domenica 19 febbraio 2017

Il racconto "Il ritorno del piccolo padrone", II parte

Raicharan tornò al suo villaggio. Sua moglie non gli aveva ancora dato un figlio e lui ormai aveva smesso di sperarci, ma prima che l’anno finisse, la sua non più giovane moglie partorì un bambino e poco dopo morì.
All’inizio Raicharan non nutriva altro che odio verso il nuovo nato, che secondo lui in qualche modo, con l’inganno, aveva preso il posto del suo piccolo padrone. Gli sembrava un peccato mortale rallegrarsi per suo figlio dopo che aveva lasciato che il bambino del suo padrone annegasse. Se non ci fosse stata con lui la sua sorella vedova, il bambino non avrebbe respirato l’aria della Terra a lungo.
Dopo pochi mesi, sorprendentemente, il bambino iniziò a gattonare sopra la cornice della porta ed a mostrare un’allegra abilità ad evadere da ogni tipo di restrizione. Ridacchiava e vagiva esattamente come aveva fatto il piccolo padrone. Qualche volta, quando lo sentiva piangere, Raicharan aveva un tuffo al cuore; gli sembrava che il piccolo padrone piangesse da qualche parte e chiamasse Raicharan. Phelna, così lo chiamava la zia, iniziò a chiamare lei “Pishi” e quando Raicharan sentì quel nome familiare pensò “Il piccolo padrone non può fare a meno del mio amore: è rinato nella mia casa”.

C’erano molto prove che lo convincevano di questa cosa. Pima di tutto, era passato pochissimo tempo tra la morte del piccolo padrone e la nascita di suo figlio. Secondo, sua moglie, a quella tarda età, non avrebbe potuto partorire solo grazie alla sua fecondità. Terzo, il bambino gattonava, trotterellava e chiamava la zia “Pishi”, esattamente come aveva fatto il piccolo padrone. C’era abbastanza per indicare che anche lui da grande sarebbe diventato un magistrato. Raicharan quindi si ricordò dei sospetti della padrona della casa e realizzò, con sorpresa, che il suo materno istinto le aveva detto con ragione che qualcuno le aveva rubato il figlio. Ora Raicharan provava vergogna per aver trascurato il suo bambino e gli tornò la sua antica devozione. Da quel momento in poi lo fece crescere come il figlio di un uomo ricco. Gli comprò camicie di raso ed un cappello con ricami dorati, e fece fondere i gioielli della sua defunta moglie per farne dei bracciali per lui. Gli proibì di giocare con gli altri bambini e per tutto il giorno faceva lui da suo compagno di gioco. Quando gli capitava l’occasione, i bambini del vicinato prendevano in giro Phelna per essere un principino ed anche gli adulti erano stupiti dello strano comportamento di Raicharan.
Quando Phelna fu abbastanza grande da andare a scuola, Raicharan vendette i suoi terreni, si trasferì col figlio a Calcutta, trovò un lavoro e mandò Phelna in una scuola di prima scelta. Risparmiava in tutti i modi per poter dare a suo figlio buon cibo, bei vestiti ed una decente educazione, dicendosi tra sé “Se è stato l’amore per me che ti ha portato in questa casa, caro bambino, non puoi aver altro che il meglio”.

Dodici anni passarono in questo modo. Il ragazzo procedeva bene con gli studi ed era piacevole a guardarsi: ben piantato, con una brillante carnagione scura, stava attento ai suoi capelli ed aveva gusti raffinati. Non poteva pensare a suo padre, come fosse suo padre, perché lui non lo trattava con affetto paterno, ma con la devozione di un domestico. A suo discredito, Phelna non disse mai a nessuno che quello era suo padre. Gli studenti dell’ostello dove Phelna viveva scherzavano sempre sul rustico Raicharan e non si può negare che quando suo padre non era presente, anche Phelna si univa alle prese in giro. Ma erano tutti affezionati al gentile ed affettuoso Raicharan ed anche Phelna gli voleva bene, ma, a costo di ripeterlo, non come a un padre; l’affetto era sempre mischiato con una certa sufficienza ed un’aria di superiorità.
Raicharan divenne vecchio ed i suoi datori di lavoro continuavano a trovargli dei difetti; la sua salute si stava deteriorando, aveva problemi a concentrarsi quando lavorava ed iniziava a dimenticarsi le cose. Ma nessun datore di lavoro che paga l’intero stipendio accetta la vecchiaia come una scusa. In più i soldi che aveva raccolto vendendo i suoi possedimenti stavano finendo e Phelna ora si lamentava che non aveva bei vestiti e i soliti lussi.

Un giorno, all’improvviso, Raicharan si licenziò, diede dei soldi a Phelna e gli disse “È successo qualcosa e devo tornare al villaggio per qualche giorno”, quindi si recò a Barasat, dove viveva il vecchio padrone Anukul, diventato ora magistrato.
Anukul non aveva avuto altri figli e sua moglie era ancora in lutto per il loro bambino scomparso.
Una sera Anukul si stava riposando, dopo essere tornato dal tribunale, mentre sua moglie era in casa dopo essere riuscita, con notevole spesa, a comprare da un asceta una radice sacra ed una benedizione che gli avrebbero portato un figlio, e si sentì una voce nel giardino “Saluti”.
“Chi è?”, chiese Anukul.
E comparve il vecchio domestico “Sono Raicharan”, disse, inginocchiandosi rispettosamente davanti al suo passato padrone.
Il cuore di Anukul si sciolse alla vista di Raicharan, gli chiese delle sua condizione attuale e lo invitò a tornare a lavorare per lui.
Raicharan sorrise umilmente “Fatemi porgere i miei rispetti alla padrona”.

Il signor Anukul lo fece entrare in casa, ma la moglie non sembrava molto felice di rivedere Raicharan. Lui non se ne curò, giunse le mani al petto e disse “Padrone, padrona, sono stato io a rubare vostro figlio, non il fiume Padma o chi altro. Io, ingrato mascalzone che non sono altro”.
“Cosa stai dicendo?”, chiese Anukul, “Dov’è adesso?”.
“Vive con me”, rispose Raicharan, “ve lo porterò dopodomani”.
Quel giorno era domenica ed essendo il tribunale chiuso, marito e moglie iniziarono a scrutare la strada fin dalle prime luci dell’alba. Alle dieci arrivò Raicharan con Phelna.
La moglie di Anukul, senza neppure pensarci o porsi qualche domanda, se lo avvicinò al petto, iniziò a toccarlo, ad annusarlo ed a ridere e piangere nervosamente. Indubbiamente il ragazzo era piacevole a vedersi, niente sembrava suggerire che fosse cresciuto in condizioni povere o disagiate. Aveva un’espressione amorevole, modesta ed imbarazzata, ed anche il cuore di Anukul, a vederlo, si riempì di gioia. Ma mantenendo un certo contegno chiese a Raicharan “Che prove hai?”.
“Come potrei provare una cosa del genere?”, rispose lui, “Solo Dio sa che io ho rubato vostro figlio, nessun altro lo sa”.
Anukul ponderò a lungo la situazione e decise che, visto che sua moglie aveva abbracciato il ragazzo con tale fervore, sarebbe stato inappropriato adesso cercare delle prove; qualunque sia stata la verità, ora era meglio semplicemente fidarsi. In ogni caso: come avrebbe potuto Raicharan procurarsi un ragazzo del genere? E perché ora il vecchio domestico dovrebbe cercare di ingannarli?

Interrogando il ragazzo, scoprì che aveva sempre vissuto con Raicharan, che lo chiamava “Papà”, ma che Raicharan si era sempre comportato più come un domestico che come un padre. Cercando di dissipare ogni dubbio dalla propria mente, Anukul disse a Raicharan “Ma tu ora non dovresti oscurare di nuovo la nostra casa”.
Giungendo le mani al petto e con voce tremolante, Raicharan replicò “Sono vecchio ormai, padrone, dove potrei andare?”.
“Fallo rimanere”, disse la padrona, “L’ho perdonato, lasciamo che nostro figlio sia benedetto”.
“Ma non può essere perdonato per quello che ha fatto”, disse giustamente Anukul.
“Non sono stato io”, disse Raicharan piangendo e buttandosi ai piedi del suo padrone, “è stato il volere di Dio”.
Ancora più irritato che ora Raicharan incolpasse Dio per i suoi misfatti, Anukul disse “Uno non dovrebbe fidarsi di chi lo ha già tradito una volta”.
Alzandosi dai piedi di Anukul, Raicharan disse “Non sono stato io, padrone!”.
“E chi è stato allora?”.
“È stato il mio fato”. Nessun uomo istruito avrebbe accettato una simile spiegazione, così Raicharan aggiunse “Non ho nessun altro al mondo!”.
Phelna era seccato che Raicharan avesse rubato lui, il figlio di un magistrato, e lo avesse reclamato come suo, ma disse, generosamente, ad Anukul “Padre, per favore, perdonatelo. Se non volete che rimanga in casa nostra, almeno concedetegli una piccola rendita mensile”.

Raicharan, senza dire nulla, guardò suo figlio, fece un inchino, quindi uscì dalla porta e sparì tra la moltitudine del mondo. A fine mese, quando Anukul mandò una piccola somma di denaro a Raicharan all’indirizzo del suo villaggio, i soldi tornarono indietro. In quel villaggio non c’era nessuno con quel nome.

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