Castagna d’acqua è il nome dato alle
piante ed al frutto del genere trapa, del quale fanno parte tre specie,
la trapa natans, la trapa bicornis e la trapa rossica.
Il nome deriva da calcitrapa, o piede di
corvo, un’arma da guerra nota già ai romani, costituita da una specie di chiodo
metallico a quattro punte, che vengono lanciati sul terreno per fermare le
avanzate nemiche.
Il frutto castagna d’acqua infatti si
presenta con una spessa buccia impermeabile, munita di 2 o 4 spine, che
ricordano il piede di corvo, dentro al quale si trova un seme bianco a forma di
cuore.
Originario di climi temperati di Africa
ed Eurasia, il genera trapa è conosciuto dall’uomo fin dall’antichità,
tanto che in India e Cina pare essere coltivato da più di tremila anni.
La diffusione globale è favorita dal
fatto che essendo una pianta galleggiante annuale non ha bisogno di particolari
requisiti climatico-ambientali, se non temperature miti ed acque lente con una
profondità massima di 5 metri.
Ancorata al fondo da sottili radici, in
superficie produce delle foglie gallegianti dai bordi seghettati a forma
ovoidale o triangolare e dei fiori bianchi formati da quattro petali, mentre i
semi-frutti nascono attaccatti a stemmi indipendenti.
Nelle Americhe ed in Oceania è
considerata una pianta altamente infestante mentre in Europa l’ampia diffusione
raggiunta nel medioevo è scemata fino ad essere considerata, al giorno d’oggi,
piuttosto rara.
In Italia sono due le aree dove è
presente la castagna d’acqua, del genere trapa natans: nella parte
nordoccidentale del Lago Maggiore, in provincia di Verbania, si trova la
sottospecie endemica trapa natans verbanesis, dalle caratteristiche 2
spine invece di 4; nei laghi del mantovano viene invece coltivata la specie più
comune.
In Europa viene storicamente consumata
arrostita, come le normali castagne, oppure fresca, mentre in India è consumata
fresca, cucinata in speziati curry o appena saltata nell’olio, e sotto forma di
farina.
Grazie al fatto di essere una pianta,
per di più acquatica, nella gerarchica psicologia induista essa occupa un alto
gradino nella scala degli alimenti più puri ed il suo consumo è consentito
anche durante i giorni di digiuno, che nelle feste di Navratri, ad esempio, possono
essere anche una decina.
In questi periodi in particolare viene
usata la farina di singhara (nome hindi della trapa) per produrre del
semplice pane.
In genere nei mercati indiani la specie
più comune è di colore viola o verde scuro-nero di medio-grandi dimensioni, oppure
completamente nere, di dimensioni minori.
Le seconde risultano essere meno
saporite e meno dolci, quindi spesso vengono consumate accompagnate da sale e kala
namak (il sale nero-viola-rosa di sapore sulfureo tipico indiano).
Grazie alle dimensioni ridotte sono
anche preferibili per essere soffritte in padella.
In generale, il gusto leggermente dolce
e floreale è piuttosto piacevole, seppur spesso se ne trovino di praticamente insapore
e con la consistenza eccessivamente stopposa.
Purtroppo, a causa della spessa buccia
che le rende tutte molto simili, non c’è modo di distinguere quelle più
saporite dalle altre ed anche le dimensioni possono essere fuorvianti poiché
quelle più piccole, che sarebbe logico desumere essere ancora giovani quindi più
dolci, spesso non sanno di nulla o sono acidognole, come accade altrettanto
sovente che quelle più grandi, che ci si aspetterebbe essere più farinose,
siano molto gustose.
Per finire una breve parentesi sulle
spine.
La specie indiana dovrebbe essere quella
che ne possiede 4, ma della sottospecie che ne possiede 2, e comunque, ad un’attenta
osservazione, esse sono effettivamente 3...
Soprattutto quelle più grandi,
presentano una piccola spina, leggermente nascosta, al centro della punta
piatta, alla quale comunque bisogna stare ben attenti quando si cerca di aprire
avidamente la spessa buccia.
Inutile dire che un sacchetto di singara,
come i mediterranei carciofi, può essere utilizzato con ottimi risultati come
minaccia per farsi largo tra la folla dei mercati.
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