L’hindi moderna fa parte della
famiglia linguistica indo-ariana ed è riconosciuta come la lingua ufficiale del
governo indiano, insieme all’inglese.
Storicamente è un’evoluzione del khariboli,
un dialetto della zona di Delhi, a sua volta derivante dall’hindustani,
la lingua sviluppattasi in India durante la dominazione mussulmana.
L’hindi utilizza i caratteri devanagari,
la tipica scrittura indiana in cui le lettere sembrano “appese” ad una linea
orizzontale, e viene utilizzata, oltre che per l’hindi, anche per nepali, marathi
e sanscrito, l’antica lingua dalla quale si sono formati molti idiomi indiani.
Una delle caratteristiche principali
dell’alfabeto devanagari è la presenza di una cosiddetta vocale inerente (una A
breve) a seguire ogni consonante, tanto che bisognerebbe propriamente parlare
di abugida, o alfasillabario, che si distingue dai normali alfabeti proprio
perché i simboli non rappresentano un’unica lettera, bensì una sillaba.
Il numero totale delle lettere è 44
diviso in 11 vocali e 33 consonanti, suddivise a loro volta in un gruppo di 25,
più 4 semi-vocali, 3 sibilanti e 1 aspirata.
L’elevato numero di vocali è dovuto al
fatto che A, I e U sono distinte in brevi e lunghe, mentre E e O in chiuse o
aperte; la tredicesima vocale è una rara lettera derivante dal sanscrito, che
rappresenta il suono RI e che in realtà è la settima lettera visto che si
posiziona tra la U e la E.
Anche il primo gruppo di 25 consonanti
è composto da lettere che possiedono una forma “doppia”, l’aspirata, sicché per
esempio la prima consonante, la C dura (traslata in K), prevede la forma
aspirata CH (KH) e così via.
Molto interressante è la sequenza di
queste consonanti che segue principi fonetici basati sul modo e sul luogo in
cui le lettere vengono pronunciate: partendo dal fondo della gola con le
gutturali (C o K e G dura), le palatali (C o K e G morbide), le retroflesse (T
e D pronunciate retroflettendo la punta della lingua all’indietro come
nell’inglese train), le dentali (T e D) e infine le labiali (P e B).
Per ognuna delle 5 posizioni esistono
delle nasalizzazioni, vari tipi di N, anch’esse prodotte in diverse zone della
bocca, seppur per fortuna sono poche quelle usate comunemente; curiosa è la
nasalizzazione delle labiali che produce la lettera M.
Un’ultima caratteristica da segnalare
è la presenza di ben 3 S, la prima molto simile a quella sorda italiana, le
altre due invece rappresentano il suo SC, di sciare, e seppur propriamente
siano diverse, la pronuncia è così simile che le rende pressoché
indistinguibili.
Venendo invece all’aspetto sintattico,
il periodo hindi prevede di posizionare il verbo in fondo alla frase, come nel
latino, dando quindi alla lingua un vago senso di pomposità che obbliga
l’ascoltatore ad aspettare la fine del periodo per capirne il significato; o,
al contrario, creare un senso quasi retorico quando l’uso del verbo finale è scontato.
Nel linguaggio parlato bisogna notare
la presenza di ben 4 forme di dialogo: oltre al “tu” e al “Lei”, esistono
infatti un “tu” dispregiativo, e un “Lei” ulteriormente onorifico, vagamente
simile all’ormai desueto italiano “Voi”.
Un’interessante osservazione che ne deriva
è come la versione più bassa prevede l’utilizzo del minor numero di lettere
(per esempio il dispregiativo tu vai, o vattene, tu ja), la forma confidenziale
un numero leggermente maggiore (tum jao), il “Lei” comune un ulteriore
sforzo (Lei vada, ap jaye), infine la più lunga forma onorifica (Lei vada,
ap jayega), quasi a dimostrare il rispetto anche attraverso lo sforzo
fisico stesso di chi parla.
Esistono inoltre alcuni altri fenomeni
peculiari della lingua hindi, che risultano essere chiaramente il frutto
dell’altrettanto peculiare cultura indiana e ne rispecchiano quindi le
caratteristiche.
Il più evidente è sicuramente
l’assenza del verbo avere, che probabilmente deriva dall’umiltà verso Dio
insegnata da tutti i più importanti testi sacri, per cui invece del “volgare”
avere, si utilizza il verbo essere, cambiando il soggetto in un complemento di
termine ed il complemento oggetto nel soggetto, quindi: Luigi ha una macchina,
si esprime dicendo che A Luigi è una macchina.
Analogo discorso viene fatto anche per
il verbo conoscere, o sapere, in particolare quando si riferisce ad una lingua,
che viene sostituito con il verbo arrivare, e cambiando di nuovo il soggetto in
un complemento di termine e il complemento oggetto in soggetto, per cui invece
di dire: Luigi sà l’hindi, bisognerebbe dire A Luigi l’hindi è arrivata.
(Questo tra l’altro ricorda molto un
proverbiale aforisma attribuito al Buddha, di nascita un principe indiano, secondo
cui “L’avere una buona cultura ed essere istruiti è semplicemente fortuna”.)
Un’altra particolare caratteristica
dell’hindi è l’utilizzo dello stesso termine, kal, per dire sia ieri che
domani, nonché una parola, parsó, per dire sia l’altroieri che dopodomani.
Sebbene questo non crei a livello
pratico quasi nessun tipo di incomprensione, in quanto il contesto e il tempo
del verbo usato sono in genere sufficienti per capire di quale si tratti,
sembra però in qualche modo riflettere
la vaga, personale e spesso ambigua concezione del tempo degli indiani; e allo
stesso tempo una specie di disinteresse nella reale differenza tra ieri e
domani
A causa di evidenti distanze
geografiche e culturali, le similitudini tra la lingua italiana e l’hindi sono
rarissime e occasionali: unica eccezione sono i numeri fino a dieci, piuttosto
simili grazie all’antichissima origine comune ariana, soprattutto 7, 8, 9 e 10
che si dicono sat, at, no e das.
Tra i rari vocaboli italiani derivanti
dall’hindi, uno è il termine shampoo che deriva dal verbo hindi champna,
schiacciare, anche se non è chiaro se lo schiacciamento a cui si riferisce è
quello dei capelli durante il lavaggio, oppure quello degli ingredienti che
costituiscono il prodotto, storicamente in India sotto forma di polvere.
Un altro vocabolo d’uso comune
derivante dall’hindi è giungla, attraverso l’inglese jungle e dall’hindi
jangal, seppur il significato originale non era quello inglese e
italiano di foresta monsonica (e per esteso di foresta tropicale), bensì di
regione desertica, cioè disabitata, come infatti erano, e in parte sono tuttora,
le foreste indiane.
Infine, nel campo dell’abbigliamento,
vi sono due termini italiani piuttosto comuni che hanno origine hindi e sono
pigiama, da pajama, nome dei caratteristici pantaloni indiani da uomo, e
bandana, da bandhna, verbo che significa legare, raccogliere, in questo
caso i capelli.
Grazie al fatto che, seppur
involontariamente, l’Italia tra tanti misfatti almeno non si sia macchiata di aver
colonizzato altri paesi (escludendo chiaramente la figuraccia nel Corno
d’Africa), e men che meno la lontanissima India, sono pressoché nulli i termini
che invece hanno viaggiato in senso opposto.
Curiosamente la parola camera, o
stanza, ha un suono affine all’italiano, camrà, data l’origine
portoghese del vocabolo hindi.
Le uniche due parole italiane che si
posssono sentire ogni tanto pronunciare dagli indiani, specie se benestanti, sono
pasta e pizza, con la seconda che richiede agli inesperti uno sforzo notevole
per pronunciare la doppia zeta, visto che in hindi la zeta non esiste.
Alcuni termini derivanti dall’arabo e
dal persiano hanno suoni simili alla zeta ma vengono resi con una specie di G morbida
molto marcata, ma che inserita tra PI e A, dà come risultato PIGGIA, suono ben
diverso da quello della parola pizza.
Nessun commento:
Posta un commento