La legislazione indiana in materia di produzione,
distribuzione, vendita e consumo di bevande alcoliche, risulta essere piuttosto
complessa, a causa dell’attiva presenza di numerose religioni, che spesso hanno
un differente approccio, per cui i singoli stati godono di una certa autonomia
e le leggi possono variare notevolmente.
In generale produzione e distribuzione
sono regolate da leggi del governo centrale, mentre vendita e consumo sono
lasciate alla discrezioni dei singoli stati, a parte il fatto che in tutta
l’India è illegale bere in pubblico al di fuori dei luoghi autorizzati (quindi
camminare per strada bevendo una birra, anche nei posti più permissivi,
potrebbe creare grossi problemi).
Partendo dai luoghi dove la
legislazione in materia è più rigida, lo stato del Guajarat, assieme a Manipur,
Mizoram e Nagaland (tre piccoli stati del nord-est) e al Territorio delle
Laccadive (piccolo arcipelago dell’oceano indiano) sono considerati “dry”
(asciutti), cioè la vendita e il consumo di alcohol è illegale.
In Gujarat questo divieto vige dal
1960 quando lo stato di Bombay venne diviso in Maharashtra e appunto Gujarat;
il motivo è per rispettare la terra natale del Mahatma Gandhi.
Come prevedibile, questa eccessiva
ristrettezza favorisce un discreto sviluppo del mercato nero, dove purtroppo
sono presenti numerose preparazioni altamente pericolose, come successo nel 2009
quando morirono 136 persone a causa di un distillato allungato con il metanolo.
Nei tre stati nordorientali i divieti
sono più recenti e l’effettivo bando non troppo rigido, visto che pare venga
concessa qualche esenzione ad alcune bevande locali tradizionali, come il vino
di guava.
Esistono poi numerosi luoghi sacri
indù in cui vige il divieto di vendere e consumare alcohol, seppur in realtà
siano i costumi religiosi, piuttosto che le norme giuridiche, a far rispettare
tali leggi.
Nello stato dell’Uttaranchal, che
occupa colline e montagne di particolare importanza religiosa, sono molti i
luoghi sacri che seguono questa norma: piuttosto nota è l’assenza di negozi di
alcolici nella sacra e turistica Rishikesh, con la rivendita più vicina situata
abbastanza scomodamente a circa 15 chilometri di distanza.
Anche la sacra cittadina di Pushkar,
in Rajasthan, segue questa norma, seppur in maniera meno rigida: almeno uno dei
vari ristorantini turistici sui tetti propone qualche birra, ma è anche
presente una piccola rivendita sulla strada che porta verso i campi,
probabilmente considerata appena fuori il confine sacro della città.
Nello stato dell’Uttar Pradesh, dove
si trovano molte città sacre, le leggi sono piuttosto restrittive, per esempio
sono vietati i negozi di alcolici a meno di duecento metri da luoghi di culto e
istituti scolastici, ma soprattutto è la mentalità locale, decisamente conservatrice
e contraria all’alcohol, che ne limita la diffusione.
In realtà il consumo di bevande
alcoliche è in continua crescita, rendendo quello della vendita un ottimo
business, ma ottenere una licenza e aprire un negozio non è per niente facile,
anche a causa del fatto che il mercato è completamente nelle mani della ricca e
potente mafia locale.
Altri stati, come ad esempio Madhya
Pradesh, Rajasthan, Maharashtra e Karnataka, dove l’influenza religiosa è
minore, hanno legislazioni leggermente più tolleranti, seppur sia noto come
perfino a Mumbai e Bangalore i buoni locali dove bere alla sera sono piuttosto
pochi.
Ancora più permessivi sono invece gli
stati del Punjab, dell’Haryana, il territorio di Delhi e il Bengala
Occidentale.
In Punjab e Haryana questo è dovuto
alla religione sikh che non ha nessun pregiudizio di sorta contro il consumo
delle bevande alcoliche, come avviene anche a Calcutta grazie a una discreta diffusione
del cristianesimo.
Le rivendite di alcohol sono quindi
numerose e ben fornite (almeno secondo gli standard indiani), come anche sono
numerosi i bar-restaurant.
A Delhi, invece, la situazione è
alquanto complessa in quanto capitale e crocevia di ogni cultura indiana: da un
lato sembra più interessata all’aspetto economico della questione, piuttosto
che quello religioso, quindi per quanto riguarda la vendita sono molto diffusi
sia i negozi che i bar-restaurant; dall’altro, come vedremo più avanti,
esistono invece rigide norme sul consumo.
Nel Bengala delle campagne, la
tolleranza è data dal fatto che la divinità principale di quest’area è Kali, alla
quale l’alcohol viene spesso offerto anche durante i rituali, a cui va aggiunto
che in alcuni manuali tantrici le bevande alcoliche, grazie al loro potere di
trasmettere la conoscenza spirituale, sono considerate nientemeno che la
divinità Kali-Tara sotto forma liquida.
Anche gli stati montani come
l’Himachal Pradesh, il Ladhak e il Sikkim, sono piuttosto tolleranti, in questo
caso grazie alla tradizione buddista (nonché al clima rigido), seppur in alcuni
paesi l’eccessiva disinvoltura stia iniziando a creare qualche problema.
Infine, gli stati più permissivi sono
i piccoli staterelli dove la dominazione straniera si è conservata più a lungo
e sono rimasti, almeno dal punto di vista dell’alcohol, delle piccole enclavi
“libertine”.
Goa è famosa per i bar sulle spiagge
dove bere birra fresca o il locale fenny
(un distillato ottenuto dalla noce di cocco o dagli anacardi), come accade
anche nel meno noto stato di Daman e Diu (composto dalla città di Daman e
l’isola di Diu, entrambi in Gujarat), mentre a sud invece vi è lo stato di
Pondicherry, a lungo sotto il dominio francese.
A tutto questo vanno aggiunti altri
due fattori caratteristici indiani che possono aiutare a farsi un’idea della complessa
mentalità sull’argomento.
Il primo riguarda le leggi sull’età
minima consentita per il consumo di alcohol, che variano decisamente da stato a
stato.
In 6 stati è fissata ai 18 anni, ma
nella maggior parte dei casi (10) è a 21 anni e in 5 stati a ben 25, a cui va
aggiunto il Maharashtra, lo stato della “moderna” Mumbai, dove viene fatta una
distinzione tra birra (21 anni) e superalcolici (25 anni).
La seconda caratteristica è la
presenza di giorni “dry”, in cui è vietata la vendita, che possono essere sia
festività laiche (le celebrazioni dell’Indipendenza, della Repubblica e il
compleanno di Gandhi), che religiose (Holy, Shivaratri, Durga Pooja e Diwali),
a cui vanno aggiunti i giorni dedicati alle elezioni.
Il motivo è prevenire disordini ma
anche in questo caso la differenza tra i vari stati è considerevole.
Per esempio a Delhi (dove già l’età
minima è inspiegabilmente alta, 25 anni) sono numerosissimi i giorni “dry”, a
causa del fatto che, essendo la capitale, deve in qualche modo rispettare tutte
le tradizioni del paese; ad esempio sono giorni “dry” le date di nascita dei
fondatori delle maggiori religione indiane: Krishna per i vishnuiti, Guru Nanak
per i sikh, Buddha per i buddisti e Mahavir per i jaina
Per i cristiani invece il giorno “dry”
è Venerdì Santo, mentre per i mussulmani vengono riservati i giorni di Id (sia
Id ul-Fitr sia Id al-adha) e il Muharram.
Ma cosa di beve in India? O meglio
ancora, cosa bevono gli indiani?
Come accade per tutti i prodotti, le
importazioni dall’estero sono pochissime, poiché oberate da elevate tasse,
quindi bisogna affidarsi ai prodotti locali.
Partendo dai liquori meno costosi,
consumati prevalentemente da lavoratori manuali, sul mercato (per l’esattezza
in negozi governativi simili a topaie) vengono venduti alcuni distillati locali
di rosa, arancia o limone, a prezzi decisamente bassi.
Il gusto è a dir poco disgustoso e
seppur possano essere considerati dei veri e propri brucia-budella, il fatto
che siano prodotti dal governo fa sì che almeno siano sicuri e non siano
allungati col metanolo o altre sostanze che spesso in India causano delle
stragi.
I liquori “stranieri”, cioé whisky, rhum,
vodka e gin, si vendono presso negozi leggermente più decorosi, dove è
possibile acquistare bottiglie “da un quarto” (180 ml), “da mezzo” (365ml), o
“full” (750ml) di alcolici di varia
qualità.
Il whisky è sicuramente la bevanda più
apprezzata e ne esistono numerose marche: il famoso Bagpiper deve il suo
successo più che al leggero e poco gradevole gusto, al suggestivo nome
(suonatore di cornamusa) e al modesto prezzo di circa un euro e mezzo a bottiglietta.
Spendendo qualche soldo in più, con poco
più di due euro si può iniziare a bere un whisky decente e senza dover temere
bruciori di stomaco: Royal Challenge e Signature iniziano ad essere bevibili,
mentre con un ulteriore sforzo economico si potrebbe provare il discreto
Blender’s Pride.
Prezzi e qualità quindi salgono fino
ad arrivare a whisky “pregiati”, come il famoso Black Dog, che però a causa
dell’altissimo prezzo tendono a rimanere a lungo sugli scaffali dei negozi.
Gli altri alcolici, quali rum, vodka e
gin, sono invece presenti di solito con sole 2-3 marche, quindi la scelta è
piuttosto ristretta.
Le persone più moderne, con qualche
soldo da spendere (e forse anche meno alcolizzate) tendono invece a consumare
birra, seppur la qualità sia in genere piuttosto bassa e le produzioni cambino
notevolmente da stato a stato, per cui una birra che può essere bevibile in
Punjab, in Uttar Pradesh potrebbe essere disgustosa.
A questo vanno aggiunti i problemi nel
consumarla a temperature accettabili, visto che la birra andrebbe consumata
fredda, cosa che a causa del clima e dei tagli di corrente in India non è
sempre possibile.
Per quanto riguarda il vino, Re delle
bevande alcoliche, la produzione indiana sta iniziando ad affacciarsi sul
mercato con prodotti interessanti, provenienti dalla storica area di Nashik in
Maharashtra.
Certo la qualità non può competere con
i prodotti europei, ma è possibile bere del Cabernet, del Merlot o dello Shiraz
che potrebbero accompagnare degnamente gli speziati piatti indiani, spendendo
la cifra ragionevole di circa 7-8 euro a bottiglia.
Il problema più grande è la
reperibilità del prodotto, visto che il consumo del vino in India è ancora
raro, e solo nelle grandi città è possibile trovare qualche bottiglia;
generalmente della marca Sula, una delle più presenti sul mercato.
Venendo invece alle bevande
tradizionali, che, nonostante le restrizioni culturali, data l’estensione e la
diversità del territorio, sono abbastanza numerose, la miglior bevanda alcolica
è sicuramente il vino di palma, chiamato toddy in inglese, kallu
al sud e tari al nord.
Il sistema di raccolta è
particolarmente semplice, visto che consiste semplicemente nel praticare
un’incisione vicino ai fiori delle palme e legando una piccola giara di
terracotta sotto al taglio, lasciandovi gocciolare il liquido all’nterno.
Appena raccolto, in genere alla
mattina presto, il liquido iniza a fermentare e già dopo un paio d’ore
raggiunge una gradazione alcolica intorno ai 4-5 gradi, con un gusto “piantoso”
molto fresco e un vago senso di effervescenza.
La gradazione aumenterà fino a sera,
diventando via-via sempre più forte, come anche il gusto, ma un’eccessiva
fermentazione, lasciandolo a riposare per la notte, trasformerà invece il
gustoso vino in aceto.
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