mercoledì 15 febbraio 2017

Il racconto Chuha aur main

Simpatico e significativo racconto di Harishankar Parsai, intitolato “Chuha aur main”, Il topo ed io.

Subito pensavo di intitolare questo pezzo “Io e il topo”, ma quel topo è riuscito a dare una lezione al mio ego. Quello che io non sono riesco a fare, c’è riuscito quel topo di casa mia. Quello che gli abitanti di questo paese non capiscono, a me lo ha fatto capire lui, che in qualche modo, alla fine, è riuscito ad ottenere il suo cibo.

In questa casa c’è un grosso topo. Quando c’era la moglie di mio fratello, in casa si preparava da mangiare. Dopo, a causa di alcuni incidenti in famiglia, come la morte di mio cognato, siamo andati per un po’ di tempo a vivere da un’altra parte e questa casa rimase deserta parecchi giorni.
Quel topo si era promesso che in qualche modo avrebbe trovato da mangiare solo in questo posto; una promessa che neppure gli uomini riescono a mantenere, ma il topo ci riuscì.
Più o meno la casa rimase chiusa per quarantacinque giorni. Quando tornai da solo, aprii la porta e vidi subito sul pavimento dei pezzetti di ceramica e vetro; probabilmente sarà andato in cerca di qualcosa da mangiare tra le tazze o nelle scatole.
Non trovando niente in questa casa, sarà andato a cercare da qualche vicino ed è sopravvissuto, ma non se ne è andato da qui. Ormai aveva deciso che questa era casa sua.

Quando entrai, accesi la luce e vidi che quello, squittendo di felicità, correva da una parte all’altra. Forse avrà pensato che ora in questa casa si sarebbe cucinato, le scatole sarebbero state aperte ed avrebbe potuto trovare un po’ di cibo. Tutto il giorno girava beatamente per la casa, io lo vedevo, ma mi rallegrava la sua gioia sfrenata.
E comunque in casa non si iniziò a cucinare.
Io ero da solo e a pranzo andavo a mangiare dalla mia sorella che abita qua vicino. Alla sera invece mangiavo tardi, quindi mia sorella mi mandava la cena dentro a dei contenitori e quando finivo li chiudevo. Così entrambi i pasti li consumavo grazie a mia sorella e non c’era bisogno di cucinare in questa casa; quindi il signor topo non aveva speranze.
Avrà pensato “Ma che razza di casa è questa. L’uomo è arrivato, c’è anche la luce, ma non si prepara da mangiare”.

Ed a me capitò una strana situazione. Di notte il topo si avvicinava alla mia testa, saliva sulla zanzariera, iniziava a far rumore e così mi svegliava. Io lo mandavo via, ma dopo un po’ quello tornava e riprendeva a muoversi vicino alla mia testa. E questa divenne la sua abitudine quotidiana.
Aveva fame, ma come aveva fatto a capire quali erano i piedi e quale la testa? Perché lui non andava mai dai miei piedi, ma si muoveva e faceva rumore sempre sulla mia testa. Una notte riuscì addirittura ad entrare nella zanzariera e non riuscii più a dormire.
Cosa avrei dovuto fare? Pensavo di provare ad ucciderlo, ma se non ci fossi riuscito e lui fosse andato a morire in qualche nascondiglio avrebbe fatto puzzare tutta la casa.
Di giorno girava allegramente e alla notte veniva a disturbare me. Appena mi addormentavo, quello veniva a fare rumore vicino alla mia testa.

Finalmente un giorno capii che il topo voleva solo qualcosa da mangiare. Ormai aveva deciso che quella era casa sua e non se ne sarebbe andato, così di notte veniva da me e forse mi diceva “Cosa sei venuto a fare? Tu mangi e io muoio di fame. Anch’io sono un membro di questa casa e ho i miei diritti. Non ti lascerò dormire in pace fino a quando non otterrò quello che mi spetta”.
Così alla sera, quando aprivo i contenitori con la mia cena, spargevo in giro qualche briciola di papad (uno snack secco a base di farina di lenticchie). Il topo spuntava da qualche parte, prendeva un pezzetto alla volta e se li andava a mangiare sotto all’armadio. Finito di cenare, lasciavo per terra qualche pezzetto di pane e alla mattina anche quelli erano spariti.
Un giorno mia sorella mi mandò delle papad di farina di riso ed io, come sempre, ne sparsi tre-quattro pezzetti sul pavimento. Il topo venne fuori, li annusò e tornò indietro: non gli piaceva la papad di riso.  Ero stupefatto che anche il topo avesse delle preferenze. Così spezzettai del pane e lui lo fece sparire.

E quella divenne la mia abitudine. Prima di mangiare gli davo qualche pezzetto di papad, ma siccome non sarebbero bastati per placare la sua fame, quando finivo gli lasciavo del pane, che lui si mangiava durante la notte. Ed io potevo dormire tranquillo perché lui non veniva più a fare rumore vicino alla mia testa.
Poi un giorno venne con un suo fratellino. Gli avrà detto “Vieni con me in quella casa. Io disturbo il tipo che mangia e vedrai che ci darà del cibo. Questo è il mio diritto, dai andiamo!”.
Ed io pensavo “Non deve forse l’uomo diventare come questo topo? Per il diritto al suo cibo mi sale sulla testa e non mi lascia dormire in pace: quando l’idealismo di questo paese si comporterà come il topo!”.

(Con questa simpatica metafora Harishankar Parsai vorrebbe in qualche modo spronare le masse indiane a comportarsi come il topo ed a combattere per quello che gli spetta di diritto, cercando magari anche di aiutare e coinvolgere gli altri)

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