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I Pandava a sinistra ed i Kaurava a destra, schierati sul campo di battaglia di Krukshetra |
Il
Mahabharata è, insieme con il Ramayana, uno dei due antichi poemi epici più
importanti per l’induismo.
Come
il Ramayana tratta le vicende del dio Rama (settima incarnazione di Vishnu), il
Mahabharata descrive la vita di Krishna (ottava incarazione di Vishnu), in
particolare gli avvenimenti legati alla diatriba all’interno della dinastia
Bharata tra i principi Pandava ed i loro cugini Kaurava.
Con
un corpo di ben 100 mila distici, quindi 200 mila versi, il Mahabharata viene
viene considerato la più lunga opera letteraria al mondo, che corrisponde all’incirca
a dieci volte la lunghezza dell’Iliade e dell’Odissea messe insieme.
Nonostante
la tradizione veda nel mitico santo Vyasa l’autore di tutto il testo, si tratta
invece di una versione amplificata nell’arco dei secoli, da numerosi scittori,
di un testo precedente chiamato Jaya (Vittoria), composto attorno al IV secolo
a.C. da circa 8.000 versi.
Successivamente
venne riconosciuta una versione “intermedia” chiamata Bharata (Storia della
dinastia Bharata) che raggiungeva più o meno i 24 mila versi, quindi si arrivò
alla versione definitiva Mahabharata (La grade storia dei Bharata), completata
attorno al IV secolo d.C..
Dal
punto di vista prettamente letterario, il Mahabharata è un’opera piuttosto
caotica e confusa, sia per quanto riguarda i contenuti che lo stile.
A
causa delle continue aggiunte e delle numerosissime digressioni la trama
risulta essere ben poco lineare, mentre lo stile risente dell’influenza dei
vari autori che hanno composto l’opera, usando comunque sempre un linguaggio piuttosto
aulico e pomposo.
Anche
storicamente il Mahabharata risulta essere ben poco affidabile, descrivendo
avvenimenti talmente antichi che raramente possono essere confermati da altri
testi.
A
questo bisogna aggiungere, come previdibile ed in parte giustificabile, la
visione romanzata degli eventi; recentemente gli studiosi stanno mettendo in
dubbio addirittura la Battaglia di Kurukshetra, lo scontro finale tra i due
rami della dinastia Bharata.
Le
stime sugli eserciti impegnati che si possono trovare nel Mahabharata sono
chiaramente esagerate, ma è pur vero che molto probabilmente si trattò di una
delle prime guerre del subcontinente indiano (in particolare la regione tra i
fiumi Gange e Yamuna) dove non si affrontarono due soli eserciti, bensì due
coalizioni di più regni.
Se
letterariamente e storicamente il Mahabharata presenta alcune gravi lacune, i
campi dove eccelle sono quelo religioso, culturale e spirituale.
Non è
un’esagerazione affermare che non esista divinità, personaggio, luogo e
avvenimento mitologico indù, per quanto secondario e misconosciuto, che non sia
trattato nel Mahabharata.
L’eccessiva
vastità, che come abbiamo visto è più un limite che un beneficio dal punto di
vista prettamente letterario, diventa invece il punto di forza dal punto di
vista culturale.
Spiritualmente
infine, il Mahabharata espone alcuni dei concetti più importanti dell’induismo come
il dharma, l’etica, la moksha, liberazione, e soprattutto il karma, l’azione.
In
particolare la sezione chiamata Bhagavadgita, nel sesto dei 18 capitoli in cui è
suddivisa l’opera, descrive in maniera molto semplice e chiara quelli che sono
i principi di una vita giusta secondo l’etica indù.
Il
principe Arjuna, terzo dei cinque fratelli Pandava, trovandosi sul campo della
Battaglia di Kurukshetra con gli eserciti schierati pronti ad iniziare la
guerra, viene preso da un grande senso di rimorso a combattere contro i suoi
stessi cugini e sembra quasi intenzionato ad abbandonare la lotta.
In
suo soccorso venne Krishna, che in quel momento aveva preso le sembianze del
cocchiero di Arjuna, il quale gli spiega che quello è il suo karma (che in
questo caso potremmo tradurre con dovere), contro il quale non può fare nulla:
i cugini Kaurava vogliono usurpare il trono e come comandante dell’esercito è
compito di Arjuna fermarli.
L’unico
modo per non essere influenzato dalle azioni che compirà è non identificarsi
con queste, senza sviluppare attaccamento verso di esse e soprattutto senza
aspettarsi nessun frutto o vantaggio.
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