Passando agli strumenti a fiato della musica classica indostana,
il principale è sicuramente il bansuri,
un semplice flauto traverso di bambù.
Dotato di 6 o 7 fori, ha una lunghezza variabile da un
minimo di circa 30 centimetri ad un massimo di circa 1 metro, seppur la misura
più comune nella musica classica indiana si aggiri intorno ai 40-50 centimetri.
La lunghezza chiaramente incide sui toni, in quelli più
lunghi risultano decisamente bassi, ma è caratteristica nota dei bansuri,
rispetto ai flauti occidentali, di possedere un suono molto profondo.
Al contrario, lo shehnai,
simile ad un piccolo oboe, possiede un caratteristico suono acuto e penetrante.
Oggigiorno il suo utilizzo nella musica classica indostana
è piuttosto raro, mentre viene utilizzato ampiamente per accompagnare
processioni religiose e nuziali, grazie al suo potente suono adatto ai luoghi
aperti e ritenuto ben augurante.
È costituito da un corpo di legno, dove sono presenti dai 6
ai 9 buchi, mentre la “campana” terminale dalla quale esce il suono è in
metallo.
Venendo agli strumenti indiani a percussione, il più
importante sono sicuramente le note tabla,
che essendo composte da due tamburi di diverse dimensioni permettono una
notevole gamma di suoni.
Le pelli sono legate al fondo del tamburo grazie a legacci
che passano sopra a cilindretti di legno, muovendo i quali è possibile regolare
la tensione della pelle e quindi il suono.
Sulla pelle si trovano due cerchi, di colore nero, composti
da una pasta di manganese, riso bollito e tamarindo, che servono per modulare
il suono e dare maggiore armonicità.
Il materiale del corpo è il legno ma esistono anche tabla
di terracotta.
Quello più grande, di sonorità bassa, viene suonato di
solito con la mano destra, mentre quello più piccolo di sonorità alte con la
sinistra.
Entrambi vengono utilizzati posandoli per terra su dei
caratteristici cuscini a forma di ciambella.
Tra gli altri strumenti a percussione, merita una citazione
il pakhawaj, un grande tamburo
suonato orizzontalmente da entrambi i lati.
Il pakhawaj è considerato una variante e un discendente del
mridangam, probabilmente il più
antico strumento a percussione dell’India, seppur le differenze nella forma e
nel suono siano quasi impercettibili.
L’unica distinzione abbastanza precisa che si può fare tra
questi due strumenti è che il pakhawaj viene usato prevalentemente nella musica
indostana del nord mentre il mridangam nella musica carnatica del sud.
Come le tabla, anche loro hanno un cerchio nero sulla pelle
per modulare il suono.
Secondo la leggenda, un pakhawaj, o un mridangam, rotto in
due suggerrì l’idea delle tabla.
L’armonio, strumento a tastiera che ricorda un pianoforte
semplificato, fu introdotto in India dai missionari cristiani nella metà
dell’ottocento e riadattandone alcune caratteristiche fu presto introdotto
nella musica indiana.
L’armonio indiano è molto più piccolo di quello
occidentale, quindi facilmente trasportabile, poiché l’emissione dell’aria non
viene regolata tramite dei pedali, bensì da un sistema simile alla fisarmonica.
Il motivo del suo notevole successo anche nella musica
classica indostana è dovuto a due fattori: primo la capacità di poter emettere
vari tipi di bordoni (accompagnamenti in cui una nota o un accordo sono suonati
in modo continuo, diffusissimi nella musica indiana), molto utili soprattutto
nell’accompagnamento del canto.
Il secondo motivo è la relativa semplicità d’esecuzione
dell’armonio, soprattutto confrontandolo allo strumento che prima di lui
assolveva la funzione di accompagnare la voce umana, cioè il complicato sarangi
(http://informazioniindiaenepal.blogspot.com/2016/04/musica-classica-indostana-strumenti.html).
Essendo basato su concetti musicali occidentali fondati
sugli accordi e la modulazione delle tonalità, l’armonio risulta essere uno
strumento più pratico di quelli tradizionali indiani a cambiare tonalità,
qualità molto importante per accompagnare i brani vocali che tendono a mutare
il tono secondo la voce del cantante.
I suonatori di sarangi, invece, devono riaccordare lo
strumento e in alcuni casi addirittura cambiare corde, rendendo le operazioni
lunghe e laboriose.
I cantanti iniziarono quindi a preferire l’accompagnamento
del semplice armonio che, seppur sia in parte stonato nella musica indiana,
proprio perché basato su concetti musicali differenti, risulta sempre migliore
di quello fornito da un sarangista non espertissimo.
Il genere di canto della musica classica indostana più
diffuso al giorno d’oggi è il khyal che ha
soppiantato il più antico dhrupad.
Sviluppatosi probabilmente dalla musica mussulmana qawwali,
il khyal si basa sui raga, come il dhrupad, ma in una forma libera e flessibile
che lascia ampio spazio all’improvvisazione.
I testi delle canzoni sono piuttosto brevi, da 2 a 8 righe,
di solito in lingua urdu-hindi, e per rendere una performance standard di circa
mezz’ora, il cantante, oltre che ripetere più volte il testo, improvvisa:
cambiando la melodia delle parole, usando le sillabe più presenti nella canzone
per inventare termini musicabili, cantando semplicemente la scala delle note
indiane (sa, re, ga, ma, pa, dha, ni) sul tema musicale della canzone, o ancora
inserendo frasi basate solo su una vocale, di solito la “a”.
Il genere dhrupad, invece, prevede una maggior
improvvisazione all’inizio, la sezione chiamata alap, basata su varie combinazioni di determinate sillabe, ma poi
procede in maniera più rigida e seriosa.
I testi sono di solito di 4 righe e vengono ripetuti più
volte dal cantante.
Ciò che accomuna i due generi khyal e dhrupad sono i temi
ricorrenti: religiosi, con descrizioni di divinità o la devozione verso Dio;
elogiativi, nei confronti dei regnanti presso le cui corti venivano composti;
oppure romantici.
Per finire, citiamo i migliori rappresentanti degli
strumenti descritti, per chi volesse ascoltare qualche esempio di ottima
qualità.
Riguardo il sitar l’esponente più famoso e chiaramente uno
dei più bravi è sicuramente Ravi Shankar, ma sono ottime anche le registrazioni
del bengalese Nihil Banerjee.
I migliori esponenti della veena sono considerati Zia
Mohiuddin Dagar e Asad Ali Khan; mentre per il sarod Allauddin Khan e Radhika
Mohan Mishra.
Per il sarangi Ustad Sultan Khan e Ustad Sabri; mentre per
il santoor sicuramente il noto Shivkumar Sharma.
Tra gli strumenti a fiato, per il bansuri scontato citare
il notissimo Hariprasad Chaurasia, e per lo shennai il maestro Bismillah Khan,
deceduto pochi anni fa.
Per le percussioni, alle tabla Zakir Hussein è sicuramente
uno dei più famosi, mentre per il pakhawaj citiamo una donna, Chitrangana
Agale-Reswal; per il mridangam in genere si nomina una triade della musica
carnatica, composta da Palani
Subramaniam Pillai, Palghat T.S. Mani Iyer e Ramanathapuram C.S.
Murugabhoopathy
Uno dei maggiori esponenti dell’armonio indiano fu Pandit
R.K. Bijapure, ma è più facile trovare registrazioni del contemporaneo Kedar
Naphade.
Per i generi vocali citiamo il famossimo Bhimsen Joshi per
il dhrupad, e il non meno noto Pandit Jasraj per il genere khyal.
Performance di questi artisti sono facilmente reperibili su
youtube.
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