sabato 18 febbraio 2017

Il racconto "Il ritorno del piccolo padrone", I parte

“Il ritorno del piccolo padrone” è un racconto di Rabindranath Tagore dove vengono narrate le vicende del povero domestico Raicharan.
Libera traduzione divisa in due parti.

Raicharan aveva dodici anni quando andò a lavorare per la prima volta in quella casa. Proveniva dal distretto di Jessore: capelli lunghi, grandi occhi, un ragazzetto magro con una brillante carnagione scura.
I suoi datori di lavoro erano anche loro di casta kaistha ed il suo compito principale era badare al loro figlioletto di un anno, il quale, col passare del tempo, passò dalle braccia di Raicharan alla scuola, dalla scuola all’università e dall’università a magistrato della corte dstrettuale. Raicharan era rimasto il suo servo, ma ora nella famiglia c’era anche una padrona oltre al padrone e la maggior parte dei diritti che Raicharan aveva avuto finora nei confronti del signor Anukul, passarono a lei.
Sebbene le vecchie responsabilità di Raicharan fossero diminuite per la sua presenza, lei in gran parte le sostituiva con delle nuove. E quando nacque un bambino, venne completamente conquistato dalla semplice forza della devozione di Raicharan. Lo cullava con tanto entusiasmo, lo lanciava in aria con tale destrezza e gli parlottava con tanta pazienza, che il solo vedere Raicharan mandava il piccolo padrone in estasi.

Quando il bambino imparò a gattonare furtivamente sopra alla cornice della porta, ridacchiando allegramente se qualcuno cercava di fermarlo, si nascondeva in fretta da qualche parte e Raicharan era estasiato da tale non comune capacità e velocità di decidere. Andava dalla madre del bambino e le diceva “Madre, vostro figlio diventerà di sicuro un grande magistrato quando crescerà, guadagnerà una fortuna”.
Il fatto che ci fossero altri bambini al mondo che a quell’età sapessero sgattaiolare sulla porta era impensabile per Raicharan; solo un futuro magistrato poteva compiere una simile impresa. Anche i suoi primi passi furono sorprendenti e quando iniziò a chiamare “Ma” sua madre, “Pishi” la zia Pishima e “Channa” Raicharan, lui raccontava queste straordinarie conquiste a tutti quelli che incontrava. Era stupefacente che non solo chiamasse la madre “Ma” e la zia “Pishi”, ma anche Raicharan “Channa”! Davvero, era difficile capire da dove provenisse tanta intelligenza.

Ben presto Raicharan dovette iniziare a mettersi una corda al collo e fingere di essere un cavallo; o di essere un lottatore e combattere con il bambino, e se non si lasciava sconfiggere e buttare a terra, doveva pagarne le conseguenze.
A quel tempo Anukul si era trasferito in un distretto vicino al fiume Padma ed aveva portato un passeggino da Calcutta per suo figlio. Raicharan lo vestiva con camice di raso, un cappello con ricami dorati, bracciali d’oro, due cavigliere e portava il giovane principe fuori a prendere un po’ d’aria sul suo passeggino due volte al giorno.
Quando venne la stagione delle piogge, il fiume Padma iniziò ad ingoiare giardini, villaggi e campi con grandi ed assetati sorsi. I boschetti ed i cespugli sparirono dalle rive del fiume, con il gorgoglio dell’acqua tutt’attorno ed il rumore degli argini che si sgretolavano e finivano in acqua, con la schiuma che scorreva veloce e mostrava quanto fosse diventata potente la corrente.

Un pomeriggio era nuvoloso, ma non sembrava che sarebbe piovuto, ed il piccolo padrone di Raicharan si rifiutava di stare in casa, così salì sul suo passeggino e Raicharan lo spinse con attenzione sulla riva del fiume al di là dei campi. Non c’erano barche in giro e nessuno stava lavorando nei campi; attraverso gli spazi tra le nuvole si poteva osservare il sole che si preparava, con silenziosa fierezza, alla cerimonia di assestamento dietro al deserto letto di sabbia dall’altra parte del fiume.
All’improvviso il silenzio venne interrotto dalle grida del bambino che urlò “Fioli, Channa, fioli!”.
Poco lontano c’era un gigantesco albero di kadamba, su una fangosa lingua di terra, con dei fiori sui rami più alti; erano questi che avevano colto l’attenzione del bambino. Alcuni giorni prima, Raicharan aveva attaccato alcuni fiori di kadamba a dei rami, creando così un carretto di kadamba, ed il bambino si era divertito così tanto a spingerlo con una corda, che quel giorno Raicharan non aveva dovuto indossare le redini, con un’istantanea promozione da cavallo a stalliere.

Raicharan non aveva molta voglia di sguazzare nel fango per andare a prendere i fiori, così indicò verso un’altra direzione e disse “Guarda, guarda quell’uccello che vola. Oh, se ne è andato. Vieni uccello, vieni!”. Spinse il passeggino avanti velocemente farfugliando in questo modo, ma era inutile cercare di distarre così puerilmente un bambino che un giorno sarebbe diventato un magistrato, specialmente non essendoci niente in particolare che potesse spostare la sua attenzione da un’altra parte e gli uccelli immaginari non avrebbero funzionato a lungo.
“Va bene”, disse Raicharan, “tu stai qui seduto e ti vado a prendere i fiori, Stai bravo ora e non andare vicino all’acqua”, e alzandosi il dhoti (telo che funge da pantaloni) fin sopra alle ginocchia, si diresse verso l’abero di kadamba.
Ma il semplice fatto che gli era stato proibito di andare vicino al fiume, aveva immediatamente spostato l’attenzione della mente del bambino dai fiori all’acqua. La vedeva gorgogliare e mulinare, come se migliaia di ondine stessero maliziosamente ed allegramente sfuggendo verso il luogo proibito, lontano dal raggio di un qualche potente Raicharan; ed il bambino era eccitato dal loro dispettoso esempio. Scese quindi dal suo passeggino e si avvicinò all’acqua. Prendendo un lungo giunco, si spinse in avanti facendo finta che fosse una canna da pesca; le divertenti e gorgogliose ondine sembravano mormorare un invito al bambino di unirsi al loro gioco.
Si sentì semplicemente un pluf, ma sulle rive del fiume Padma, durante la stagione delle piogge se ne sentivano parecchi di rumori del genere.

Raicharan aveva riempito di fiori di kadamba una piega del suo dhoti, scese dall’albero, si diresse verso il passeggino ridendo, finché non si accorse che il bambino non c’era più. Guardandosi attorno, non vide nessun segno della sua presenza e gli si gelò il sangue nelle vene. L’universo all’improvviso gli sembrò irreale, pallido e torbido come il fumo, ed un singolo acuto urlo uscì dal suo cuore affranto.
“Padrone, piccolo padrone, mio caro, dolce piccolo padrone”, iniziò a gridare, ma nessuno rispose “Channa”, e non si sentì in risposta nessuna risata biricchina. Il fiume Padma continuava a mulinare e gorgogliare, come se non sapesse nulla o non avesse tempo per stare attento ai piccoli avvenimenti del mondo.

Scese la sera e la madre del bambino, non vedendolo, iniziò ad essere preoccupata, così mandò un gruppo di persone con le torce a cercarlo. Giunti sulle rive del fiume trovarono Raicharan che vagava per i campi singhiozzando “Padrone, mio piccolo padrone!”.
Alla fine tornò a casa e si buttò ai piedi della padrona piangendo e rispondendo alle sue domande “Non lo so, madre, non lo so!”.
Sebbene tutti sapessero che il colpevole era il fiume Padma, i sospetti caddero su un gruppo di zingari che erano accampati al margine del villaggio. La padrona di casa addirittura iniziò a sospettare che Raicharan avesse rapito il bambino ed arrivò a chiamarlo e dirgli apertamente “Riportami mio figlio! Ti darò tutti i soldi che vuoi”.

Ma Raicharan poté solo battersi il petto e lei gli ordinò di sparire dalla sua vista. Il signor Anukul provò a scacciare gli infondati sospetti di sua moglie: che motivo avrebbe avuto Raicharan per compiere un gesto tanto spregevole? “Cosa vuoi dire?”, gli diceva sua moglie, “Il bambino indossava bracciali d’oro, no?”.

Nessun commento:

Posta un commento