giovedì 6 luglio 2017

Breve cenno al poema epico Mahabharata

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I Pandava a sinistra ed i Kaurava a destra, schierati sul campo di battaglia di Krukshetra
Il Mahabharata è, insieme con il Ramayana, uno dei due antichi poemi epici più importanti per l’induismo.
Come il Ramayana tratta le vicende del dio Rama (settima incarnazione di Vishnu), il Mahabharata descrive la vita di Krishna (ottava incarazione di Vishnu), in particolare gli avvenimenti legati alla diatriba all’interno della dinastia Bharata tra i principi Pandava ed i loro cugini Kaurava.

Con un corpo di ben 100 mila distici, quindi 200 mila versi, il Mahabharata viene viene considerato la più lunga opera letteraria al mondo, che corrisponde all’incirca a dieci volte la lunghezza dell’Iliade e dell’Odissea messe insieme.
Nonostante la tradizione veda nel mitico santo Vyasa l’autore di tutto il testo, si tratta invece di una versione amplificata nell’arco dei secoli, da numerosi scittori, di un testo precedente chiamato Jaya (Vittoria), composto attorno al IV secolo a.C. da circa 8.000 versi.
Successivamente venne riconosciuta una versione “intermedia” chiamata Bharata (Storia della dinastia Bharata) che raggiungeva più o meno i 24 mila versi, quindi si arrivò alla versione definitiva Mahabharata (La grade storia dei Bharata), completata attorno al IV secolo d.C..

Dal punto di vista prettamente letterario, il Mahabharata è un’opera piuttosto caotica e confusa, sia per quanto riguarda i contenuti che lo stile.
A causa delle continue aggiunte e delle numerosissime digressioni la trama risulta essere ben poco lineare, mentre lo stile risente dell’influenza dei vari autori che hanno composto l’opera, usando comunque sempre un linguaggio piuttosto aulico e pomposo.
Anche storicamente il Mahabharata risulta essere ben poco affidabile, descrivendo avvenimenti talmente antichi che raramente possono essere confermati da altri testi.
A questo bisogna aggiungere, come previdibile ed in parte giustificabile, la visione romanzata degli eventi; recentemente gli studiosi stanno mettendo in dubbio addirittura la Battaglia di Kurukshetra, lo scontro finale tra i due rami della dinastia Bharata.
Le stime sugli eserciti impegnati che si possono trovare nel Mahabharata sono chiaramente esagerate, ma è pur vero che molto probabilmente si trattò di una delle prime guerre del subcontinente indiano (in particolare la regione tra i fiumi Gange e Yamuna) dove non si affrontarono due soli eserciti, bensì due coalizioni di più regni.

Se letterariamente e storicamente il Mahabharata presenta alcune gravi lacune, i campi dove eccelle sono quelo religioso, culturale e spirituale.
Non è un’esagerazione affermare che non esista divinità, personaggio, luogo e avvenimento mitologico indù, per quanto secondario e misconosciuto, che non sia trattato nel Mahabharata.
L’eccessiva vastità, che come abbiamo visto è più un limite che un beneficio dal punto di vista prettamente letterario, diventa invece il punto di forza dal punto di vista culturale.
Spiritualmente infine, il Mahabharata espone alcuni dei concetti più importanti dell’induismo come il dharma, l’etica, la moksha, liberazione, e soprattutto il karma, l’azione.
In particolare la sezione chiamata Bhagavadgita, nel sesto dei 18 capitoli in cui è suddivisa l’opera, descrive in maniera molto semplice e chiara quelli che sono i principi di una vita giusta secondo l’etica indù.
Il principe Arjuna, terzo dei cinque fratelli Pandava, trovandosi sul campo della Battaglia di Kurukshetra con gli eserciti schierati pronti ad iniziare la guerra, viene preso da un grande senso di rimorso a combattere contro i suoi stessi cugini e sembra quasi intenzionato ad abbandonare la lotta.
In suo soccorso venne Krishna, che in quel momento aveva preso le sembianze del cocchiero di Arjuna, il quale gli spiega che quello è il suo karma (che in questo caso potremmo tradurre con dovere), contro il quale non può fare nulla: i cugini Kaurava vogliono usurpare il trono e come comandante dell’esercito è compito di Arjuna fermarli.

L’unico modo per non essere influenzato dalle azioni che compirà è non identificarsi con queste, senza sviluppare attaccamento verso di esse e soprattutto senza aspettarsi nessun frutto o vantaggio.

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