martedì 12 aprile 2016

Musica classica indostana, strumenti a fiato, percussioni e canto

A Lady Playing the Tanpura, ca. 1735.jpgPassando agli strumenti a fiato della musica classica indostana, il principale è sicuramente il bansuri, un semplice flauto traverso di bambù.
Dotato di 6 o 7 fori, ha una lunghezza variabile da un minimo di circa 30 centimetri ad un massimo di circa 1 metro, seppur la misura più comune nella musica classica indiana si aggiri intorno ai 40-50 centimetri.
La lunghezza chiaramente incide sui toni, in quelli più lunghi risultano decisamente bassi, ma è caratteristica nota dei bansuri, rispetto ai flauti occidentali, di possedere un suono molto profondo.

Al contrario, lo shehnai, simile ad un piccolo oboe, possiede un caratteristico suono acuto e penetrante.
Oggigiorno il suo utilizzo nella musica classica indostana è piuttosto raro, mentre viene utilizzato ampiamente per accompagnare processioni religiose e nuziali, grazie al suo potente suono adatto ai luoghi aperti e ritenuto ben augurante.
È costituito da un corpo di legno, dove sono presenti dai 6 ai 9 buchi, mentre la “campana” terminale dalla quale esce il suono è in metallo.

Venendo agli strumenti indiani a percussione, il più importante sono sicuramente le note tabla, che essendo composte da due tamburi di diverse dimensioni permettono una notevole gamma di suoni.
Le pelli sono legate al fondo del tamburo grazie a legacci che passano sopra a cilindretti di legno, muovendo i quali è possibile regolare la tensione della pelle e quindi il suono.
Sulla pelle si trovano due cerchi, di colore nero, composti da una pasta di manganese, riso bollito e tamarindo, che servono per modulare il suono e dare maggiore armonicità.
Il materiale del corpo è il legno ma esistono anche tabla di terracotta.
Quello più grande, di sonorità bassa, viene suonato di solito con la mano destra, mentre quello più piccolo di sonorità alte con la sinistra.
Entrambi vengono utilizzati posandoli per terra su dei caratteristici cuscini a forma di ciambella.

Tra gli altri strumenti a percussione, merita una citazione il pakhawaj, un grande tamburo suonato orizzontalmente da entrambi i lati.
Il pakhawaj è considerato una variante e un discendente del mridangam, probabilmente il più antico strumento a percussione dell’India, seppur le differenze nella forma e nel suono siano quasi impercettibili.
L’unica distinzione abbastanza precisa che si può fare tra questi due strumenti è che il pakhawaj viene usato prevalentemente nella musica indostana del nord mentre il mridangam nella musica carnatica del sud.
Come le tabla, anche loro hanno un cerchio nero sulla pelle per modulare il suono.
Secondo la leggenda, un pakhawaj, o un mridangam, rotto in due suggerrì l’idea delle tabla.

L’armonio, strumento a tastiera che ricorda un pianoforte semplificato, fu introdotto in India dai missionari cristiani nella metà dell’ottocento e riadattandone alcune caratteristiche fu presto introdotto nella musica indiana.
L’armonio indiano è molto più piccolo di quello occidentale, quindi facilmente trasportabile, poiché l’emissione dell’aria non viene regolata tramite dei pedali, bensì da un sistema simile alla fisarmonica.
Il motivo del suo notevole successo anche nella musica classica indostana è dovuto a due fattori: primo la capacità di poter emettere vari tipi di bordoni (accompagnamenti in cui una nota o un accordo sono suonati in modo continuo, diffusissimi nella musica indiana), molto utili soprattutto nell’accompagnamento del canto.
Il secondo motivo è la relativa semplicità d’esecuzione dell’armonio, soprattutto confrontandolo allo strumento che prima di lui assolveva la funzione di accompagnare la voce umana, cioè il complicato sarangi (http://informazioniindiaenepal.blogspot.com/2016/04/musica-classica-indostana-strumenti.html).
Essendo basato su concetti musicali occidentali fondati sugli accordi e la modulazione delle tonalità, l’armonio risulta essere uno strumento più pratico di quelli tradizionali indiani a cambiare tonalità, qualità molto importante per accompagnare i brani vocali che tendono a mutare il tono secondo la voce del cantante.
I suonatori di sarangi, invece, devono riaccordare lo strumento e in alcuni casi addirittura cambiare corde, rendendo le operazioni lunghe e laboriose.
I cantanti iniziarono quindi a preferire l’accompagnamento del semplice armonio che, seppur sia in parte stonato nella musica indiana, proprio perché basato su concetti musicali differenti, risulta sempre migliore di quello fornito da un sarangista non espertissimo.

Il genere di canto della musica classica indostana più diffuso al giorno d’oggi è il khyal che ha soppiantato il più antico dhrupad.
Sviluppatosi probabilmente dalla musica mussulmana qawwali, il khyal si basa sui raga, come il dhrupad, ma in una forma libera e flessibile che lascia ampio spazio all’improvvisazione.
I testi delle canzoni sono piuttosto brevi, da 2 a 8 righe, di solito in lingua urdu-hindi, e per rendere una performance standard di circa mezz’ora, il cantante, oltre che ripetere più volte il testo, improvvisa: cambiando la melodia delle parole, usando le sillabe più presenti nella canzone per inventare termini musicabili, cantando semplicemente la scala delle note indiane (sa, re, ga, ma, pa, dha, ni) sul tema musicale della canzone, o ancora inserendo frasi basate solo su una vocale, di solito la “a”.

Il genere dhrupad, invece, prevede una maggior improvvisazione all’inizio, la sezione chiamata alap, basata su varie combinazioni di determinate sillabe, ma poi procede in maniera più rigida e seriosa.
I testi sono di solito di 4 righe e vengono ripetuti più volte dal cantante.
Ciò che accomuna i due generi khyal e dhrupad sono i temi ricorrenti: religiosi, con descrizioni di divinità o la devozione verso Dio; elogiativi, nei confronti dei regnanti presso le cui corti venivano composti; oppure romantici.

Per finire, citiamo i migliori rappresentanti degli strumenti descritti, per chi volesse ascoltare qualche esempio di ottima qualità.
Riguardo il sitar l’esponente più famoso e chiaramente uno dei più bravi è sicuramente Ravi Shankar, ma sono ottime anche le registrazioni del bengalese Nihil Banerjee.
I migliori esponenti della veena sono considerati Zia Mohiuddin Dagar e Asad Ali Khan; mentre per il sarod Allauddin Khan e Radhika Mohan Mishra.
Per il sarangi Ustad Sultan Khan e Ustad Sabri; mentre per il santoor sicuramente il noto Shivkumar Sharma.
Tra gli strumenti a fiato, per il bansuri scontato citare il notissimo Hariprasad Chaurasia, e per lo shennai il maestro Bismillah Khan, deceduto pochi anni fa.
Per le percussioni, alle tabla Zakir Hussein è sicuramente uno dei più famosi, mentre per il pakhawaj citiamo una donna, Chitrangana Agale-Reswal; per il mridangam in genere si nomina una triade della musica carnatica, composta da Palani Subramaniam Pillai, Palghat T.S. Mani Iyer e Ramanathapuram C.S. Murugabhoopathy
Uno dei maggiori esponenti dell’armonio indiano fu Pandit R.K. Bijapure, ma è più facile trovare registrazioni del contemporaneo Kedar Naphade.
Per i generi vocali citiamo il famossimo Bhimsen Joshi per il dhrupad, e il non meno noto Pandit Jasraj per il genere khyal.

Performance di questi artisti sono facilmente reperibili su youtube.

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