I motivi delle contorte e talvolta orribili condizioni in
cui versa la società indiana sono numerosi e molto complessi, ma a loro volta
essi sono causati da un unico madornale errore, cioè il fatto che essa sia
basata sull’aberrante principio che gli uomini, per nascita, non sono tutti
uguali e quindi non godono tutti degli stessi diritti e privilegi.
Questo principio, sorto da un’errata ed
opportunistica interpretazione sacerdotale di antichi testi sacri, trova la sua
“legittimazione” nella nota divisione in caste della società indiana.
Specifichiamo indiana e non indù poiché il fenomeno, seppur d’origine induista,
comprende anche l’islam, il buddismo, il jainismo, il sikhismo ed il
cristianesimo.
Nonostante il sistema delle caste sia
stato legalmente bandito da molti anni, ben poco è cambiato nella mente delle
persone e quindi sono ancora scarsissimi i risultati ottenuti.
La questione oltretutto è così radicata
e complessa che talvolta perfino gli sforzi fatti verso l’eliminazione di tali
pregiudizi, raggiungono invece risultati opposti.
Come esempio basta citare la
spinosissima questione che riguarda le quote riservate alle cosiddette
Scheduled Castes (i “fuori casta”) e le Tribal Comunity (le comunità tribali),
appartenenti all’ultimo gradino della scala gerarchica indiana.
Per favorire il loro ingresso nella
società, da tempo sono state promulgate leggi grazie alle quali a queste
categorie di persone vengono riservate delle quote nelle scuole, nelle università
e nei posti di lavoro statali.
In ambito accademico questo crea però
l’evidente discriminazione contraria, in quanto i già pochi posti disponibili
vengono divisi “equamente” in due. Ma se le richieste da parte delle caste
minori sono poche centinaia, quelle generali raggiungono le decine di migliaia,
creando due competizioni decisamente inique.
A questo va aggiunto anche l’ingenuo
ma imperdonabile errore di concedere a “fuori casta” e “tribali” di passare gli
esami con votazioni minori: ad esempio un test che richiede un minimo del 70%
di risposte corrette, a loro viene concesso di passarlo con circa il 50%.
Non è quindi un pregiudizio supporre
la maggior preparazione da parte dei laureati provenienti dalla classe
generale, vista l’altissima selezione, rispetto ai laureati delle classi
riservate, dove la competizione è decisamente minore.
Come risultato è noto che, ad esempio,
nessuno studente appartenente alle classi riservate deciderà mai di studiare
medicina, in quanto pochi pazienti si affiderebbero di mettere la propria
salute nelle mani di un dottore dal dubbio curriculum accademico.
La situazione è tale che le classi
riservate stesse stanno iniziando a chiedere l’abolizione delle quote.
Un’alternativa, che per fortuna sta
trovando sempre maggior appoggio politico, è quella che prevede una
differenziazione non tanto “castale” quanto economica, per dare la possibilità
di studiare anche a coloro che non possono permetterselo, ma poi l’avanzamento
deve dipendere solo dai meriti.
A riguardo bisogna notare una legge
che obbliga tutti gli istituti scolastici, compresi quelli privati, ad
ammettere gratuitamente studenti poveri in una quota del 25% del totale degli
iscritti.
Per quanto riguarda i posti di lavoro
statali, proponiamo un articolo del The Times of India intitolato “Reservation
in promotion has failed to achive its objective” (Le quote riservate nelle
promozioni hanno fallito nel raggiungere l’obiettivo).
Secondo i dati riportati risulta
infatti che, nonostante vengano riservate percentuali di circa il 15% (11% per
i “fuoricasta” e 4% per i “tribali), i posti occupati sono pochissimi, in
alcuni casi tendenti allo zero.
Ma cosa ha portato a tale situazione?
Si chiede il giornalista Pankaj Shah.
La teoria prominente suggerisce che le
persone provenienti da quelle categorie non possono qualificarsi a causa della
loro scarsa istruzione.
«Il grado di discriminazione verso
queste persone, nell’arco degli anni, ha pesantemente intaccato la loro
posizione sociale. Come risultato, la loro posizione socio-economica è crollata
sul fondo.
Questo è provato dal fatto che durante
il recrutamento non riescono a raggiungere i minimi consentiti per
qualificarsi» afferma Ajit Kumar Singh, direttore del Giri Insitute of Social
Science.
«Ancora piu evidente è il fenomeno che
riguarda i migliori posti di lavoro dove il livello e la qualità dell’istruzione
sono molto importanti».
Seppur Mr. Singh affermi che il
sistema delle quote per l’ammissione deve rimanere, egli però si oppone
decisamente alle quote sulle promozioni che, a suo sensato avviso, non possono
essere amministrate al di fuori degli effettivi meriti.
La soluzione che propone è in realtà
nota da tempo: migliorare le condizioni sociali e l’istruzione di queste
persone.
Le quali infatti affermano che la
causa di tale situazione è una “cospirazione”, da parte delle caste più alte,
che fanno di tutto per lasciarli fuori dai posti più ambiti, in quanto non
riescono a tollerare l’idea che le caste basse vengano elevate.
K.B. Ram, presidente di un’importante
associazione a favore delle quote riservate, porta ad esempio la statistica del
1990 dove su 226 posti riservati, vi furono 172 candidati e ben 157 furono
selezionati (cifre impensabili al giorno d’oggi con candidati che, come abbiamo
detto, si avvicinano allo zero).
Un altro punto evidenziato da Mr. Ram
è che essendo le caste inferiori poco rappresentate durante il processo di reclutamento,
a causa appunto del fatto che fanno fatica a raggiungere i posti più elevati,
le quote riservate per le promozioni diventano ancora più importanti,
altrimenti tutti i posti alti sarebbero occupati dalle caste superiori.
Il gruppo che sostiene invece la tesi
contro le quote riservate cita però casi in cui persone appartenenti a caste
superiori con 10-12 anni di servizio, lavorano sotto gli ordini di appartenenti
a caste inferiori con minor esperienza; fenomeno che, in effetti, a prescindere
dalle gerarchie castali, non può essere giustificato in alcun modo.
Perfino la Corte Suprema, che
recentemente ha istruito l’Alta Corte ad annullare le quote riservate nelle
promozioni, l’ha chiamato un caso di “discriminazione inversa”.
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