si trova in un’area decisamente depressa.

Oltre alla poco felice posizione geografica, bisogna anche notare che sono pochissimi i resti delle antiche vestigia della città ed i visitatori sia pellegrini che turisti sono estremamente rari.
Tra i luoghi di un minimo interesse si possono segnalare solo un paio di siti: all’ombra di un grande albero appena fuori il villaggio, si trova una semplice struttura di pietra, simile ad un baldacchino, che protegge il capitello della colonna di Ashoka (ormai sparita), sulla quale è scolpito un elefante, posizionato sopra ad un fiore di loto rovesciato.
Seppur il muso dell’animale sia gravemente danneggiato, la scultura è piuttosto gradevole e di una certa importanza storico-artistica, tenendo presente l’antichità del reperto, che risale a circa il III secolo a.C..

Non molto lontano si può notare una bassa e brulla collina sulla cima della quale sono collocate due piccoli santuari ed i resti in mattoni di un antico tempio costruito esattamente nel luogo dove il Buddha poggiò il primo piede tornando dal paradiso Tavatisma.
Già i primi pellegrini cinesi, Faxian e Xuanzang, che visitarono il luogo nel IV e VII secolo, trovarono il luogo pressoché disabitato ed il santuario gravemente danneggiato.

mercoledì 10 agosto 2016

Le monete indiane, II parte

Le evoluzioni della moneta da 2 rupie sono molto simili a quelle del pezzo da 1 rupia (http://informazioniindiaenepal.blogspot.it/2016/08/le-monete-indiane-i-parte.html).
La prima serie, prodotta dal 1982, prevede da un lato il capitello di Ashoka con sotto il numero 2, mentre ai lati vi è scritto India e Rupie sia in hindi che in inglese.
Sull’altro lato è invece riprodotta una cartina dell’India con al centro un bandiera e la scritta National Integration, come sempre sia in hindi che in inglese.
La particolarità di queste monete è la forma: un esemplare del 1990 è ben più grande delle serie successive e seppur sia circolare, all’interno il cerchio è ridotto da un endecagono; un altro esemplare del 1998 invece è proprio di forma endecagonale, mentre un ultimo pezzo del 2000 torna ad essere rotondo con l’endecagono all’interno del cerchio.
Nonostante alcune ricerche, francamente rimane per noi un mistero il motivo di queste piccole ma evidenti differenze.

Nella serie “di riciclo” emessa dal 2005 al 2008, la moneta da 2 rupie risulta molto simile a quella da 1: da un lato infatti cambia solo numero, mentre dall’altro il simbolo decentrato della croce con i puntini agli angoli prevede che le linee della croce siano doppie invece che singole a simbolizzare il numero 2.
Anche nella “serie della mano” le uniche differenza sono il numero 2 al posto dell’1, e la mano che mostra l’indice e il medio invece del solo pollice.
Stesso discorso infine per l’ultima serie col nuovo simbolo della rupia dove cambiano il numero ed il tipo di composizione florale.

Per quanto riguarda le serie celebrative, bisogna subito notare, anche in questo caso, lo strano fenomeno della forma, talvolta circolare e talvolta a 11 lati.
Nel lontano 1982 fu emessa una serie per celebrare l’organizzazione dei IX Giochi Asiatici nella città di Delhi e il simbolo che compare al centro dovrebbe rappresentare il Jantar Mantar, uno degli osservatori astronomici fatti costruire dal Maharaja Jai Singh II di Jaipur (http://informazioniindiaenepal.blogspot.it/2016/07/la-citta-di-jaipur.html).
Sopra di esso, vi è raffigurato un sole e sotto la scritta Delhi.

Nel 1993 fu emessa una serie di monete da 2 rupie per celebrare la giornata mondiale del cibo e della biodiversità, promossa come sempre dalla FAO, dove è raffigurato un semplice ma significativo paesaggio, con acqua, pesci, alberi, montagne e uccelli.

Del 1995 possediamo un pezzo leggermente macchiato di nero e consumato, dedicato all’VIII Conferenza Mondiale della lingua Tamil, e dove viene ritratto il famoso santo Thiruvalluvar, seduto in posizione yogica.

Nel 1996 è stata emessa una serie con il ritratto di Sardar Vallabhabhai Patel, un noto politico molto attivo all’interno del movimento indipendentista indiano; come l’ancora più noto Subhas Chandra Bose al quale fu dedicata una serie l’anno seguente, il 1998.

Sempre nel 1998 uscì una moneta da 2 rupie dedicata al filosofo Aurobindo, in cui, oltre al ritratto, compare una sua massima piuttosto famosa: All life is yoga (Tutta la vita è yoga).
Sempre dello stesso stile è la moneta celebrativa del 1999, dedicata a Chhatrapati Shivaji, un maharajà molto attivo nel combattere gli invasori moghul, che fu successivamente preso come esempio per il movimento indipendentista durante gli ultimi anni del dominio inglese.

Nel 2000 furono invece celebrati i 50 anni della Corte Suprema dell’India, il cui simbolo è il capitello d’Ashoka, che quindi risulta impresso su entrambi i lati della moneta; mentre nel 2003 furono celebrati i 150 delle ferrovie indiane, e sulla moneta è ritratta la mascotte Sholu, il Guardiano: un elefantino vestito da ferroviere con in mano una torcia, come quelle usate dai capistazione per le segnalazioni.

martedì 9 agosto 2016

Luoghi sacri buddisti, VI parte: Rajgir

Rajgir è una cittadina di circa 42 mila abitanti situata nella zona centro-meridionale dello stato indiano del Bihar.
Nonostante le attuali condizioni piuttosto arretrate, l’importanza di Rajgir come centro di pellegrinaggio buddista è notevole poiché qui il Buddha trascorse ben 12 anni e vi compì il noto miracolo dell’ammansimento dell’elefante impazzito attraverso la gentilezza.

Capitale dell’antico impero Magadh fino al V secolo a.C., quando la dinastia Shishunaga si spostò a Pataliputra (l’attuale Patna, capitale del Bihar), Rajgir mantenne una forte importanza religiosa per essere legata non solo al buddismo ma anche all’induismo ed al jainismo.
Secondo la mitologia indù, nell’area presso l’attuale Rajgir avvennero degli importanti episodi descritti nel poema epico Mahabharata, mentre per i jaina è nota per essere stata una delle località preferite dal fondatore della religione, Mahavira, che era solito trascorrervi i quattro lunghi mesi della stagione delle piogge; a questo bisogna aggiungere che Rajgir viene considerata il luogo di nascita del XII tirthankara (profeta) jaina Munisuvrata.
Il suo nome viene quindi citato in numerosi testi buddisti e jainisti, ma le poche notizie affidabili da un punto di vista storico-geografico provengono in realtà dai resoconti dei noti pellegrini cinesi Faxian e Xuanzang, che visitarono l’India rispettivamente nel V e nel VII secolo.
A causa del declino di queste due religioni soppiantate dall’induismo intorno all’VIII-IX secolo e successivamente dalle invasioni e domini mussulmani, Rajgir cadde nell’oblio, inghiottita dall’arretratezza della vasta e desolata campagna della pianura gangetica.

Nonostante questo, oggigiorno Rajgir ospita alcuni siti di notevole interesse ed è alquanto apprezzata turisticamente dalle persone benestanti dei dintorni, grazie ad un clima leggermente meno afoso, dovuto alle verdeggianti colline circostanti.
Tra le maggiori attrazioni vi sono: le terme, il cosiddetto Vulture’s Peak, le Grotte di Saptparni, le grotte di Sonbhadar e lo Shanti Stupa.

Le terme di Rajgir sono composte da alcune vasche d’acqua calda, ospitate in un complesso di edifici rosa chiamato Brahmakund, situato piacevolmente in mezzo agli alberi.
Purtroppo il continuo flusso di pellegrini ed abitanti locali rende il luogo piuttosto affollato e non sempre pulitissimo.

Vulture’s Peak è il nome dato ad una terrazza in pietra che ospita al centro le fondamenta di un’antica costruzione dello stesso materiale, dove il Buddha era solito meditare e spesso promulgare sermoni; in particolare qui il Buddha recitò l’importante Atanatiya Sutta
Sulla stessa collina si trovano le grotte di Saptparni, dove venne tenuto il Primo Concilio Buddista, dopo che il Buddha lasciò le sue spoglie mortali.
Attraverso delle lunghe fessure situate ai lati di un ampio sentiero, si può accedere ad un paio di grandi anfratti, dove comunque non sono conservate testimonianze artistiche del passato.

Le grotte di Sonbhandar sono ospitate in un semplice ma curato giardino, alla base di una collina, il cui sentiero centrale porta ad una parete di roccia dove si trova l’accesso di due caverne, le cui pareti sono adornate da alcuni dipinti e sculture jainiste, piuttosto ben conservate, tenendo presente che risalgono al III-IV secolo d.C..
Seppur non sia ben chiaro se ci sia un legame storico-artistico con le grotte di Satparni o altre caverne simili di religione buddista, le grotte di Sonbhandar sono state utilizzate da monaci jaina fino ai tempi della visita del viaggiatore cinese Xuanzang, intorno alla prima metà del VII secolo, il quale descrisse che erano abitate da monaci della setta jainista digambar (vestiti di cielo, cioè nudi), per praticare meditazione.
Prima di perdere ogni interesse religioso, pare che alcuni secoli dopo furono occupate da asceti indù e quindi convertite un’ultima volta.

L’escursione allo Shanti Stupa di Rajgir è particolarmente interessante per almeno due buoni motivi, seppur nessuno dei due religioso o artistico, e neppure storico, visto che la storia che li riguarda è piuttosto moderna.
Lo Shanti Stupa infatti venne costruito nel non lontano 1969 da parte di Nichidatsu Fujii, un monaco buddista giapponese, fondatore dell’ordine Nipponzan-Myohoji, il quale, per promulgare la non-violenza, ispiratagli da un incontro personale con Gandhi nel 1931, dal 1947 iniziò a costruire degli stupa della pace (da cui il nome originale dal sanscrito shanti, appunto pace) in giro per il mondo.
Anche l’Italia può vantare la presenza di uno di questi stupa, inaugurato nel 1998, su di una collina appena fuori l’abitato del comune siciliano di Comiso.
Seppur lo stile possa anche variare, la maggior parte degli Shanti Stupa hanno la classica forma semi-sferica circolare, sono colorati di bianco e si trovano in posizione panoramica in cima a colline.
Artisticamente, anche a causa della semplice struttura tipica, questi stupa non hanno molto da offrire, a parte le statue che sono ospitate nelle nicchie posizionate presso i quattro punti cardinali, e spesso tendono ad assomigliarsi.
Come già accennato, gli Shanti Stupa comunque si trovano di solito in ambienti tranquilli con una pacifica atmosfera, molto lontano, ad esempio, dal caos delle strade delle città indiane.
In più, lo stupa della pace di Rajgir, può essere raggiunto con una semplice ma funzionale, nonché economica e panoramica, seggiovia, rendendo la salita particolarmente comoda.

Anche perché, una delle caratteristiche più piacevolmente esotiche di Rajgir è l’abbondare di colorati tonga, dei carretti trainati da cavalli, tipici delle campagne indiane, che trasportano i visitatori nei più interessanti luoghi turistici della zona.

Di certo si tratta di mezzi di trasporto meno inquinanti di qualunque veicolo a motore (soprattutto quelli indiani solitamente disastrati), e le condizioni generali degli animali sono discrete, ma sono decisamente scomodi ed i pochi chilometri che separano il centro di Rajgir con la base della collina che ospita lo Shanti Stupa, possono sembrare infiniti.