mercoledì 8 febbraio 2017

Il racconto "Kabuliwallah", II parte

Era un perfetto clima autunnale. Nell’antichità, i re iniziavano le loro campagne militari in autunno. Ma io non sono mai andato via da Calcutta ed è proprio per questo che la mia mente viaggia per tutto il mondo; sembra che sia condannato a stare a casa mia, ma desidero conoscere quello che c’è al di fuori. Se sento il nome di qualche paese straniero, subito il mio cuore viaggia in quella direzione e quando vedo uno straniero, subito mi immagino un cottage su una riva o tra le montagne, e penso alla vita libera e felice che potrei condurvi. Allo stesso tempo, sono una persona così profondamente radicata che appena lascio gli ambienti a me familiari, praticamente collasso. Quindi, una mattinata trascorsa a chiacchierare nel mio piccolo studio con questo Kabuliwallah per me era già una bel fantasticare. Alte e rosse montagne di sabbia ai lati dei sentieri del deserto, cammelli carichi, mercanti col turbante, viaggiatori vari, chi a dorso di cammello chi a piedi, alcuni con delle lunghe spade, altri con vecchi fucili; il mio amico parlava del suo paese natale, con quel suo bengalese stentato, e subito nella mia mente appariva un’immagine di quei posti lontani.

La madre di Mini si allarma molto facilmente. Al minimo rumore che sente dalla strada, subito pensa che orde di criminali ubriachi si stanno avvicinando a casa nostra. Non riesce a togliersi dalla mente che il mondo sia invaso di ladri, banditi, predoni, ubriachi, serpenti, tigri, malaria, millepiedi, scarafaggi, eccetera. Quindi non era molto contenta di Rahamat, il Kabuliwallah, e continuava a dirmi di tenerlo d’occhio. Se cercavo di ridere dei suoi sospetti, lei si lanciava in una serie di domande retoriche “Allora i bambini non vengono rapiti? Non c’è la schiavitù in Afghanistan? Sarebbe impossibile per un afghano grande e grosso rapire una piccola bambina?”. Ammetto che era possibile, ma difficile da credere. Le persone si suggestionano in maniera diversa, per questo lei rimaneva sulle sue, ma io continuavo a non vederci nulla di male se Rahamat veniva a casa nostra.

Tutti gli anni, intorno a Gennaio-Febbraio, Rahamat tornava a casa. Era sempre molto indaffarato prima di partire, per raccogliere i soldi che gli erano dovuti. Doveva andare di casa in casa, ma riusciva lo stesso a trovare il tempo per venire a visitare Mini. A vederli insieme uno pensava sempre che stessero complottando qualcosa. Se non riusciva a passare di mattino, spesso faceva un salto alla sera; indubbiamente vedere la sua lunga figura, in un angolo della casa ormai buia, nei suoi grandi e malconci vestiti, poteva fare un certo timore. Ma il mio cuore si accendeva quando vedevo Mini che correva verso di lui ridendo e chiamando “Kabuliwallah, Kabuliwallah!”, ed iniziavano i loro soliti scherzi da vecchi amici, nonostante l’enorme differenza di età.

Una mattina ero seduto nel mio studio che stavo correggendo alcuni capitoli del mio romanzo. Gli ultimi giorni d’inverno erano stati molto freddi; il sole stava splendendo attraverso la finestra fino ai miei piedi e quel caldo tocco mi faceva molto piacere. Saranno state le otto del mattino, quando dalla strada iniziò a sentirsi del baccano. Guardai fuori e vidi Rahamat in manette, in mezzo a due poliziotti e dietro di loro una folla di curiosi. I vestiti di Rahamat erano sporchi di sangue ed uno dei poliziotti aveva in mano un coltello insanguinato. Così corsi fuori e chiesi cos’era successo. Venni a sapere, in parte dai poliziotti e in parte da Rahamat stesso, che uno dei nostri vicini gli doveva dei soldi per uno chador, aveva cercato di scappare e nella rissa seguente Rahamat l’aveva accoltellato.
Stava ripetendo una serie di improperi verso il debitore quando Mini uscì di casa urlando “Kabuliwallah, Kabuliwallah!”. Per un momento il viso di Rahamat si illuminò, ma non aveva il suo borsone e non poterono fare il loro solito gioco. Mini si diresse verso di lui e gli disse “Stai andando dal tuo svasur-bari?”.
“Sì, sto andando là”, disse Rahamat con un sorriso. Ma quando si accorse che la sua risposta non aveva divertito Mini, mostrando i pugni ammanettati disse “Avrei ucciso il mio svasur, ma come faccio con queste?”.

Rahamat fu trovato colpevole di tentato omicidio e rinchiuso in prigione per molti anni, quindi praticamente sparì dalle nostre menti. Vivendo in casa, con la nostra routine, non pensavamo a come quello spirito di libero uomo di montagna potesse trascorrere i suoi anni chiuso in una cella. Per quanto riguarda Mini, perfino suo padre potrebbe dire che il suo comportamento non fu encomiabile e si dimenticò in fretta del suo amico. Dapprima Nabi, lo stalliere, lo sostituì nei suoi affetti, più tardi, crescendo, altre ragazze, piuttosto che bambini, divennero le sue amiche. Smise addirittura di venire nello studio di suo padre ed io, in un certo senso, la lasciai andare.

Passarono alcuni anni, era di nuovo autunno e ci stavamo preparando per il matrimonio di Mini; il nostro orgoglio e la nostra gioia presto, come Durga verso il Monte Kailash (residenza di Shiva), rabbuierà la casa dei suoi genitori muovendosi in quella di suo marito.
Era una bellissima mattinata; la luce del sole, lavata dalle piogge monsoniche, sembrava brillare con la purezza dell’oro e la sua radiosità donava una straordinaria grazia alle strade secondarie di Calcutta, con le sue squallide e fatiscenti abitazioni. Lo shennai (strumento a fiato indiano, considerato auspicioso durante matrimoni indù) iniziò a suonare in casa nostra che la notte era appena terminata e le sue acute vibrazioni sembravano provenire dal profondo della mia cassa toracica. Come se il raga Bhairavi (nota melodia) avesse unito le forze con la luce del sole d’autunno, per spargere su tutto il mondo il dolore della mia imminente separazione: oggi la mia Mini si sposa.

Dall’alba in poi c’era stato un continuo trambusto, un infinito andare e venire. In giardino stavano montando una tettoia con dei pali di bambù, i candelabri tintinnavano mentre venivano appesi nelle stanze e nella veranda, e tutto in mezzo ad un costante vociare.
Ero seduto nel mio studio a fare dei conti, quando all’improvviso sulla porta apparve Rahamat che mi salutò. Subito non lo riconobbi: non aveva la borsa, aveva perso i suoi lunghi capelli ed il suo vigore se ne era andato, ma quando sorrise lo riconobbi subito.
“Come stai Rahamat?”, gli chiesi, “Quando sei arrivato?”.
“Sono stato rilasciato di prigione ieri sera”, rispose.
Le sue parole mi colpirono; non mi ero mai trovato di fronte ad un possibile omicida e mi sentii a disagio. Stavo quasi pensando che in quella asupiciosa giornata sarebbe stato meglio liberarmi di quell’uomo.
“Siamo molto indaffarati oggi in questa casa. Per piacere, andate”.
Era pronto per andarsene, ma quando giunse sulla porta esitò un attimo e disse “Non potrei vedere la tua piccola bambina per un momento?”.
Sembrava che pensasse che Mini fosse ancora come quando l’aveva conosciuta lui, che sarebbe corsa verso di lui urlando “Kabuliwallah, Kabuliwallah!” e che i loro scherzi sarebbero ricominciati. Aveva addirittura portato, in memoria della vecchia amicizia, una scatola di uva ed alcune noci, avvolte in un pezzo di carta, probabilmente offertegli da qualche amico afghano, visto che lui non aveva la sua borsa.
“Siamo indaffarati oggi, non potete vedere nessuno!”, gli dissi a malincuore.
Sembrava davvero dispiaciuto, stette in silenzio per un momento, guardandomi nel profondo degli occhi, quindi disse “Babu salaam” e camminò verso la porta. Sentii una fitta in mezzo al petto e stavo per chiamarlo indietro, ma lui stesso stava tornando.
“Ho portato questa scatola di uva e le noci per la piccola, potreste darglieli?”.
Prendendoli, stavo cercando in tasca dei soldi da dargli, ma lui mi fermò e mi disse “Per favore, non datemi soldi. Vi sarò sempre riconoscente Babu. Come voi, anch’io ho una figlia, al mio paese. È con il suo pensiero in mente che sono venuto con questa uva per tua figlia; non sono venuto per vendere nulla”.
Quindi infilò una mano dentro alla sua slabrata camicia e, da un posto vicino al cuore, tirò fuori un pezzetto di carta. Dispiegandolo con cura lo aprì sul mio tavolo: c’era un’impronta di una piccola mano, non una fotografia o un disegno, la mano era stata strofinata con della fuliggine e pressata sul foglio. Tutti gli anni Rahamat portava questo ricordo di sua figlia nel taschino sul petto, quando veniva a vendere uva e frutta secca per le strade di Calcutta, come se il tocco di quella soffice, piccola e fanciullesca mano portasse conforto a quel grande petto nostalgico.
Guardandolo mi commossi, mi dimenticai che lui era un venditore afghano ed io uno studioso bengalese, e capii che lui era come me, era solo un padre come lo ero io. L’impronta della mano della sua piccola Parvati mi ricordò la mia Mini.

Mandai subiti qualcuno a chiamarla e ricevetti solo obiezioni, ma rifiutai ogni scusa.
Mini, vestita da sposa, con il sari rosso e la pasta di sandalo sulla fronte, entrò nella stanza timidamente e si fermò di fianco a me. Il Kabuliwallah rimase confuso appena la vide e non riuscì a dire nulla. Poi sorrise e disse “Piccola, stai andando dal tuo svasur-bari?”.
Mini ora sapeva che cosa voleva dire e non poteva rispondere come rispondeva una volta, arrossì e voltò lo sguardo. Pensai alla prima volta che si incontrarono ed ebbi una fitta al cuore.
Mini lasciò la stanza e Rahamat, sospirando profondamente, si sedette per terra. Capì improvvisamente che anche sua figlia era cresciuta dall’ultima volta che l’aveva vista, che avrebbe dovuto ricreare il rapporto, perché lei non sarebbe stata come era prima. Chissà cosa le era successo in questi otto anni! Sotto i raggi di sole di una fresca mattina autunnale, lo shennai continuò a suonare e Rahamat stava seduto in una stradina di Calcutta, immaginando le deserte montagne dell’Afghanistan.
Tirai fuori alcune banconote e gliele diedi dicendogli “Rahamat, torna al tuo paese, vai da tua figlia! Dal vostro benedetto incontro, anche Mini sarà benedetta”.

Dando a lui quei soldi dovetti tagliare qualche spesa del matrimonio; non potei permettermi l’illuminazione che avevo previsto e non potei invitare la banda. Le donne di casa si lamentarono per questo, ma per me la cerimonia era illuminata da una luce più gentile e dignitosa.

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