La dea Kali |
Dakshinkali è il nome di una divinità femminile
del pantheon indù che rappresenta un aspetto terrifico della dea Kali.
Il nome stesso, dal sanscrito dakshin che vuol dire sud, significa
“Kali del Sud” ed essendo quella la direzione della morte, il significato intrinseco
sarebbe “Colei che presiede sulla Morte”.
In un angolo meridionale della Valle
di Kathmandu, a circa venti chilometri dalla capitale nepalese, si trova uno
dei rari templi dedicati a Dakshinkali, noto tra i fedeli indù per il suo
potere spirituale e vagamente famoso anche tra i turisti stranieri, in quanto rappresenta uno
dei luoghi migliori dove assistere ai sacrifici animali.
In particolare al Martedì e al Sabato,
i giorni dedicati alla dea, lunghe file di pazienti nepalesi aspettano il loro
turno per sacrificare polli, capretti e talvolta bufali.
Per raggiungere questo angolo remoto
della valle, bisogna percorrere un lunga e dissestata strada che, uscita da
Kathmandu, costeggia la vicina città di Patan, quindi attraversa per alcuni
chilometri la ridente campagna nepalese, ed infine si inerpica su verdi e
panoramiche colline che ospitano la stretta gola dove si trova la zona sacra
preposta ai sacrifici.
Una volta parcheggiati i mezzi a
motore in un grande spiazzo, si imbocca una striscia d’asfalto che si inoltra
nella foresta, ai lati della quale si susseguono ininterrotte le file di
bancarelle dove vengono vendute le offerte: oltre ai classici fiori, incensi,
dolci e polveri colorate, alcune persone vendono anche inconsapevoli polli,
tenuti dentro a delle rotonde e grandi ceste di bambù, appoggiate per terra
capovolte, oppure altrettanto inconsapevoli capretti, semplicemente legati con
un filo ad un bastone o alla gamba di un tavolo.
La zona sacra si trova in una gola
molto verdeggiante, ma anche leggermente buia, nei pressi della confluenza di due
minuscoli ruscelli ritenuti sacri, dove in genere vengono lavati gli animali
prima di essere sacrificati.
Il tempio in sé, stranamente, non è il
classico esempio di stile nepalese a pagoda, con gli elaborati tetti in legno,
bensì consiste in un bassorilievo in pietra nera scolpito su un muro e protetto
da un grande baldacchino dorato.
Perpendicolari ai lati della statua,
vi sono due muretti di pietra, alti circa un metro e mezzo, muniti di cinque
nicchie ciascuno, all’interno delle quali vi sono altre sculture rappresentanti
la terrifica divinità.
Quest’area, che rappresenta quindi il
tempio, è delimitata da una balaustra dotata di un’apertura al centro, per
permettere l’accesso ai pellegrini.
I sacrifici vengono compiuti di fronte
alla prima immagine del muretto di sinistra e vi si può tranquillamente
assistere da pochi passi, stando attaccati alla balaustra e cercando magari di
non sporcarsi con la cera ed il burro fuso di candele e lumini accesi un po’
ovunque.
Sebbene le cerimonie di macellazione
di polli e capretti seguano differenti rituali, le differenze principali
oggigiorno sono più che altro dovute ad esigenze pratiche.
I polli, quando il devoto in fila si
avvicina alla balaustra, vengono in genere passati sopra le teste delle persone
in coda, l’addetto alle macellazioni prende il malcapitato animale, lo stringe
tra le gambe, gli rovescia il collo all’indietro e, dando due veloci rasoiate
con un grosso coltello, gli stacca la testa.
I primi fiotti di sangue vengono
indirizzati verso l’immagine della divinità in una nicchia lì vicino, quindi la
testa viene appoggiata sopra al muretto e il corpo viene rifatto passare,
ancora gocciolante, sopra gli altri devoti per essere restituito al
proprietario; questi, una volta arrivato il suo turno, entra nella zona sacra e
si dirige col suo pollo senza testa davanti all’immagine principale di
Dakshinkali, dove viene santificato.
Le teste talvolta vengono restituite,
talvolta rimangono lì per essere successivamente presentate alla divinità.
La macellazione dei capretti invece, è
leggermente più laboriosa e date le dimensioni dell’animale anche più toccante.
Il devoto entra nel recinto portando l’animale
al guinzaglio con un cordino, l’addetto gli bagna la testa con una manichetta
di plastica, che è sempre lì intorno ad erogare acqua in continuazione anche
per pulire il pavimento dal sangue, poi si mette a cavalcioni sul capretto,
mentre il proprietario l’aiuta tenendo ferme le gambe posteriori, porta
indietro il collo e, come con i polli, con due veloci rasoiate gli taglia la
testa.
Gli spruzzi di sangue vengono quindi
diretti sulla scultura preposta, quindi il corpo viene abbandonato per terra, mentre
la testa viene restituita al proprietario che si reca ad offrirla all’immagine
principale; il corpo verrà recuperato in seguito.
In ogni caso, a prescindere
dall’animale, una volta usciti dalla zona sacra, i devoti si dirigono verso una
costruzione lì nei pressi adibita alla macellazione.
A quel punto in genere tornano a casa
a preparare il pranzo, oppure, risalendo leggermente uno dei due ruscelli, possono
raggiungere una piccola radura nel bosco dove sono installati panche e tavoli
di legno per i pic-nic.
Salendo invece una scalinata che parte
dalla sinistra del santuario e si inerpica sulle colline, si raggiunge in pochi
minuti un piccolo tempio dedicato a Ganesha, dove, in totale contrasto con le
pratiche che avvengono poco più in basso in onore di Dakshinkali, vige l’ormai
raro divieto di introdurre qualunque oggetto in pelle: esempio emblematico
delle numerose sfaccettature della religione indù.
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