domenica 26 febbraio 2017

Il racconto "L'editore"

Il racconto di Tagore “L’editore” descrive le vicende di un uomo vedovo alle prese con la propria figlia.
Libera traduzione.

Finché mia moglie era in vita, non mi preoccupavo molto di Prabha. Ero più impegnato con sua madre che con lei. Ero felice di vederla giocare e ridere, di ascoltare la sua parlata ancora mezza formata e rispondere al suo affetto; quando ero dell’umore giusto giocavo anche con lei, ma appena iniziava a piangere la riportavo tra le braccia di sua madre e scappavo. Non consideravo quanta cura e sforzo ci vogliono per far crescere un bambino.
Con l’improvvisa morte di mia moglie, il compito di far crescere Prabha passò a me e l’abbracciai caldamente. Francamente non so chi fosse più preoccupato: io per dover crescere una figlia senza madre con il doppio dell’affetto, o lei a prendersi cura del suo vedovo padre. Ma da quando compì 6 anni iniziò ad occuparsi della casa ed era abbastanza chiaro che questa ragazzina stava cercando di diventare l’unico protettore di suo padre.
Mi divertiva lasciarmi andare interamente alle sue cure e notai presto che più io sembravo inutile ed incapace, più lei era contenta. Se prendevo il cappello o l’ombrello da solo, reagiva come se avessi usurpato un suo diritto. Non aveva mai avuto una bambola così grande come suo padre: gioiva tutto il giorno nel nutrirlo, vestirlo e prepararlo per andare a dormire. Solo quando prendevo in mano il libro di aritmetica o quello di poesie, il mio istinto paterno si svegliava leggermente.
Ogni tanto mi ricordavo che poterla sposare con un uomo rispettabile, mi sarebbe costato un sacco di soldi, ma dove li avrei presi? La stavo educando meglio che potevo, sarebbe stato un peccato se avesse sposato un sempliciotto.
Così iniziai a pensare a come guadagnare soldi, ma ero troppo vecchio per trovare un lavoro d’ufficio statale e non avevo molte speranze di entrare in qualunque altro ufficio, così dopo un lungo pensare decisi di scrivere un libro.
Se si fanno dei buchi ad una canna di bambù, non diventa un contenitore, non ci si possono tenere acqua o olio e non può essere usata per niente di pratico. Ma se ci si soffia dentro, diventa un eccellente e gratuito flauto. Ero dell’idea che chiunque fosse così sfortunato da essere inutile in ogni lavoro pratico, sicuramente avrebbe scritto dei buoni libri. Confidando in questo, scrissi una commedia ironica, qualcuno disse che era ben scritta e venne presentata sulla scena.
Il pericoloso risultato del mio improvviso assaggio di fama fu che non potei più smettere di scrivere commedie farsesche e con espressione accigliata passavo tutto il giorno a scrivere.
Se Prabha veniva a chiedermi, con un amorevole sorriso, “Padre, non fate il bagno?”, io la liquidavo dicendole di lasciarmi in pace e non disturbarmi.
Probabilmente il viso della ragazza si rabbuiava come una lampada che si spegne all’improvviso, ma io non notavo neppure il suo silenzioso uscire dalla stanza.
Mi arrabbiavo con la donna di servizio e schiaffegiai il domestico; se sulla porta compariva un mendicante, lo mandavo via con il bastone, se un innocente passante si fermava alla mia finestra per chiedermi indicazioni (la mia stanza dava sulla strada), gli dicevo di andarsene al diavolo. Perché la gente non riusciva a capire che in quel momento stavo scrivendo una commedia da ridere?
I soldi che guadagnavo non erano proporzionati né all’ilarità delle mie farse né della mia fama ma i soldi in quel periodo non erano tra i miei primi pensieri. Nel frattempo stavano crescendo gli sposi accettabili per Prabha, che avrebbero liberato un padre da questa preoccupazione, ma io non notai neppure quelli. Probabilmente solo la fame avrebbe potuto farmi riprendere i sensi, ma si presentò una nuova opportunità.
Il capo del villaggio di Jahir mi invitò a diventare editore salariato di una giornale che stava fondando. Accettai e dopo pochi giorni stavo scrivendo con un tale fervore che la gente iniziava a riconoscermi ed indicarmi per la strada e secondo il mio personale parere ero accecantemente brillante come il sole del pomeriggio.
Vicino a Jahir vi era Ahir ed i due capovillaggio erano acerrimi nemici. Precedentemente le loro dispute finivano con risse e violenza, ma ora il magistrato li aveva obbligati a mantenere la calma ed il capo di Jahir utilizzava me invece dei suoi scagnozzi.
Tutti dicevano che compivo il mio dovere con onore e gli abitanti di Ahir erano intimiditi dalla mia penna, che inceneriva la loro storia ed il loro passato.
Quello fu sicuramente un buon periodo per me, divenni grasso ed avevo un perenne sorriso stampato sul viso. Facevo delle devastanti sortite verbali contro gli abitanti di Ahir ed i loro antenati, e tutti a Jahir si sbellicavano per il mio umorismo; ero beatamente felice.
Alla fine, anche il villaggio di Ahir fondò un giornale. Aveva un linguaggio aggressivo e lanciavano insulti con tale zelo ed in modo così crudo e volgare che sembrava che le stesse lettere stampate sulle pagine strillassero. Gli abitanti di entrambi i villaggi sapevano cosa si intendeva, ma io, secondo il mio stile, attaccavo i miei nemici con umorismo, sottigliezze ed ironia, tanto che né i miei amici né i miei oppositori capivano quello che volevo dire. Il risultato era che sebbene io vincessi le discussioni, tutti pensavano che avessi perso.
Quindi sentii il dovere di scrivere un saggio sul buon gusto, ma scoprii che anche questo sarebbe stato un errore, poiché, se è facile ridicolizzare qualcosa di buono, è invece difficile ridicolizzare qualcosa che è già ridicola.
I miei datori di lavoro diventarono freddi nei miei confronti e non ero più il benvenuto a cerimonie pubbliche. Quando uscivo nessuno mi riconosceva o parlava con me, anzi qualcuno iniziava a ridere vedendomi. Mi sentivo come un fiammifero, che aveva fatto luce per un minuto dopodiché si era spento. Ero così amareggiato che per quanto mi forzassi a pensare, non riuscivo più a scrivere nemmeno una riga. Stavo iniziando a pensare che non avevo più un motivo per vivere.

Prabha ora aveva paura di me. Non aveva il coraggio di avvicinarsi se non era stata invitata e probabilmente finì per pensare che una bambola di terracotta sarebbe stata un compagno migliore di un padre che scriveva satira.
Un giorno divenne evidente che il giornale di Ahir stava iniziando a concentrarsi su di me invece che sul capo villaggio ed iniziarono a scrivere cose spregevoli. I miei amici mi portarono le copie del giornale e me le lessero molto divertiti. Alcuni dicevano che, a parte il contenuto, il linguaggio era superbo, intendendo che le calunnie contenute erano facili da capire, e dovetti sentire questa stessa opinione per tutto il giorno.
C’era un piccolo giardino di fronte a casa mia. Una sera era seduto lì da solo, stufo di questa situazione e notai gli uccelli che tornavano ai loro nidi e semttevano di cantare, lasciandosi andare liberamente alla pace della sera. Pensai che non ci sono combriccole di autori satirici tra gli uccelli, né discussioni sul buon gusto, ma continuai ad essere preoccupato su come avrei risposto ai miei calunniatori.
Uno dei problemi con la raffinatezza è che non tutte le persone la capiscono. La scrittura rozza è relativamente comune, così decisi di rispondere usando uno stile rozzo, non mi sarei dato per vinto! In quel momento sentii una piccola e familiare voce nel buio della sera, quindi una tenera e calda mano che toccava la mia. Ero così preoccupato e distratto che nonostante riconoscessi la voce ed il tocco, quasi non me ne accorsi. Ma un momento dopo la voce stava gentilmente avvicinandosi alle mie orecchie ed il delicato tocco si stava intensificando. C’era un ragazza di fianco a me e stava chiamando dolcemente “Padre”. Quando non ricevette nessuna risposta, prese la mia mano destra e l’avvicinò per un attimo alle sue guance, quindi tornò lentamente dentro casa.
Prabha non mi aveva chiamato così da molto tempo e non mi aveva più mostrato quel genere di affetto, così il tenero tocco di quella sera andò diretto al mio cuore.
Dopo un po’ anch’io rientrai in casa e vidi Prabha che giaceva su una sedia; sembrava distrutta ed i suoi occhi erano socchiusi, come un fiore, appassito a fine giornata. Misi una mano sulla sua fronte ed era molto calda, come il suo respiro, e le vene sulle tempie stavano pulsando. Solo allora realizzai che la ragazza, agitata dal principio della malattia, era andata da suo padre sperando in cuor suo di ricevere attenzioni ed affetto, mentre suo padre in quel momento era impegnato a pensare ad una infuocata risposta per il giornale di Jahir.
Mi sedetti di fianco a lei. Senza dire nulla, tirò la mia mano tra le sue, vi avvicinò le guance e rimase sdraiata.
Io feci un falò con tutti i giornali di Jahir ed Ahir e non scrissi mai la mia risposta, e la cosa mi diede la più grande felicità che avessi mai provato.

Quando era morta sua madre, avevo tenuto Prabha nel mio grembo, ora, dopo aver cremato la sua madre adottiva – il mio scrivere – l’avevo presa tra le mie braccia e portata a letto.

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