mercoledì 19 aprile 2017

Lo yeti

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La mano di Pangboche
Lo yeti è una creatura leggendaria del folklore himalayano, soprattutto di Nepal e Tibet, ma anche di India e Bhutan.
Viene descritto come un essere bipede di forma scimmiesca-umanoide, di grandi dimensioni e ricoperto da un lungo pelo, che abita le alte montagne intorno ai 5-6 mila metri di altitudine.
Sebbene siano presenti alcuni cenni ad una creatura simile in antichi testi buddisti tibetani, lo yeti iniziò a ricevere una certa notorietà internazionale dai primi anni del ‘900 con le prime spedizioni alpinistiche, i cui membri talvolta raccontavano di incontri con questo strano animale ed il rinvenimento di grandi impronte sulla neve.
Successivamente, grazie al curioso interesse dell’opinione pubblica suscitato dalla possibile esistenza di un cosiddetto “uomo delle nevi”, vennero create delle spedizioni apposite, ma nessuna finora è stata in grado di trovare delle conclusive prove concrete sulla sua reale esistenza.

Gli unici reperti conosciuti furono rintracciati in due monasteri buddisti del Nepal: il Khumjung Monastery, situato nella regione del Solukhumbu, nei pressi del Monte Everest, dove viene conservato quello che viene ritenuto lo scalpo di uno yeti; ed il Pangboche Monastery, sempre nella regione del Solukhumbu, non molto lontano dal precedente, che conservava lo scheletro di una mano.
Lo scalpo, custodito dentro ad una piccola teca di vetro, consiste in una semisfera pelosa, che dopo alcuni test da parte di studiosi occidentali si rivelò essere in realtà la spalla di un serow o capricorno dell’Himalaya (capricornis thar), un mammifero artiodattilo della famiglia dei caprinae, che abita le montagne himalayane intorno ai 3.500 metri di altitudine.
Allo stesso animale vengono ascritti anche i peli con i quali venivano confezionati dei copricapo cerimoniali buddisti e che si diceva provenissero da yeti.
La mano di Pangboche venne fotografata da una spedizione anglo-americana nel 1957, quindi nel 1959 venne trafugato un dito, per sottoporlo a studi approfonditi ed infine nei primi anni ’90 venne rubata l’intera mano, ora sostituita da una replica.
I primi esami del dito, condotti da un primatologo dell’Università di Londra, confermarono si trattasse di resti di un ominide, con similitudini con l’uomo di Neanderthal, mentre le conclusive analisi del DNA condotte ad Edinburgo nel 2011 stabilirono si tratti di semplici resti umani, seppur di grandi dimensioni.
Tra gli altri casi riguardanti supposti peli di yeti, i campioni ritrovati da Sir Edmund Hillary nel 1950 si rivelarono essere di goral (naemorthedus goral), un piccolo bovide che vive sull’Himalaya fino a circa i 4.000 metri di altitudine, al quale viene ascritto anche un misterioso ciuffo di peli ritrovato nelle Garo Hills, un’area montagnosa nel nord-est dell’India.

I numerosi avvistamenti di impronte, dei quali esistono anche numerose fotografie, non sono invece mai state prese in grande considerazione, in quanto la neve non rappresenta un materiale affidabile sulle dimensioni dei calchi; spesso infatti lo scioglimento può produrre forme alterate poco attendibili.

La spiegazione più semplice ed universalmente accettata è che si tratti di esemplari di orso azzurro tibetano (ursus arctos pruinosus), una rara sottospecie dell’orso bruno himalayano (ursus arctos isabellinus), anche lui possibilmente scambiato per uno yeti.
Generalmente questi orsi non vivono nei luoghi impervi dove sono avvenuti gli avvistamenti, ma è possibile che vi transitino in cerca di cibo o di partner per l’accoppiamento.

Lo stesso alpinista Rehinold Messner, seppur originariamente attratto dall’esoticità del folklore himalayano, dopo alcune personali ricerche, ha concluso che si tratti di orsi, come confermatogli anche dal Dalai Lama, che durante un colloquio asserì che yeti e chemo (uno dei termini tibetani per orso) sono la stessa cosa.

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