domenica 12 febbraio 2017

Il racconto "The postmaster"

Il seguente racconto di Rabindranath Tagore si intitola “The postmaster”, traducibile con “Il direttore dell’ufficio postale”, e descrive la prima traumatica esperienza lavorativa di un ragazzo di Calcutta, in un ameno paesino della campagna bengalese.
Libera traduzione.

Come primo incarico da direttore di ufficio postale, venne inviato nell’umile villaggio di Ulapur. C’era una fabbrica di indaco lì vicino ed il responsabile inglese era riuscito, con notevoli sforzi, a farvi installare un ufficio delle poste.
Il direttore era un ragazzo di Calcutta, un pesce fuor d’acqua in un villaggio del genere. L’ufficio era situato in una buia baracca con il tetto di paglia, vicino ad uno stagno ricoperto d’erbaccia e circondato dalla giungla. L’agente della fabbrica ed i lavoratori avevano ben poco tempo libero e non erano la compagnia adatta per una persona istruita come il direttore dell’ufficio postale. O piuttosto, il suo background cittadino lo rendevano un pessimo miscuglio; in un posto sconosciuto sembrava o arrogante o a disagio, quindi non c’erano molti contatti tra lui e i residenti dell’area.
Ma il giovane direttore aveva pochissimo lavoro da sbrigare, così ogni tanto provava a scrivere poesie. La benedizione di spendere la propria vita guardando le foglie degli alberi tremolare o le nubi nel cielo, questo era ciò che esprimevano le sue poesie. Sebbene, Dio sapesse che se un genio uscito da una favola araba fosse venuto ed avesse tagliato tutti gli alberi, costruito una strada ed ostruito il cielo con alti palazzi, questo giovane uomo ben istruito che ora sembrava mezzo morto, sarebbe resuscitato.
Il salario da direttore era piuttosto misero, doveva cucinarsi da solo ed un’orfanella del villaggio gli curava la casa in cambio di un po’ di cibo. Si chiamava Ratan, aveva circa dodici-tredici anni e ormai sembrava improbabile che si sarebbe mai sposata. Alla sera, quando il fumo si alzava dalle stalle, i grilli trillavano tra i cespugli, le bande di baul (cantatori erranti tipici del Bengala) ubriachi cantavano raucamente in un villaggio lontano al ritmo di tamburi e cimbali, e perfino un poeta, seduto da solo nell’oscura veranda avrebbe potuto sussultare al tremolio delle foglie, il direttore rientrava in casa, accendeva una piccola lampada in un angolo della stanza e chiamava Ratan. Lei aspettava sulla porta, ma non si presentava al primo richiamo, gli rispondeva “Cosa c’è, Dadababu? Che cosa desiderate?”.
“Cosa stai facendo?”, gli chiedeva il direttore.
“Devo andare ad accendere il fuoco in cucina”.
“Puoi farlo dopo. Ora preparami la mia hookah (pipa ad acqua simile al narghilé)”.
Poco dopo Ratan entrava, con le guancie rigonfie per soffiare l’aria nella pipa, e il direttore, inziando a fumare, le chiedeva di lei “Allora, Ratan, ti ricordi di tua madre?”. Aveva molto da dirgli, ma qualcosa ricordava, qualcosa no. Suo padre le voleva più bene di sua madre e se lo ricordava un pochettino. Tornava a casa alla sera dopo il lavoro ed aveva ancora impresse chiaramente nella memoria un paio di serate particolari. Mentre parlava, Ratan si avvicinava sempre di più al direttore e finiva per essere seduta sul pavimento ai suoi piedi. Si ricordava anche del suo fratellino: un giorno, durante la stagione delle piogge, si erano messi sulla riva di un piccolo stagno a catturare i pesci con dei rami staccati dagli alberi; questo ricordo era più vivo nella sua mente di altre cose molto più importanti. Talvolta, queste conversazioni si protraevano fino a tarda notte ed il direttore era troppo stanco per mettersi a cucinare; c’era sempre qualche verdura avanzata dal pranzo, Ratan accendeva in fretta il fuoco, cucinava qualche chapati e quella era la loro cena.
Qualche rara volta, seduto su uno sgabello da ufficio in un angolo della sua grande baracca, il direttore parlava della sua famiglia, il suo fratello piccolo, sua madre, la sua sorella grande, tutti quelli verso il quale il suo cuore si struggeva, da solo e lontano com’era. Raccontava a questa ragazzina analfabeta delle cose che non si sarebbe mai sognato di raccontare ai lavoratori della fabbrica di indaco e gli sembrava anche naturale. Col tempo Ratan iniziò a riferirsi alla famiglia del direttore, la madre, la sorella ed il fratello, come se fossero i suoi. Si era anche fatta delle affettuose fotografie immaginarie di loro nella sua mente.

Era un bel pomeriggio della stagione delle piogge. La brezza era leggermente calda e nell’aria c’era l’odore dei raggi di sole sull’erba e sulle foglie bagnate. Il respiro della terra, caldo di fatica, sembrava spazzolare la pelle. Da qualche parte un uccello ostinato ripeteva il suo monotono richiamo, come un ripetuto e patetico appello alla natura. Il direttore aveva davvero ben poco da fare: l’unica cosa era guardare le lisce e luccicanti foglie lavate dall’acqua che tremolavano o gli sparsi strati di nuvole, rimasti dopo la pioggia, illuminati dal sole. Lui guardava questo e si immaginava come sarebbe stato avere lì una compagnia, un oggetto umano per i più intimi affetti del cuore. Gradualmente sembrava che l’uccello stesse proprio ripetendo questo; che nell’ombra e nella solitudine del pomeriggio lo stesso diceva il fruscio delle foglie. In pochi avrebbero creduto o immaginato che un giovane e malpagato direttore delle poste in un piccolo villaggio potesse avere nel profondo un simile sentimento.

Sospirando pesantemente, il direttore chiamò Ratan. In quel momento lei era sdraiata sotto un albero di guava mangiando un frutto acerbo, ma al richiamo del suo padrone, si alzò e corse subio da lui.
“Sì, Dadababu, avete chiamato?”, chiese senza fiato.
“Ho deciso che ti insegnerò a leggere, un pochino tutti i giorni”, le disse il direttore.
Da allora, tutti i pomeriggi le insegnava qualcosa, partendo dalle vocali, ma procedendo abbastanza velocemente alle consonanti ed alle lettere congiunte.

Durante il mese di Sravan (da metà Luglio a metà Agosto) la pioggia fu continua ed ogni canale e fossato straboccavano d’acqua. Il gracidare delle rane ed il tambureggiare delle gocce di pioggia andavano avanti giorno e notte. Era praticamente impossibile procurarsi da mangiare e bisognava andare al mercato in barca. Un giorno piovve incessantemente fin dall’alba, la discepola del direttore aspettò a lungo sulla porta, ma quando non sentì il solito richiamo, entrò in silenzio nella stanza con i suoi libri. Vide il direttore sdraiato a letto e pensando che stesse riposando iniziò a ritirarsi in punta di piedi, ma prima di lasciare la stanza, all’improvviso lo sentì chiamare. Lei si voltò e corse verso di lui “Non stavate dormendo, Dadababu?”.
“Non mi sento bene”, disse il direttore debolmente, “Controlla la mia fronte”.
Aveva bisogno di conforto, malato e miserabile com’era, in quel posto isolato, con la pioggia che cadeva a dirotto. Si ricordò del tocco sulla fronte di mani morbide, con i bracciali di ceralacca, e desiderò che sua madre e sua sorella fossero vicino a lui, a calmare la sua malattia e la solitudine con la tenerezza femminile. Ed il suo desiderio di conforto non sarebbe rimasto inappagato.

La ragazzina Ratan, ora non era più una ragazzina; da quel momento prese il ruolo di madre, chiamando il dottore, dandogli le medicine al momento giusto, stando sveglia di fianco al suo letto tutta la notte, cucinandogli cibo adatto alla sua condizione di salute e chiedendogli, centinaia di volte “State un pochino meglio, Dadababu?”.
Dopo molti giorni, il direttore riuscì ad alzarsi dal letto, magro e debole. Aveva deciso che il troppo era troppo, in qualche modo se ne sarebbe andato da quel posto. Scrisse subito all’ufficio centrale di Calcutta, per chiedere un trasferimento a causa delle condizioni malsane del luogo.

Liberata dal dover accudire il direttore, Ratan prese di nuovo il suo solito posto davanti alla sua porta, ma lui non la chiamava più come una volta. Qualche volta lei spiava all’interno e vedeva il direttore seduto distrattamente sul suo sgabello o sdraiato a letto. Mentre lei aspettava che lui la chiamasse, lui aspettava la risposta alla sua richiesta di trasferimento. Lei stava seduta davanti alla porta, ripassando le vecchie lezioni, terrificata che se lui l’avesse di nuovo chiamata, le consonanti congiunte si sarebbero potute confondere nella sua testa. Finalmente, dopo alcune settimane, una sera arrivò la sua chiamata. Ratan corse nella stanza e chiese “Avete chiamato, Dadababu?”.
“Ratan, domani vado via”, disse il direttore.
“Dove sta andando, Dadababu?”.
“Vado a casa”.
“E quando tornerà qui?”.
“Non tornerò”.

Lei non fece altre domande, ma il direttore le disse che lui stesso aveva fatto domanda di traferimento, e siccome era stata rifiutata, si era dimesso e tornava a Calcutta. Per alcuni minuti nessuno dei due parlò.
Il fuoco del lume tremolava e da un buco sul soffitto di paglia, la pioggia gocciolava dentro ad un contenitore di terracotta.
Quindi Ratan si diresse in cucina a preparare i chapati, ma senza la solita energia. Indubbiamente i suoi pensieri la stavano distraendo. Dopo che il direttore ebbe finito di mangiare, Ratan gli chiese all’improvviso “Dadababu, mi portate a casa vostra?”.
“Come potrei fare una cosa del genere”,  rispose lui ridendo, senza neppure sentire il bisogno di spiegare alla ragazza perché fosse un’idea impossibile.
Tutta la notte, sia che dormisse e fosse sveglia, Ratan sentiva la risata del direttore nelle sue orecchie “Come potrei fare una cosa del genere?”.

Quando all’alba il direttore si svegliò, vide che il catino con l’acqua per lavarsi era già pronto. Ratan non aveva potuto chiedergli a che ora se ne sarebbe andato, quindi era andata a prendere l’acqua al fiume di notte, nel caso gli fosse servita alla mattina presto.
Appena finì di lavarsi, il direttore la chiamò. Lei entrò timidamente e lo guardò senza parlare, in attesa di un ordine.
“Ratan”, le disse, “dirò alla persona che mi sostituirà di prendersi cura di te come facevo io; non ti devi preoccupare solo perché io me ne sto andando”.
Senza dubbio disse questo spinto da sentimenti premurosi e gentili, ma chi può immaginare i sentimenti di una donna? Ratan aveva sopportato senza fiatare vari rimproveri dal suo padrone, ma queste parole furono più di quello che poteva tollerare “No, no, tu non devi dire niente a nessuno. Io non voglio stare qui!”.
Il direttore fu molto sorpreso: non aveva mai visto Ratan comportarsi in questo modo.

Una volta arrivato il nuovo direttore, gli diede alcune indicazioni e prima di andare, chiamò per un’ultima volta Ratan “Ratan, non ho mai potuto pagarti, ma oggi voglio lasciarti qualcosa che ti possa durare qualche giorno”.
A parte quel poco che gli poteva servire per il viaggio, le diede tutti soldi che aveva in tasca, ma Ratan si inginocchiò davanti ai suoi piedi “Ti supplico, Dadababu, non mi dare soldi. Nessuno deve preoccuparsi per me”, e se ne andò di corsa.
Il direttore sospirò, prese la sua borsa, si mise l’ombrello sulla spalla ed insieme ad un portatore con il suo scatolone di metallo sulla testa, lentamente si diresse verso la barca.
Quando iniziò ad allontanarsi dalla riva, quando l’acqua esondata dal fiume iniziò a sollevarsi come le lacrime traboccanti della Terra, il direttore si sentì angosciato. L’immagine della semplice ragazza di villaggio distrutta dal dolore sembrava raccontare un grande, inarticolato, universale dispiacere.
Sentì il desiderio di tornare indietro: non avrebbe dovuto prendere con sé quella orfanella che il mondo intero aveva abbandonato? Ma il vento stava soffiando sulle vele, la corrente spingeva la barca ed il villaggio ormai era lontano.
Si mise quindi a riflettere filosoficamente che nella vita ci sono molte separazioni, molte morti. Che senso aveva tornare indietro? Chi appartiene a chi, in questo mondo?

Ma Ratan non aveva questa filosofia a consolarla. L’unica cosa che poteva fare era gironzolare attorno all’ufficio postale e piangere copiosamente. Forse nella sua mente c’era una flebile speranza che Dadababu sarebbe tornato e questo per lei era abbastanza per rimanere legata a quel posto e non allontanarsene.

O povero sconsiderato cuore umano! Gli errori non se ne andranno, la logica e la ragione ci mettono tempo a farsi largo. Ci attacchiamo a false speranze, rifiutiamo di credere alle prove schiaccianti contro di loro e le abbracciamo con tutta la nostra forza. Alla fine ci sfuggono, strappandoci le vene e prosciugando il sangue del nostro cuore; finché, una volta ripresa coscienza, non ricadiamo di nuovo nella trappola dell’illusione.

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